Costruire un polo di sinistra autonomo dal Pd per contrastare le politiche del Governo e di Confindustria

lunedì 08 giugno 2009
Dichiarazione di Paolo Ferrero

 Dopo il risultato delle elezioni europee noi avanziamo la proposta di riunificare – a partire da coloro che hanno dato vita alla lista anticapitalista e comunista - tutte le forze disponibili a costruire un polo di sinistra, autonomo dal centrosinistra e impegnato da subito a costruire la più vasta opposizione alle politiche del governo Berlusconi e di Confindustria. Il risultato delle europee ci consegna infatti una positiva battuta d'arresto di Berlusconi che non si accompagna però ad una sconfitta complessiva della destra di governo. Questo nonostante le politiche del governo scarichino i costi della crisi economica per intero sulle spalle dei lavoratori. Solo l’organizzazione di una opposizione sociale contro governo e Confindustria può aprire la strada all’alternativa e alla sconfitta delle destre

 


SPECIALE REFERENDUM: BOICOTTIAMOLO!

Facciamo fallire
il referendum del 21 giugno

Il 21 giugno saremo chiamati a votare, ancora una volta, su referendum elettorali. Certo, condividiamo il diffuso giudizio negativo sulle leggi vigenti per le elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Queste leggi espropriano le elettrici e gli elettori del diritto di scegliere i propri rappresentanti. Oggi non sono gli elettori e le elettrici a scegliere i parlamentari, questi sono nominati dai capi-partito. L'attuale sistema elettorale andrebbe trasformato radicalmente, per assicurare alle Assemblee elettive il pluralismo delle forze politiche e la massima rappresentatività del popolo italiano.
il manifesto e Liberazione 21/5/2009  continua...

appello lanciato da: Associazione No al referendum elettorale: Gianni Ferrara, Pietro Adami, Cesare, Gaetano Azzariti, Francesco Bilancia, Claudio De Fiores, Tommaso Fulfaro, Domenico Gallo, Orazio Licandro, Enzo Marzo, Mario Montefusco, Francesco Pardi, Alba Paolini, Gianluigi Pegolo, Pino Quartana, Franco Russo, Giovanni Russo-Spena, Cesare Salvi, Lorenza Carlassare, Mario Dogliani, Roberto La Macchia, Mattia Stella, Massimo Villone, Paola Massocci, Domenico Giuliva, Andrea Aiazzi, Bruno Mastellone, Sergio Pastore, Luigi Galloni

per adesioni:
fs.russo@tiscali.it

 

 

www.unaltraeuropa.eu/

 


Votate comunista, contro
le politiche del PDL e del PD

Venti anni di liberismo e di strapotere padronale ci hanno portato una crisi economica e sociale pesantissima. Venti anni di moderatismo, trasformismo, concertazione hanno tolto punti di riferimento a sinistra e contribuito pesantemente alla perdita di credibilità della politica. La destra populista oggi sguazza allegramente nella melma proponendo razzismo, egoismo individuale, identificazione nel capo. La destra è il collettore della distruzione di speranze e di coesione sociale frutto delle politiche liberiste e dell’ignavia della sinistra.
Paolo Ferrero :: Liberazione 6 Giugno 2009  continua...

 

 

 

Siamo ormai alla conclusione di questa importantissima campagna elettorale. Dopo la disfatta dell'Arcobaleno dell'aprile 2008 speriamo che con il 6 e 7 giugno si realizzi una inversione di tendenza, anche se tutto il percorso che abbiamo fatto in questo ultimo anno è stato in salita. Avevamo bisogno di ricostruire una connessione con la nostra gente, dopo la deludente esperienza del governo Prodi. Invece si è voluto fare un congresso di conta, tutto interno. Per l'ennesima volta una parte significativa del gruppo dirigente del partito, la cui posizione è stata democraticamente sconfitta in un congresso, anziché accettarne l'esito ha praticato una insensata scissione creando...

Claudio Grassi :: Liberazione 3 Giugno 2009  continua...


Mettiamocela tutta!
Care compagne e cari compagni,
siamo arrivati alla conclusione di questa difficile campagna elettorale che ci ha visti impegnati in tutto il Paese con la generosità e la passione di sempre. Vi scrivo innanzi tutto per ringraziarvi di quanto avete fatto, anche questa volta, per il Partito e per i nostri ideali, non risparmiandovi, non lesinando sforzi e fatiche. Non è stato facile. Abbiamo dovuto batterci non solo contro i nostri avversarsi naturali – le forze della destra e del centro moderato – ma anche contro la vergognosa censura dei mezzi di informazione, concordi nell'oscurarci, nel ridurre al minimo la nostra visibilità. Non solo. Abbiamo dovuto reagire contro l'ultima scissione, prodotta da compagne e compagni che – persa la battaglia congressuale a Chianciano – non hanno saputo accettare questo esito...
Claudio Grassi :: 
4 Giugno 2009  continua...

"Il mio voto comunista,
netto e chiaro"

Intervista a Pietro Ingrao: "Rifondazione è la forze più solida
a sinistra e non è possibile prescindere da lei"

«Forse sbaglio, devo capire meglio: ma il cammino della mia vita e però anche tante lotte che ho vissuto intensamente insieme con Fausto mi sembra che seguivano visioni del mondo diverse dal tanto peggio tanto meglio . E mi interrogo su quale è il mutamento in campo che chiama Fausto a questi nuovi pensieri". Un sorriso spontaneo si allarga in volto a mitigare le parole di Pietro Ingrao, di quei sorrisi paterni che esprimono un'incredulità piena di benevolenza, come sono anche il suo affetto e l'attuale dissenso nei confronti di Fausto Bertinotti e delle sue notazioni (in una...
Dino Greco e Cosimo Rossi :: Liberazione 31 Maggio 2009  continua...

«Una sinistra visibile per rimettere al centro la logica di classe e la questione del lavoro»
Intervista a Fabio Amato, responsabile Esteri Prc, candidato alle europee, capolista circoscrizione Centro per la Lista comunista e anticapitalista
Poca televisione, molto territorio nella campagna elettorale di Fabio Amato, giovane responsabile esteri, ha 36 anni, e capolista del Prc nella Lista comunista e anticapitalista, circoscrizione centro. Un giro «irrazionale», dice lui, che lo vede attraversare Umbria, Toscana, Marche e Lazio. Territori di fabbriche in crisi, sull'orlo della dismissione, sgretolate dalle delocalizzazioni, zone minacciate da nuove devastanti privatizzazioni o grandi opere. «Sto vedendo l'Italia invisibile - dice a Liberazione - che viene occultata dai grandi mezzi...

Checchino Antonini :: Liberazione 2 Giugno 2009  continua...

La forza del voto comunista
La selvaggia giungla è tra noi. La giungla delle parole, dei gesti, dei manifesti, di tutto quello che si sovrappone e si interpone al vecchio borghese comune senso del pudore. Ma di un pudore fatto più di rispetto che di ossequiosa riverenza verso una moralistica bacchettona condanna dei costumi e dei comportamenti.
Ormai si tratta di rendere evidente agli occhi e alla mente che il rispetto delle regole è un tasto saltato dal pianoforte accordato della democrazia: qualche volta stonata, altre volte mal interpretata dal maestro di turno. Oggi la melodia è un flebile ricordo e i tasti...

Marco Sferini :: redazionale 3 Giugno 2009  continua...

 

 

 

 

 

  

 Perchè una persona di sinistra non può votare Di Pietro alle elezioni europee

lunedì 04 maggio 2009

 

di Vittorio Agnoletto
(europarlamentare PRC/Sinistra Europea)
da “Il Manifesto” del 3 maggio 2009

 

Nelle ultime settimane ho avuto modo di ascoltare non poche persone di sinistra intenzionate a votare IdV, e questa stessa intenzione è stata rappresentata più volte sulle pagine di questo giornale da diversi lettori.
Il 6/7 giugno si voterà per il Parlamento Europeo e Di Pietro ha annunciato che tutti gli eletti dell'IdV a Bruxelles faranno parte del gruppo “Liberali e Democratici”, il medesimo gruppo al quale è stato iscritto lo stesso Di Pietro quand'era europarlamentare. Per valutare se sia  compatibile una rivendicata militanza a sinistra con il voto alle elezioni europee per l'IdV, penso che la cosa migliore sia analizzare il comportamento che il gruppo liberale ha tenuto verso le principali direttive nell'ultima legislatura.

 Nel settore delle politiche sociali e lavorative il gruppo Liberale ha votato:
*a favore della Bolkestein, che costituisce una vera e propria istigazione al dumping sociale e alla concorrenza al ribasso tra lavoratori dentro l'UE;
*a favore della direttiva che avrebbe prolungato l'orario di lavoro fino a 65 ore alla settimana e in alcune occasioni fino a 78, direttiva che per ora, siamo riusciti a bocciare;
*a favore della risoluzione sul lavoro nero che punisce più le vittime che i carnefici. Ed infatti prevede per i datori di lavoro, che impiegano attraverso il lavoro nero immigrati senza permesso di soggiorno, solo sanzioni pecuniarie ed invece l'immediata espulsione degli stessi migranti (a meno che siano minori o che riescano a dimostrare di essere vittime della tratta). Un vero e proprio incentivo al lavoro nero degli immigrati: chi di loro farà più una denuncia ?

I Liberali hanno anche votato a favore della direttiva della “vergogna” che prevede: la possibilità di rinchiudere nei cpt/cie i migranti sprovvisti di permesso di soggiorno, ma senza che abbiano commesso alcun reato, anche per 18 (6 +12) mesi; il rimpatrio dei migranti in Paesi differenti dai loro: ad es. chi proviene dal Sudan potrebbe essere rimpatriato in Libia, nei cpt di Gheddaffi in mezzo al deserto; il rimpatrio dei minori non accompagnati purché abbiano nel loro Paese parenti anche di grado  lontano....forse non è allora così difficile capire come mai 10 parlamentari dell'IdV si siano astenuti sul disegno di legge sulla sicurezza nel Parlamento italiano !

In politica estera, senza infierire, mi limito a ricordare il voto favorevole alla risoluzione sul potenziamento del ruolo della NATO nelle politiche di sicurezza dell'UE.
A coloro che obiettano che tutto dipende da chi, nella lista, verrà eletto, rispondo che è sempre meglio pensarci prima: può facilmente capitare (e non solo nell'IdV) che si dia la preferenza a qualcuno che è contro il liberismo e si contribuisca invece ad eleggere, con il proprio voto, un parlamentare della stessa lista pronto a sostenere la direttiva sull'orario di lavoro quando il Consiglio, come annunciato, la ripresenterà.
Inoltre è bene sapere che a Strasburgo il lavoro del singolo deputato dipende quasi totalmente dal rapporto con il gruppo parlamentare di appartenenza. Le iniziative individuali hanno uno spazio quasi nullo.
E' più che legittimo compiacersi con chi lancia grandi proclami contro Berlusconi, per altro sempre utili nel deserto del nostro attuale Parlamento italiano, ma non è sufficiente; è necessario andare a vedere quali concrete scelte sociali costui pratichi.
E sulla base della mia esperienza di cinque anni al Parlamento europeo, credo proprio che una persona di sinistra, e che tale voglia restare, il 6/7 giugno non possa votare l'IdV.

 

  Dietro l'accordo Fiat - Chrysler
La grande stampa, il governo e i vertici del partito democratico hanno salutato con euforia le recenti operazioni espansioniste della Fiat su scala globale. Oggi l’approdo nel mercato statunitense tramite l’intesa con Chrysler, e forse domani la conquista di Opel in Germania, sono stati interpretati come sintomi di quella italica capacità di “aggredire i mercati esteri” che è stata in questi giorni rimarcata dal presidente del Consiglio e da molti altri. I lavoratori tuttavia non dovrebbero lasciarsi ingannare da questa pioggia improvvisa di lustrini tricolore. La realtà infatti è che la Fiat ha acquisito il controllo...
Emiliano Brancaccio :: Liberazione 3/5/2009  continua...

 

Europee: oggi 28 aprile presentate le liste


CANDIDATI VERI NON SPECCHIETTI PER LE ALLODOLE
TANTI OPERAI E OLTRE IL 40% DI DONNE - META' INDIPENDENTI NON ISCRITTI A PARTITI


(Adnkronos) - "Noi non abbiamo candidato personaggi del mondo dello spettacolo che finiscono per essere specchietti per le allodole. Noi abbiamo in lista candidati veri".
Paolo Ferrero sottolinea cosi' la diversita' della lista per le europee che mette insieme Prc, Pdci e Socialismo 2000. Oggi insieme a Oliviero Diliberto e Cesare Salvi c'e' stata la presentazione delle candidature per il Parlamento europeo: tanti operai, intellettuali, scrittori, rappresentanti del mondo dell'immigrazione. Target giusto, insomma, per la 'lista dei comunisti' in campo in modo alternativo e distinto non solo al Pd ma anche all'altra formazione di sinistra, quella di Nichi Vendola, Verdi e Sd.

I capolista sono Vittorio Agnoletto al Nord Ovest e al Sud, Oliviero Diliberto al Centro, Lidia Menapace al Nord Est e Margherita Hack al Sud. Dietro ad Agnoletto in lista al Nord Ovest ci sono, tra gli altri, Haidi Giuliani, Ciro Argentino (operaio della Thyssen Krupp), Dijana Pavlovic (attrice Rom), Antonello Mulas (delegato Fiom Mirafiori). Al Nord Est lo scrottore Valerio Evangelisti, Cinzia Colaprico (operaia cassintegrata Zanussi), Sergio Minutillo (primario cardiologo di Trieste), Emilio Franzina (professore e esponente del movimento 'No Dal Molin').

Al centro Nicoletta Bracci (bracciante agricola), Andrea Cavola (Sdl Alitalia) e Bassam Saleh della comunita' palestinese. Al Sud Ciccio Brigati (operaio Ilva), Domenico Loffredo (operaio Fiat Pomigliano), Massimo Villone (costituzionalista). Nelle Isole, insieme alla astrofisica Margherita Hack, la scrittrice e pedagogista Renato Governali.

Unico tra i leader candidati e' Diliberto, visto che Salvi e Ferrero hanno deciso di restare fuori dalle liste. "Io penso che fare il segretario di Rifondazione sia un compito abbastanza arduo", spiega Ferrero e Diliberto sottolinea come il suo impegno per le europee sia autentico visto che non ricopre altri incarichi istituzionali: "Non faccio mica il governatore della Puglia io..."dice sarcastico riferendosi a Nichi Vendola, capolista per 'Sinistra e Liberta'.

E Cesare Salvi aggiunge che la differenza con 'Sinistra e Liberta' sta anche nel rapporto con il Pd: "Nonostante la censura mediatica la partecipazione alle nostre iniziative e' folta e combattiva, penso che la sinistra debba avere una sua autonomia dal Pd, l'altra componente della sinistra sostiene Bassolino, Renzi e Penati alle amministrative, io, pur rispettandoli, la penso diversamente. Dove e' possibile ci si allea ma dove prevale il moderatismo meglio avere la propria autonomia e propri candidati".

Quindi Diliberto guarda al futuro: "Dobbiamo abituraci a parlare con una voce sola in vista non solo della lista di oggi ma del progetto politico di domani", un progetto dalla parte dei 'deboli'.
Per questo in lista c'e' un operaio come Ciro Argentino che, insieme ad altri trenta che hanno fatto causa alla Thyssen, non e' stato riassunto dall'azienda. "Fino a quando chi si batte per i diritti resta disoccupato ci saremo noi a combattere contro queste ingiustizie. Votate per noi -dice Diliberto rivolto ai cronisti- e' l'unico voto utile".

 

Europee: presentata la lista
comunista e anticapitalista
"I nostri candidati sono tutti eleggibili, tutti in grado di fare i parlamentari europei, da noi non ci sono specchietti per le allodole". Paolo Ferrero presenta così i candidati di Prc-Pdci e Socialismo2000 alle elezioni europee per la lista Comunista Anticapitalista, durante una conferenza stampa con Oliviero Diliberto e Cesare Salvi. 
Ap Com 28/4/2009  continua...

Lista completa dei candidati alle elezioni europee 2009

 


Affari d'auto, operai a piedi
Miracolo: la più piccola multinazionale dell'auto ha il pallino in mano, nella feroce partita di bocce in corso in Europa e nel mondo. La Fiat, bilanci in rosso e indebitamento, sta facendo parlare di sé grazie alla spregiudicatezza con cui si muove il suo amministratore delegato. Da Detroit a Russelsheim, Sergio Marchionne punta a fare il pieno portandosi a casa la Chrysler e la costola europea della Gm, la Opel, senza spendere un soldo. La sorpresa è tale che nessuno sembra preoccuparsi delle conseguenze sull'occupazione e...
Loris Campetti :: il manifesto 28/4/2009  continua...

 

QUEL 25 APRILE REGALATO A BERLUSCONI

Che quest’anno Berlusconi, per la prima volta dalla sua «discesa in campo» nel ’94, abbia preso parte alle celebrazioni del 25 aprile non è una vittoria della sinistra. Non è un punto a favore dell’antifascismo. È un successo della destra e di Berlusconi, che ha impresso il proprio segno anche sulla festa della Liberazione. Ne è rimasto lontano fin quando parteciparvi lo avrebbe costretto a rendere onore alla lotta partigiana. Vi ha preso parte nel momento in cui ha potuto ridisegnarla a propria immagine e somiglianza...
Alberto Burgio :: il manifesto 28/4/2009  continua...



L'operazione "grande centro" passa anche dal 25 Aprile
Dobbiamo riflettere bene su quel che sta succedendo con questo 25 aprile. C’è nell’aria qualcosa di grosso. Berlusconi che per la prima volta decide di partecipare alla festa del 25 aprile; Napolitano che insiste sul rispetto di tutti i morti (da tutte le dichiarazioni risulta che l’accordo bipartisan è sulla categoria di “rispetto”); Franceschini che “apprezza” le dichiarazioni di Berlusconi; Alemanno che si esprime contro la legge di equiparazione tra repubblichini e partigiani…

Bruno Steri :: redazionale 28/4/2009  continua...

25 Aprile a sinistra Valentino Parlato :: il manifesto 28/4/2009

 

"Quel" 25 Aprile
No. Per conto mio, mi metto fuoririga e fuoriluogo. Il 25 Aprile non è di tutti, e noi non siamo tutti uguali, non ancora; l’antifascismo non è uguale o simile al fascismo e nemmeno il fascismo è uguale o simile all’antifascismo. No, non ancora. Sono diversi. restano diversi. E anche noi siamo “diversi”, restiamo diversi, ci piace di esserlo e di restarlo, in questi tempi di orizzonte piatto, dove valori ruoli partiti nomi e cognomi tendono a mescolarsi, a confondersi, a rimpicciolire le distanze, a farsi contigui. All’insegna volgare dell’uno che vale l’altro (o quasi). No. «L’unità morale del nostro popolo? Una comune e serena riflessione»? La verità di Fiuggi...

Maria R. Calderoni :: Liberazione 24/4/2009  continua...

Onna e le altre. Le stragi naziste sulla linea Gustav 
   Costantino Di Sante :: il manifesto 25/4/2009

 

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25 Aprile. Non è festa di tutti, ma della vittoria sul nazifascismo

 

 

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Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc-Se

L’Idea che il 25 aprile sia la festa di tutti è una mistificazione. Il 25 aprile è la festa della liberazione, la liberazione d’Italia dall’occupazione e dall’oppressione nazifascista, e della nascita della democrazia. E’ quindi la festa della vittoria dell’antifascismo sul totalitarismo: la vittoria di quell’insieme di forze e di cittadinanza grazie a cui abbiamo oggi nel paese la libertà e la democrazia. Quella del 25 aprile non è dunque la festa di chi non si proclama antifascista.



Ufficio stampa Prc-Se


Si festeggia la Liberazione.
Nonostante Tosi

Pare che il sindaco Flavio Tosi (Lega) quest'anno abbia ritirato i finanziamenti alle associazioni che il 25 aprile organizzavano la rivisitazione delle Pasque Veronesi - perché il 25 è anche San Marco - in realtà integralisti cattolici travestiti da soldati della Serenissima, con tanto di messa in latino. Ma il rito religioso ci sarà comunque e le celebrazioni ufficiali della festa della Liberazione inizieranno alle 8.30 con la messa celebrata sulla gradinata del municipio (quella dove non si può sedersi a mangiare un panino).

Paola Bonatelli :: il manifesto 25/4/2009  continua...

 

 

«Non moriremo
berlusconiane»

«Non mi fotografate a braccia conserte, per favore. È la posizione di quelli che comandano». In realtà non impiega esattamente queste parole la signora Ernestina, 42ª brigata garibaldina, mentre in mezzo a un boschetto della Valle di Susa si sottopone con gentilezza e un soffio di civettuolo imbarazzo all'intervista e alla breve sessione di scatti. Come quasi tutte le colleghe staffette incontrate prima e dopo di lei, Ernestina usa una lingua che è un denso impasto di piemontese e italiano, dove il primo serve a evocare ricordi, passioni e antiche paure, e il secondo ad amalgamarli.

Andrea De Benedetti :: il manifesto 26/4/2009  continua...

 

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Incredibile: identificati dalle forze dell'ordine perchè sventolano una bandiera rossa il 25 Aprile
Ieri a Morfasso, in provincia di Piacenza, è stato inaugurato un Museo della Resistenza. Erano presenti tantissime persone, tra cui molte ragazze e molti ragazzi, a dimostrare - una volta di più - che il 25 aprile sa parlare efficacemente anche alle nuove generazioni. Come pure erano presenti l'Anpi e numerosi amministratori locali. Nel corso della cerimonia è però avvenuto un episodio inquietante: le forze dell'ordine presenti si sono avvicinate e hanno chiesto i documenti a due militanti della sinistra di alternativa, "colpevoli" di sventolare una bandiera rossa con l'immagine di Che Guevara.

Nando Mainardi :: Prc 26/4/2009  continua...

La memoria storica tra
revisionismo e facili
condivisioni

Approssimandosi la data del 25 Aprile, ci sembra doveroso innanzitutto esprimere la nostra solidarietà al prof. Alberto Galeotto, che è stato accusato - in una lettera firmata da 15 suoi colleghi, su 80, dell’ITC Fusinieri (v. GdV del 20/03/09) - di essere un cattivo maestro ("strumentale, propagandistico e diseducativo") perché ha "osato" rifiutarsi pubblicamente, anche di fronte ai suoi allievi, di "condividere la memoria storica" con chi rifiuta di riconoscere la natura resistenziale e antifascista della nostra Repubblica e dichiara pubblicamente e impunemente la sua continuità politica e culturale col regime fascista.

Paolo Consolaro e altri :: 24/4/2009  continua...

 

New Liberazione
Invitando Silvio Berlusconi a rinunciare all'indifferenza e all'ostilità per la festa della Liberazione e a partecipare, per la prima volta, alle cerimonie del 25 aprile, Dario Franceschini ha esposto gli antifascisti, i democratici e il suo partito democratico al rischio di una fregatura. E fregatura è stata. In senso tecnico: il cavaliere si è rubato il 25 aprile. Ne ha completato la trasformazione in una festa nuova e neutrale. Ha officiato il primo natale della Repubblica sotto sedativi. E ha già annunciato la prossima mossa...

Andrea Fabozzi :: il manifesto 26/4/2009  continua...

 

 

Terremoto in Abruzzo: solidarietà attiva

 
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Aggiornamento 15/4 - h. 9.30

Le Brigate di solidarietà attiva al momento hanno montato e gestiscono, in coordinamento con la Protezione Civile, due cucine da campo a San Biagio (Tempèra) e a Camarda per circa 1000 sfollati.
A San Biagio è stato allestito un piccolo asilo sociale e uno spazio dove poter svolgere attività ricreative e teatro. Lì inoltre funziona una lavanderia popolare con tre lavatrici.
E' attivo un servizio di assistenza psicotraumatologica con due psicologi che operano al campo di San Biagio e in quello di Tempèra.
A Tempèra è stato montato un magazzino dal quale partiranno rifornimenti a domicilio.


La Federazione Prc di Pescara (via F. Tedesco, 8) continua a funzionare come centro di raccolta materiali e di accoglienza per gli evacuati.
Singoli o strutture che abbiano la possibilità di accogliere gli sfollati o che vogliano dare il loro contributo sono pregati quindi di chiamare il numero 085.66788 o di spedire una mail a: info@rifondazioneabruzzo.org Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

 
Chiunque volesse partecipare all'organizzazione della brigata di solidarietà può chiamare i seguenti numeri:
Yassir Goretz - 338/8154400 - 06/44182434
yassir.goretz@rifondazione.it Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo
Simone Sallusti - 333/8201699
simone.sallusti@rifondazione.it Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo
 

ATTENZIONE! Facciamo un appello a tutti coloro che stanno partendo per portare il loro soccorso:
non partite senza aver prima chiamato il numero messo a disposizione.
Siate attrezzati e soprattutto autosufficienti sia per quanto riguarda il vitto che l'alloggio.


C'E' URGENTE BISOGNO DI: aggiornamento rifornimenti e punti di raccolta

Come si organizza una
BRIGATA DI SOLIDARIETA'


Continua inoltre la sottoscrizione in favore dei terremotati.
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Ad oggi le offerte sono già 175 per un totale di 21.935 euro.

Se volete mandare un contributo economico potete spedirlo a:

Conto Corrente Bancario
RIFONDAZIONE PER L'ABRUZZO
IBAN: IT32J0312703201CC0340001497 (dall'estero aggiungere cod. Swift: BAECIT2B)

o tramite carta di credito: sottoscrizione online
Campo di accoglienza della Brigata di Rifondazione: FOTO

per aggiornamenti o informazioni:
www.partitosociale.org

 
 
 

 

14-04-2009 | Circolo Prc Caltagirone organizza raccolta a domicilio
14-04-2009 | Federazione Prc Oristano e Circolo Prc Oristano2 per l'Abruzzo
14-04-2009 | Solidarietà attiva dai cittadini di Russi
14-04-2009 | Circoli del Prc Venezia e dintorni impegnati nella raccolta solidale per l'...

08-04-2009 | 8.4.09 - Prc Emilia-Romagna: solidarietà concreta per l'Abruzzo

08-04-2009 | 8.4.09 - Prc Biella: tornano i Gap per dare un aiuto alle popolazioni abruz...
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08-04-2009 | 8.4.09 - Prc Carovigno: solidarietà attiva da Carovigno per l'Abruzzo
08-04-2009 | 8.4.09 - Prc Marsala: iniziative di solidarietà per l'Abruzzo
07-04-2009 | Prc Torino: risorse umane e aiuti concreti per sostenere le vittime del ter...
07-04-2009 | Oristano, Prc e Gc organizzano una raccolta fondi in piazza

 

A Camarda da sabato sera la cucina di Rifondazione

Prosegue incessante l'impegno di solidarietà attiva di Rifondazione Comunista. Da sabato sera abbiamo installato una nostra cucina anche a Camarda, paese che giustamente lamentava carenza di soccorsi. Riassumiamo i primi numeri della solidarietà attiva di Rifondazione Comunista. Rifondazione al momento ha montato e gestisce, in coordinamento con la Protezione Civile, le cucine nei 2 campi di San Biagio (Tempera) e Camarda per circa un migliaio di sfollati. Su Pescara sono stati attivati 10 magazzini per lo stoccaggio degli aiuti e da domani se ne aggiungerà un altro da 1000 metri quadri. Almeno 40 volontari a rotazione si alternano a Pescara nei vari magazzini in turno dalle 8,30 alle 22 tutti i giorni compresi Pasqua e Pasquetta.
Marco Fars e Maurizio Acerbo :: Prc 14/4/2009  continua...

 

ECCO DOVE VANNO I SOLDI DEL TERREMOTO

Epicentro solidale, ecco gli aiuti dal basso

 

Carovane autorganizzate dal movimento romano e napoletano e coordinate dall'Abruzzo Social Forum

Anubi D'Avossa Lussurgiu


L'Aquila - nostro inviato
I vecchi, i vecchi contadini, i vecchi pastori, i vecchi artigiani, invece no: vengono da un punto di partenza delle loro esistenze che fu la prostrazione della guerra e del dopoguerra, bambini quando i genitori sopravvissuti ancora raccontavano l'ecatombe del terremoto di Avezzano.
E' un panorama umano di spaesamento, quello che ti sta tutto intorno incastonato fra il Velino e il Gran Sasso. Sulla dorsale est, certamente, quella del rosario di paesi rasi al suolo. Ma anche sul versante ovest, dove la distruzione delle strutture appare minore e il terremoto ha risparmiato vite. Ma il panorama umano non cambia: nel caos dell'emergenza, al quarto giorno capita che siano proprio le frazioni dell'Aquila e i paesi dell'aquilano meno scossi dal sisma ad aver bisogno di tutto. Capita di vedere che tra queste comunità costrette da quattro notti a dormire nelle automobili, ad accamparsi fortunosamente nei prati e nelle radure, arrivino solo quando ci passi, il giovedì mattina, le tende della protezione civile. Arrivano le tende, non ci sono i letti, non ancora le cucine da campo, né le infermerie, né i viveri. Ed è così che un Epicentro Solidale si materializza più lontano dall'epicentro del disastro. Dove c'è bisogno, dove ci guidano i buoni amici e compagni delle reti dell'Abruzzo Social Forum: lì arrivano le improvvisate carovane partite da Roma e poi da Napoli. Carovane di soccorsi, di aiuti tutti particolari: soprattutto, che arrivano da un verso tutto particolare. Dal basso al basso. Sono le carovane delle attiviste e degli attivisti dei centri sociali e dei laboratori autogestiti, delle occupazioni abitative di precari e migranti, degli studenti autorganizzati. Carovane che portano latte a lunga conservazione, pannoloni, pannolini e assorbenti, coperte e sacchi a pelo, zucchero e sale, bevande e olio, carta e giocattoli, omogeneizzati e sanitari raccolti a quintali da un'onda di spontaneità che si è mossa fin da quel lunedì 6. A Roma ha colmato fino a farli straripare i punti di raccolta a sostegno delle popolazioni colpite dal terremoto di Abruzzo di cui il mainstream difficilmente parlerà: perché si chiamano laboratorio sociale occupato e autogestito Acrobat, centro sociale occupato e autogestito Forte Prenestino, centro sociale Auro e Marco, laboratorio sociale Horus, Regina Elena occupata, occupazione abitativa di Porto Fluviale, ex cinema Volturno occupato. Solo quelli che hanno fatto da magazzini: mentre l'intero movimento romano è stato recettore per tre giorni di quanto portato da lavoratori, studenti universitari e medi, comunità migranti, gente comune. Un'onda che continua e continuerà. Un'onda che da Napoli, a fronte della dozzina di macchine mossasi dalla capitale stracariche di scatoloni di aiuti, subito dopo porta in Abruzzo un camion tre furgoni e altre automobili: tutti ricolmi di ogni genere di soccorsi, raccolti dai centri sociali, primi fra tutti Ska e Insurgencia, e dalle reti autorganizzate partenopee.
Epicentro Solidale è queste carovane che ieri si sono concatenate sperimentando un'attività di sostegno che per necessità è anche di censimento: rilevazione delle esigenze, della realtà di situazioni che vivono nell'emergenza condizioni materiali non facilmente rilevabili dalla formalità emergenziale, quella gestita pur con generosità dai volontari della protezione civile sotto il coordinamento istituzionale. Epicentro Solidale, di paese in paese, di frazione in frazione, lungo tutta la corona di comunità paralizzate che contorna, in un'ellisse ascendente, la carie spaventosa del centro dell'Aquila collassata, scopre così la propria necessità. Le attiviste e gli attivisti di Roma e di Napoli, al primo giorno di questa prova, si trovano a diventare necessari secondo quanto indicano le mappe di soccorso improvvisate mezz'ora dopo mezz'ora da quelli del Social Forum abruzzese: gente di cuore e determinata, persone che hanno perduto anche loro la propria casa ad Aquila centro, persone che magari hanno scavato dalle cinque di mattina del lunedì 6 le macerie di via XX Settembre per tirar fuori i morti, persone che ora si fanno voce delle tante sperdute nel substrato invisibile dell'emergenza. Là dove ci sono i volontari della Croce rossa in forze, c'è la cucina da campo, ci sono i generatori là dove allo stesso tempo, come hanno constato quelli della "cucina Carlo Giuliani" del Prc da Tempera e poi San Biagio, non ci sono né i viveri né i farmaci né le coperte né il latte per i bambini.
Così vai a Genzano di Sassa poi pensi di dover andar a Lucoli, più su, ma invece torni in giù in carovana perché il tam tam dell'emergenze reali ti chiama a tamponare altre frazioni di frazioni. Dove poco dopo di te arriva la jeep della protezione civile a iniziarlo, il censimento ufficiale delle esigenze. E poi vai a Fossa, dove lo stesso sindaco ha voluto garantire uno spazio per la convergenza degli aiuti di questo strambo e multicentrico Epicentro Solidale dentro l'accampamento della protezione civile, aspettandoti di immagazzinare tutto il restante insieme alle compagne e ai compagni di Napoli: ma intanto mezza carovana ha già finito tutto in un posto che ufficialmente non avrebbe dovuto averne bisogno, come Roio, che è stata disastrata e che dunque dovrebbe essere "corsia preferenziale" dei soccorsi di stato ma che invece proprio di tutto ha bisogno. E poi, quando arriva la carovana di Napoli, scarica un camion e metà dei furgoni nel capannone messo a disposizione da un anziano compagno del posto, perché il magazzino della protezione civile è già ricolmo: mentre è meglio non calcolare lo stadio che era crollato già nei tre mesi di scosse precedenti, inascoltate, alla catastrofe di lunedì e dove pure vengono alloggiati molti degli sfollati, pericolosamente. Ma la carovana di Napoli si tiene l'altra metà degli aiuti perché nel frattempo arriva un'altra chiamata di emergenza reale da dove non dovrebbe esserci, Corciano. Anche lì non hanno più niente e ancora non hanno niente. Epicentro Solidale torna a scaglioni tra la sera e l'indomani, cioè oggi, a Roma e a Napoli. A capire come organizzare la quantità di aiuti che l'onda solidale dal basso continua ad alimentare; e a lasciar capire alle attiviste e agli attivisti abruzzesi come organizzarne la distribuzione. Ripartendo dai centri più colpiti dove il soccorso ufficiale prioritario ha già raggiunto il punto di saturazione e lascia nuovi vuoti, mentre le carovane di Stato si ingolfano nel caos organizzato dell'Aquila.
Ma Epicentro Solidale ormai c'è nelle città di partenza, nelle altre che verranno, nell'aquilano terremotato come nelle infolines e nel blog che da oggi saranno attivi per coordinarsi. Le carovane ritornano per ripartire dal sabato e intanto discutere tra reti solidali come organizzare una presenza stabile quando si tratterà di rimuovere le macerie e assistere i villaggi di sfollati dopo lo sciame sismico. Nel frattempo si ritorna e sulla strada ti può capitare che i carabinieri ti controllino per mezz'ora, perché non sei sotto una bandierina, non porti un'uniforme o almeno un giubbotto con qualche distintivo: ma è meglio così, in basso.


Liberazione 10/04/2009

 


L'Abruzzo, metafora di
un Paese senza regole

La tragedia che ha colpito l’Abruzzo ci racconta la realtà di un Paese in cui troppo spesso le regole vengono trasgredite con superficialità. Tutto il territorio nazionale è interessato da eventi sismici in grado di determinare conseguenze rilevanti, tranne alcune zone delle Alpi centrali e della Pianura padana, un tratto della costa toscana e della Puglia, gran parte della Sardegna. Nonostante questo dato significativo, solo il 18% degli edifici risulta simicamente protetto.

Veronica Albertini :: Liberazione 10/4/2009  continua...

 


Disastro «naturale»
o un disastro
istituzionale?

Martedì scorso avevo in programma una lunga seduta di tesi di laurea nell'università di L'Aquila. Diciamo che mi sono salvato per un inaspettato colpo di fortuna. Come molti dei miei studenti, che provengono da tutta Italia. Se questa scossa di terremoto fosse avvenuta di giorno, che sarebbe avvenuto in quelle aule universitarie oggi semidistrutte e normalmente frequentate da centinaia di studenti? Quando avviene un disastro di questo tipo si tratta di disastri «naturali», cioè inimmaginabili e incoercibili? Ma tutta la nostra storia culturale non è forse storia della capacità di dominare la natura? Innanzitutto conviene ricordare che, per quanto...

Francesco Sidoti :: il manifesto 10/4/2009  continua...

Il corpo del potere
e il dolore
Oggi è il giorno del dolore ritualizzato. Perché lacrime e sangue, paura e rabbia per le tante vittime e la perdita di ogni avere, dicono che lo strazio a L'Aquila è cominciato da cinque giorni e ininterrottamente per cinque notti. Saranno funerali di stato. Forse vuol dire che per un giorno i corpi delle vittime devono appartenerci, dentro una rappresentazione che, a terremoto non concluso, ha per l'immaginario nazionale un valore superiore per il Belpaese che fa dei terremoti un momento costitutivo delle sue memoria, unità e identità collettiva.

Tommaso Di Francesco :: il manifesto 10/4/2009  continua...

Il Paese in pericolo. Da il Manifesto

Intervista a Fabio Barberi ex capo della Protezione Civile. Da il Mattino

Procurato allarme, prevedere e prevenire terremoti e altre sciagure in un’Italia contro la scienza. Di Gennaro Carotenuto

Regole antisisma congelate al 2005. Da il Sole 24 Ore

 

Gli «angeli del soccorso» che il governo non vuole

di Stefano Milani

su Il Manifesto del 07/04/2009

Sangue, acqua, cibo, vestiti, coperte, pannolini, latte in polvere. Serve qualsiasi cosa a chi all'improvviso ha perso tutto. Anche una sola mano in più per scavare sotto le macerie può essere preziosa. E quando c'è da offrire aiuto gli italiani non si tirano indietro. Alluvione di Firenze, Friuli, Irpinia, e ora il terremoto che ha colpito l'Abruzzo. La storia si ripete in modo tragico e la solidarietà non manca mai. Dal Trentino alla Sicilia, in migliaia, appena appresa la notizia, hanno messo lo zaino in spalla e senza pensarci tanto sono saliti in macchina o preso il primo treno, incuranti delle strade e delle ferrovie...
Stefano Milani :: il manifesto 7/4/2009  continua...

  

Resisti alla crisi!

Da www.rifondazione.it

mercoledì 01 aprile 2009

 
Oggi forniamo il primo manuale su come resistere alla crisi.
Il manuale versione 1.0 è stato costruito come un programma free software da compagni e compagne che hanno lottato in questi mesi  sui territori contro il carovita, gli sfratti, il mantenimento del posto di lavoro. Il manuale verrà riaggiornato nel tempo in maniera collettiva e orizzontale, mano a mano che le pratiche si diffonderanno e arriveranno dai territori utili suggerimenti, la logica che lo anima è quella della diffusione e dello scambio delle buone pratiche di resistenza sociale nel tempo della crisi.   Vi chiediamo pertanto di utilizzare questo strumento in maniera tale che possa essere diffuso il più possibile in rete ed al tempo stesso partecipato.
Solidarietà e Lotta.

scarica qui il Manuale  

 

IL POPOLO DEI LAVORATORI,

IL GOVERNO DEI PADRONI

«Silvio Berlusconi». E' l'unico nome che il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani pronuncia dal palco quasi a metà del suo discorso. E la piazza, anzi l'immensa distesa di giovani, donne, pensionati, lavoratori e migranti, quanti non se ne erano mai visti in una iniziativa del sindacato, risponde immediatamente con una sonora bordata di fischi. Il segretario della Cgil fatica a riprendere la parola. E se avesse citato Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni, rispettivamente segretari generale della Uil e della Cisl, cosa sarebbe successo?
Fabio Sebastiani :: Liberazione 5/4/2009  continua...

 

 Gli interventi dei lavoratori Cgil 4/4/2009

Il cuore del problema
Cos'è la Cgil? «L'unica opposizione disponibile», «un ammortizzatore sociale», «un presidio democratico»? Forse sono vere tutte e tre queste risposte, suggerite dalla straordinaria manifestazione che ha ridato a Roma e al paese un volto umano. Un gruppo di operai piemontesi canta «I treni di Reggio Calabria», la canzone che Giovanna Marini ha reso famosa. Un pensionato di «Roma sud» si avvicina, si inserisce nel coro e modifica la conclusione: «Alla sera Roma era trasformata/ sembrava una giornata di mercato/ quanti abbracci e quanta commozione/ gli operai hanno dato una...

Loris Campetti :: il manifesto 5/4/2009  continua...

 

 

«Futuro sì, indietro no». Domani il Circo Massimo della Cgil
«Futuro sì indietro no». Contro le politiche «anticrisi» del governo, e contro l'accordo separato sui contratti firmato da Confindustria, Cisl e Uil, scende in piazza domani il popolo della Cgil. Non uno sciopero ma una manifestazione nazionale nella piazza delle grandi occasioni, il Circo Massimo, per tentare un'inversione di rotta in tempi di crisi tanto acuta. In questo sguardo altro sul futuro e nel dire «no» a chi vorrebbe che a pagare la crisi...

S.F. :: il manifesto 3/4/2009  continua...

È rivolta nei cantieri navali: «Ora inizia la guerriglia» 
   Alessandra Fava :: il manifesto 3/4/2009
Cosa succede ai nuovi salari Sbilanciamoci.info :: 3/4/2009

G20 con morto e repressione

di Paolo Gerbaudo

su Il Manifesto del 03/04/2009

 

Quasi 24 ore di giallo, poi l'annuncio: negli scontri è deceduto un uomo di 47 anni, Ian Tomlison, ufficialmente per infarto. Ma la polizia viene messa sotto accusa. Nella notte e per tutta la giornata blitz nei «luoghi» di raduno degli attivisti. Per impedire le proteste. Al raid della polizia al centro sociale di Rampart Street era presente anche il nostro collaboratore da Londra. Intervistato dall'Ansa e nella puntata di ieri sera di «Anno zero» su Raidue, il nostro giornalista ha raccontato di essersi preso un pugno in faccia da uno degli agenti, di essere stato ammanettato insieme ad altri presenti per quasi due ore. «Sono arrivati...
Paolo Gerbaudo :: il manifesto 3/4/2009  continua...

La legge inganno Summers-Geithner sugli asset tossici 
   Joseph Halevi :: il manifesto 2/4/2009

 ALLE EUROPEE CON LA LISTA COMUNISTA

Ecco il simbolo per le europee che è stato presentato alle ore 12.00 nella conferenza stampa cui hanno partecipato: Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, Oliviero Diliberto, segretario nazionale dei Comunisti Italiani, Cesare Salvi, coordinatore nazionale di Socialismo 2000 e Bruno De Vita del Movimento dei Consumatori Uniti. Ha sottolineato Paolo Ferrero che tutte le forze politiche dell'alleanza si riconoscono nel Gruppo Unitario della Sinistra al Parlamento europeo e che la lista è fortemente connotata su una critica forte al sistema capitalistico e al liberismo moderno.

 

Oggi abbiamo presentato il simbolo e dato vita a una lista di sinistra, anticapitalista che unisce quattro forze politiche (Prc, Pdci, Socialismo 2000, Consumatori uniti) in una comune proposta politica per l'Europa. Lo abbiamo fatto e continuereremo a farlo anche attraverso il contributo e le candidature di molti esponenti della sinistra, del mondo del lavoro e sindacale, del movimento femministra e ambientalista, del movimento lgbtq e pacifista. Questa lista, che lavora per un'uscita dalla crisi fondata sulla democrazia economia, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà, rappresenterà un importante raggruppamento anticapitalista...
Paolo Ferrero :: dichiarazione sulla presentazione della lista per le elezioni europee 28/3/2009  continua...

  

Il Video della presentazione:

https://www.pdcitv.it/video/1048/ECCOCI-Il-nuovo-simbolo-dei-comunisti

 
Pietro Ingrao:
«Voterò per Rifondazione»
Pietro Ingrao ha dichiarato all' Unità : «Non condivido numerose delle posizioni di Ferrero. Tuttavia ritengo che nell'attuale lotta politica sia essenziale la presenza a sinistra di un soggetto politico organizzato. Faccio qualche esempio: in Sinistra e Libertà ci sono tanti compagni che stimo e che mi hanno dato speranza. Penso però che quello che hanno da dire persone come Bertinotti, Vendola, Mussi e la Bandoli è meglio che lo dicano e facciano vivere operando dentro la struttura di un partito, di un soggetto politico "formato"».
(dall'intervista a Pietro Spataro sull'Unità del 28 marzo 2009)

 

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Da www.rete28aprile.it

Le norme applicative dell’accordo separato che vogliono uccidere la libertà di contrattazione e il contratto nazionale PDF Stampa E-mail
Giovedì 26 Marzo 2009 16:14
Pubblichiamo il testo integrale della proposta conclusiva presentata dalla Confindustria il 16 marzo a Cgil, Cisl e Uil con la quale si definiscono le norme applicative per l’accordo separato del 22 gennaio sulla riforma della contrattazione.
Tali norme aggravano e rendono ancora più vincolanti gli aspetti negativi di quell’accordo e cioè:
-    la riduzione del salario del contratto nazionale;
-    la centralizzazione confederale di tutta la contrattazione;
-    le deroghe al contratto nazionale;
-    la totale flessibilità del salario a livello aziendale;
-    un sistema di conciliazione che limita profondamente le libertà di contrattazione nei luoghi di lavoro;
-    la centralità degli Enti Bilaterali in sostituzione della contrattazione e della legge.
(scarica il documento)

 

 

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Patto separato,
3 milioni di no
Cinque cortei che attraversano Roma, l'ambizione di riempire tutto il Circo Massimo: la piazza vera, quella degli eventi memorabili. Inevitabile il confronto con i tre milioni del 23 marzo 2002, la marea umana che riuscì a fermare l'abolizione dell'articolo 18. La Cgil adesso ci riprova in piena crisi, sabato prossimo - il 4 aprile - chiama i lavoratori italiani a fare il massimo sforzo, a invadere la capitale. Per dire due cose, principalmente: il governo Berlusconi deve agire contro la crisi, deve sostenere i dipendenti, pensionati e...

Antonio Sciotto :: il manifesto 31/3/2009  continua...

Modello contrattuale,i lavoratori con la Cgil: in 3,4 milioni dicono no

Il 4 corteo a Roma. La Cisl: «Panzane». Epifani: «Ora piattaforme separate»
 

 

Roberto Farneti


Sulla riforma del nuovo modello contrattuale i lavoratori stanno con la Cgil. E' questo il grande significato politico del referendum organizzato dal più grande sindacato italiano dopo l'accordo separato del 22 gennaio scorso. Grazie a quel "no" forte e chiaro espresso nell'urna da 3,4 milioni di lavoratori, è potuto finalmente emergere il largo dissenso presente nelle fabbriche e negli uffici nei confronti di un'intesa che di fatto, come ha ribadito ieri Guglielmo Epifani, taglia i salari, dal momento che «prevede la riduzione di tutti gli spazi di contrattazione collettiva», diminuisce la capacità del contratto nazionale di tutelare le retribuzioni dall'inflazione, «e non rafforza il secondo livello di contrattazione».
Di parere diverso Cisl, Uil e Ugl, le tre organizzazioni sindacali che hanno invece deciso di sottoscrivere la proposta di Confindustria. Per dirimere la questione, la Cgil aveva proposto alla Cisl e alla Uil di fare insieme una consultazione democratica, «ma ci è stato detto di no», ricorda Epifani. A quel punto a Corso Italia non è restato che andare avanti da sola. «Non si può esaltare la democrazia quando si parla del voto di una sola fabbrica», ammonisce Epifani. Il riferimento polemico è al referendum sull'integrativo alla Piaggio, che ha visto uscire sconfitta la linea della Fiom. «La democrazia - insiste il leader della Cgil - implica che tu possa perdere o vincere, non ci si può appellare alla democrazia solo quando si è sicuri di vincere. Porremo alla Cisl e alla Uil in maniera ancora più forte il problema delle regole democratiche».
Appello destinato a cadere nel vuoto, alla luce dell'arroganza con cui questi due sindacati hanno commentato ieri l'esito di una consultazione condotta alla luce del sole e che ha visto la partecipazione di più di 3,6 milioni di lavoratori, pari al 71% del totale di coloro che nel 2007 presero parte al referendum unitario di Cgil, Cisl e Uil sul protocollo per il welfare. Numeri a cui Raffaele Bonanni mostra di non credere: «Come si fa infatti a ritenere un vero referendum - obietta il segretario generale della Cisl - una consultazione indetta "solo" da una organizzazione e con dei quesiti posti da un "solo" sindacato?». Questi, per Bonanni «sono metodi che esistono laddove non c'è democrazia». Il segretario della Cisl liquida quindi l'esito del referendum come una «panzana clamorosa», utilizzata dalla Cgil «solo per fare propaganda alla vigilia di una propria manifestazione». Ladri, imbroglioni, stalinisti: questo è il pensiero attuale di Bonanni nei confronti della Cgil. Vedremo cosa sarà capace di dire il segretario della Cisl il prossimo 4 aprile, quando centinaia di migliaia di persone in carne e ossa provenienti da tutta Italia invaderanno la capitale per prendere parte alla protesta organizzata da Corso Italia contro i provvedimenti messi in campo dal governo per fronteggiare la crisi economica e contro la riforma del modello contrattuale. Quel giorno la città di Roma sarà attraversata da ben cinque cortei che confluiranno al Circo Massimo. La manifestazione tuttavia non vedrà la presenza ufficiale della Confederazione europea dei sindacati (Ces): «Abbiamo informato la Cgil che, essendo la Ces interessata all'unità dei sindacati italiani, non può partecipare a una manifestazione di carattere non unitario, pur considerando importanti le ragioni di chi ha organizzato la manifestazione», spiega il segretario dell'organizzazione internazionale Walter Cerfeda.
Il dato politicamente importante è che questa volta Epifani, forte del consenso dei lavoratori, non sembra disposto a farsi attrarre dalle sirene unitarie. Il leader della Cgil sottolinea il risultato «assolutamente straordinario» del referendum, non solo per via di quel 96,27% di no certificato dalle urne ma anche e soprattutto per l'alta partecipazione: «Noi avevamo pensato che arrivare a 2,8-2,9 milioni di votanti sarebbe stato un risultato clamoroso, ma l'esito del voto - ammette - è andato oltre ogni previsione. Ha partecipato molta più gente di quella che è iscritta alla Cgil. E' un dato che ha un peso politico alto». Epifani trae quindi le conseguenze dell'indicazione che gli giunge dalle urne: «Non condividiamo l'accordo e non condivideremo gli accordi settoriali che si muoveranno su quello. Andiamo avanti con piattaforme separate», annuncia il segretario generale del più grande sindacato italiano.
Anche Rifondazione Comunista, per bocca del segretario Paolo Ferrero, sottolinea il risultato «importantissimo» ottenuto dalla Cgil con il referendum sul nuovo modello contrattuale. Ferrero conferma quindi la partecipazione del partito alla manifestazione del 4 aprile contro l'accordo separato voluto da Governo e Confindustria. «Mi chiedo solo in aggiunta - osserva il segretario del Prc - perché quando 5 milioni di lavoratori votarono sugli accordi del luglio 2007 in merito al Protocollo sul welfare ci venne impedito il miglioramento di quell'accordo, visto che i lavoratori sarebbero stati ben contenti di vedere migliorare l'accordo che avevano approvato». Comunque sia, se adesso ci sono 3,4 milioni di lavoratori che bocciano la riforma della contrattazione, «se ne tenga conto e si annulli quell'accordo separato», è la conclusione di Ferrero.

 

Liberazione 31/03/09

 

Lavoro, meno controlli
e sempre più «nero»

Tra gli effetti nefasti del piano casa rischia di esserci anche quello di un impatto «devastante» sulla qualità dell'occupazione e sulla regolarità delle imprese. A lanciare l'allarme è la categoria degli edili Cgil: «E' una strategia comune quella che tiene insieme la programmazione di una riduzione dei controlli, l'intervento sul Testo unico sulla sicurezza sul lavoro e le ipotesi circolanti sul piano casa. Comune perchè tutte e tre le cose presuppongono un'idea di uscita dalla crisi mediante la riduzione di diritti e tutele»...

S.F. :: il manifesto 31/3/2009  continua...

 

CONTROFFENSIVA OPERAIA!

 

I salari italiani sono in crisi: nel senso che subiscono la crisi, ma sono anche - in qualche modo - una delle origini della crisi stessa. L'estrema disuguaglianza dei redditi, è infatti, secondo la Cgil, una delle cause - o perlomeno, una delle concause - della bufera che stiamo passando, uno dei motivi per cui al momento non è facile la ripresa. L'Italia è al sesto posto al mondo per la disuguaglianza dei redditi.
Ieri l'Ires Cgil ha diffuso il suo quarto rapporto sui salari, registrando che le retribuzioni da...

Antonio Sciotto :: il manifesto 28/3/2009  continua... 

     

Intervista a Gianni Rinaldini
Che idea ti sei fatto del testo applicativo dell’accordo separato?
Siamo ad una ridefinizione delle relazioni sindacali e del ruolo del sindacato che di fatto annulla il contratto nazionale. O perlomeno la parte retributiva del contratto nazionale, che è una sorta di scala mobile a perdere, perfino paradossale se abbiamo presente la storia contrattuale del nostro paese. Un meccanismo semiautomatico, in cui basta fare i conti partendo da quello che il cosiddetto terzo...
Fabio Sebastiani :: Liberazione 28/3/2009  continua...

6.738 euro mangiati dal fisco. Allarme Cgil: «Salari fermi dal 1993» Roberto Farneti :: Liberazione 28/3/2009

Sicurezza sul lavoro, ecco la controriforma Sacconi 
   Sara Farolfi :: il manifesto 28/3/2009

 
La lunga notte
degli operai Indesit


La frase più agghiacciante della gelida notte di None la dice Alfredo, operaio Indesit dal 1993, verso le tre e mezza: «Vuoi vedere che alla fine sbatteranno fuori quelli che stanno tentando di difendere il posto di lavoro di tutti? Se scoprono i nomi di chi è qui siamo fottuti». Se questi sono i commenti, ed è una paura diffusa tra chi ha deciso di lottare senza se e senza ma, significa che non è cambiato molto in Italia dai tempi di Romiti. La statale che corre da Torino ed entra come un serpente dentro la val Chisone, la valle dei fasti olimpici che furono, è ormai un cimitero di fabbriche e fa impressione vedere successioni di cancellate...

Maurizio Pagliassotti :: Liberazione 29/3/2009  continua...

 
«In tutta Europa una generazione che si sente tradita. E va in piazza»
Milleuristes spagnoli, «generazione mille euro» italiana, quella dei «650 euro» greca e, ancora, il Cpe in Francia nel 2005. Sono i volti della stessa crisi sociale che ha investito l'Europa ben prima di quella finanziaria. Una condizione che, ormai, apparenta gli studenti universitari con i precari quarantenni. Quelli che ieri erano in piazza a Londra e Berlino, Parigi e Roma. Già nel 2006, un rapporto Eurostat rivelava che il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni si era attestato in questi paesi intorno al 23 per cento. Ne è seguito un drastico allungamento del periodo di formazione ed una...

Roberto Ciccarelli :: il manifesto 29/3/2009  continua...

 

EMERGENZA DISOCCUPPAZIONE: LA VERA EMERGENZA SOCIALE!

 

La grave crisi occupazionale che sta attraversando tutta la vallessina sta destando sempre più preoccupazione, sia per la velocità con cui sta dilagando e sia per il  numero dei disoccupati nella nostra zona.

Le varie richieste di cassa integrazione di aziende come New Holland e Caterpillar,  da sempre leader dei loro settori, la drammatica situazione dei lavoratori della Sipe di Monte San Vito,sono solo alcuni esempi che, da soli, danno l’idea della gravità della situazione.

Noi di Rifondazione da diverso tempo stiamo denunciando questa vera e propria emergenza occupazionale che deve essere affrontata con  misure sociali ed economiche forti, a sostegno delle uniche vere vittime di questa grave crisi: i lavoratori.

Una crisi che la nostra zona sta assorbendo e subendo  sulla scia di quello che accade a livello nazionale e internazionale.

Non possiamo non renderci conto, infatti, che tutto quello  che ci sta accadendo è il risultato del fallimento strutturale del nostro sistema economico, basato sul liberismo e sul  capitalismo finanziario radicale. Un sistema  scellerato,fondato sull’indebitamento senza controllo, che ha devastato l’economia reale a vantaggio della speculazione finanziaria.

Ricordiamoci che ben prima che la crisi economica si presentasse con tutta la sua drammaticità e si  facesse  sentire anche da chi pensava di essere un garantito,  parlavamo già del problema di milioni di lavoratori e pensionati che non arrivavano con la loro paga o pensione alla terza settimana ! Per tale ragione abbiamo alcuni mesi fa abbiamo presentato un ordine  del giorno, poi approvato e condiviso  dal Consiglio Comunale, con il quale impegnavamo il Comune di Jesi ad intervenire  sulle tariffe per aiutare le fasce più deboli, i precari,  i lavoratori e i pensionati

E’ ora di far  assumere  le proprie responsabilità  e far pagare  i propri errori a  chi ha causato il disastro economico!

In particolar modo alle banche e alla finanza che, con il tacito assenso del Governo e della Confindustria, hanno messo in ginocchio migliaia di persone che si ritrovano senza lavoro e con  mutui che non riescono a pagare.

E’ora di dire basta a tutto questo! Bisogna attuare una vera e propria battaglia a favore dei lavoratori, su temi fondamentali della precarietà, del diritto al lavoro, della garanzia del reddito, dell’unità sindacale, fondamentale per il futuro stesso degli operai, per il diritto allo sciopero (che vogliono togliere con  finalità antidemocratiche tipiche del  ventennio fascista).

I lavoratori   non sono merce di scambio da usare a proprio piacimento e buttare nei momenti di crisi. Il diritto al  lavoro è garantito costituzionalmente e noi di Rifondazione Comunista saremo sempre in prima linea, con coerenza ed intransigenza, per la difesa di questo diritto.

PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA JESI

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 BASTA CON I CENTRI COMMERCIALI

Il Partito della Rifondazione Comunista, attraverso questo comunicato, vuole esprimere tutto il suo disappunto, per l’apertura dell’ennesimo supermercato che sorgerà all’interno del nuovo complesso commerciale realizzato nell’area Baldi.

Prima di tutto, ci teniamo a precisare che non è nostra intenzione mettere in discussione il criterio di edificazione dell’intero edificio, previsto tra l’altro dal piano regolatore, poiché, la sua realizzazione presupponeva dei criteri tecnici e di sostenibilità ambientale ben precisi. Il problema che vogliamo porre all’attenzione è un altro, che ci lascia molto contrariati, al di là del fatto che tale edificio in futuro aggraverà notevolmente la già drammatica situazione del traffico in Via XXIV Maggio, creando gravi disagi alla viabilità della zona.

Quello che invece ci piacerebbe tanto sapere è che chi ha concesso la licenza all’apertura dell’ennesimo mega store, ci spiegasse con quale criterio si può permettere un’operazione del genere quando nel raggio di due Km, sono presenti almeno altre quattro strutture della stessa entità commerciale, equivalente a quella che sorgerà adesso.

E’ ora di dire basta a questa politica del “prego si accomodi” verso questi monopoli della grande distribuzione che da anni attuano politiche commerciali discutibili, che fanno del precariato la loro unica politica occupazionale. In linea con i nostri principi, non accetteremo mai queste operazioni che non fanno altro che mostrare in modo indelebile la follia di un sistema che sta portando la nostra società allo sfascio economico e sociale.

Rifondazione Comunista chiede, invece, che si segua una politica per la tutela e lo sviluppo delle piccole botteghe artigiane, dei mercati rionali, incentivando cosi una sana attività economica, nuova e vera occupazione, dando cosi un vero segnale di attenzione, ai veri problemi sociali di tutta la città.

 

Prc Jesi, Circolo Karl Marx

 

Nel 2020 potranno ancora dire “Il nostro Teatro Pergolesi” ? 

Il Partito della Rifondazione Comunista di Jesi, attraverso questo comunicato, intende spiegare le motivazioni che hanno portato a non votare l’atto d’indirizzo presentato dal Sindaco ai fini della  proroga, dal 2014  al 2034, del contratto con la Fondazione Pergolesi Spontini per la gestione del Teatro Pergolesi.

Il nostro direttivo non è convinto della decisione assunta dal Consiglio Comunale, dal PD,  dal PdCI e da SD con i voti della destra (Massaccesi e gruppo di AN, Pennoni per FI) con cui si impedirà ai Consigli comunali e alle amministrazioni che si succederanno alla guida di questa città, di riassumere la gestione del teatro e di modificare, fino al 2034, il contratto di servizio stipulato con la Fondazione per la gestione del Pergolesi.

Il nostro unico obiettivo è difendere il valore del teatro, patrimonio e  bene di tutta la cittadinanza. Solo poche settimane fa il nostro Assessore Valentina Conti, insieme all’Assessorato ai Lavori Pubblici, è riuscita a ottenere 750.000 euro di finanziamenti europei proprio per il restauro di alcuni palazzi storici della città.

Condividiamo perciò l’urgenza di realizzare i lavori al tetto del Pergolesi. Così come condividiamo e sosteniamo le scelte culturali dell’Amministrazione condivise con la Fondazione. Ma ieri in aula consiliare non si discuteva di questo, non si parlava di politiche culturali, né dell’urgenza di lavori strutturali al Pergolesi.

La questione sul tavolo del consiglio comunale riguardava invece la proroga del contratto di servizio per i prossimi 25 anni alla Fondazione che, in base alla documentazione legale acquisita, non risulta necessaria.

Nessuna legge obbliga il Comune a un passo così rilevante come quello deciso ieri sera dal voto della strana “ammucchiata” composta dal centro destra, dal PD,  dal  PdCI e da SD.

Il Sindaco ci ha detto  nel suo intervento che il bilancio comunale avrebbe potuto sopportare l’onere dei lavori.

Il buon senso avrebbe allora imposto di non “ipotecare” le decisioni dei futuri consigli comunali, di non delegare alla Fondazione la gestione dei nostri teatri fino al 2034, ma di adottare quelle soluzioni, possibili ed economicamente praticabili che, attraverso un accordo con la Fondazione, avrebbero potuto meglio garantire i cittadini, il Comune di Jesi e la Fondazione stessa.  
 


 Rifondazione Comunista

Circolo Karl Marx Jesi

 

Riflessioni
sulla violenza alle donne


Mi domando se è più violentatore
quello che compie il fatto materiale
o tutto il retroterra culturale
che guarda al sesso in modo inquisitore

che all'amore preferiscce il dolore
che vede aborto e anticoncezionale
come strumenti perversi del Male
e vorrebbe le donne o caste o suore.

Queste domande mi faccio all'ennesimo
caso di stupro e mi chiedo angosciato
quanto duemila anni di cristianesimo

con l'ideale di donna-madonna
abbiano favorito e alimentato
l' odio e la violenza sulla donna.

Francesco Burroni :: Aprile online 13/3/2009

 

IN NOME DELL'ORDINE COSTITUITO

 

L'Onda è tornata ed evidentemente fa paura. D'altra parte il premier Berlusconi l'aveva promesso lo scorso autunno, nel culmine del dissenso studentesco: «Manderò la polizia nelle università». Detto fatto. Così quello che doveva essere il ritorno dell'esercito del surf contro i tagli all'istruzione del trio Gelmini-Tremonti-Brunetta, è diventato lo spunto per mettere in pratica la linea dura del governo. La politica del manganello e del «da qui non si passa». Succede a Roma, alla Sapienza, nella più grande università pubblica d'Europa. Cinquecento studenti caricati e sequestrati per ore all'interno della cittadella, intimati...
Stefano Milani :: il manifesto 19/3/2009  continua...

Squadrismo e Polizia
contro gli studenti
democratici: ecco il
nuovo corso
berlusconiano

Quanto è avvenuto oggi (18 marzo) all’Università di Roma “La Sapienza” è un fatto gravissimo. Agli studenti dell’Onda riuniti in centinaia presso il piazzale della Minerva dentro la Città Universitaria è stato impedito con la forza di raggiungere in un corteo spontaneo e pacifico i lavoratori della conoscenza riuniti a Piazza SS Apostoli in occasione dello sciopero sacrosanto indetto dalla FLC-CGIL. Gli studenti sono stati caricati con violenza e a più riprese costringendoli all’interno della città universitaria...

Fabio De Nardis :: Prc 18/3/2009  continua...

E' in gioco la libertà di manifestare Maria Grazia Meriggi :: Liberazione 19/3/2009

E a Napoli il Blocco
attacca gli studenti
«Attacco neofascista», «aggressione», «provocazione». Sono queste le parole che usano gli studenti dell'onda napoletana per descrivere i tafferugli scoppiati ieri davanti alla facoltà di giurisprudenza della Federico II. I fatti li raccontano con le loro testimonianze e con qualche foto, denunciando di essere stati aggrediti dagli attivisti del Blocco studentesco che con caschi, mazze, cinghie e anche lame di piccolo taglio avrebbero impedito loro di entrare nell'Università per un'assemblea. «È andata proprio...

Francesca Pilla :: il manifesto 19/3/2009  continua...

 

Roma, spranghe e
svastiche tra i giovani
studenti di An
Spranghe, catene, ritagli di giornali e volantini siglati con svastiche e celtiche. Non siamo in qualche nostalgico emporio nazista, ma a Scienze politiche nell'aula dei rappresentanti della terza università di Roma. Il materiale era tutto in un armadietto, gelosamente custodito in una stanza ufficialmente adibita a luogo di dibattito nonché sede della redazione di un giornale web e di un'associazione culturale, ma che in realtà da un anno è autogestita da studenti di destra. Ieri un'incursione di alcuni ragazzi del collettivo ha portato alla luce l'intero arsenale nazifascista.

Stefano Milani :: il manifesto 18/3/2009  continua...

 

L'Onda in piazza:
«È in pericolo il futuro»

«Torniamo a surfare come una volta». L'invito, che sa di speranza, apre la «primavera di conflitto» promessa dai ragazzi dell'Onda. Che domani provano a tornare ad «allagare» le piazze italiane, con la stessa forza movimentista messa in campo nell'ottobre scorso. Roma, Milano, Torino, Napoli, Palermo, Genova, Padova, ogni città è buona per partecipare allo sciopero indetto dalla Flc Cgil. Studenti universitari sfileranno accanto ai ricercatori e ai lavoratori precari degli atenei per rilanciare con forza tutto il loro dissenso...

Stefano Milani :: il manifesto 17/3/2009  continua...

Tagli alla scuola, Onda e Cgil riportano la protesta in piazza 
   Roberto Farneti :: Liberazione 17/3/2009

 

Indecente

di Maria R. Calderoni

 https://esserecomunisti.it/dati/ContentManager/images/Interni/cicredesololui.jpgsu Liberazione del 07/03/2009

Offensivo. E anche indecente. Gli possiamo passare gaffes e barzellette, le "corna" in foto ufficiali e facezie anche volgari. Ma la irrisione, la superficialità e il disprezzo verso noi tutti - noi tutti, cioè i famosi noti che non non ce la fanno ad arrivare alla terza settimana, ricordate? se ne parla da mesi e mesi - questo all'ultimo Berlusconi non glielo perdoniamo. Conferenza stampa da fare a pezzi, irricevibile e "sovversiva": guai ai poveri, in sostanza ha mandato a dire. Sono loro la vera causa della crisi! Loro che non consumano come dovrebbero in una società del primo mondo! Loro che osano addirittura "cambiare" stile di vita e correre a vendere all'impronta quei quattro stracci di azioni che magari hanno nel cassetto del comò. Loro che, in preda alla "paura della paura", danno retta alle notizie terroristiche di radio tv e giornali; loro che pretendono addirittura l'assegno di disoccupazione, inaudito! L'assegno, vale a dire l'incentivo collettivo a fare allegramente il lavoro al nero, vale a dire «la licenza di licenziare» per artigiani e piccole imprese, questi scrocconi a spese dello Stato.
Quindi no, niente assegno per i disoccupati, e piantatela di gridare al lupo al lupo. La crisi «di sicuro c'è», ma qui si esagera, non c'è niente di tragico; anzi gli statali hanno più soldi di prima, la benzina è calata e le bollette luce-gas-acqua pure; guai a voi, se cambiate stile di vita e consumate meno di prima sarà peggio per voi, allora sarete voi a far andar male le cose, e magari a rendere veramente tragica la crisi (che sì, «effettivamente c'è»...). Consumate dunque, consumate brava gente; noi abbiamo imboccato la stessa strada di Roosevelt tale e quale; noi mettiamo fuori 18 miliardi per la grande cantieristica; a voi tocca l'obbligo di mantenere il vostro stile di vita. Appunto come ha esortato Tremonti, «uscite a mangiare un hamburger e verniciate i vostri garage».
L'hamburger se lo mangi lui e se vuole si vernici pure il garage, uno avrebbe voglia di ridergli in faccia, a Berlusconi e al suo saputo ministro. Ma non abbiamo voglia di ridere: qui non si tratta di battute, di superficialità e magari insipienza. Non più, non solo: in "questo" Berlusconi c'è una overdose di incoscienza, c'è l'arroganza, c'è il potere che si sente al di sopra di tutto e se ne infischia di chi va sotto e sta male. E c'è il disprezzo, quello di stampo antico contro la plebe stracciona e il popolo bue: sempre quelli, sempre gli stessi che, inaudito! scendono in sciopero perché gli sembrano pochi 50-60 euro mensili di aumento salariale! Che hanno da dire sulla social card da 40 euro al mese, gli incontentabili!
Fine di una conferenza stampa senza onore. Non ci metteremo a tirar giù i dati, magari quelli recentissimi targati Istat, su come stiamo noi tutti, dall'era euro in poi.
Non c'è onore, non c'è parola.

 

Umiliati e arrabbiati

di Luciano Gallino

su altre testate del 07/03/2009

“Non è un paese per giovani, non è un paese per vecchi”: non è un paese per chi lavora, ma per chi percepisce rendite. La Repubblica, 4 marzo 2009

Repubblica.it ha svelato il Paese dei senza lavoro, un pezzo d’Italia che diventa sempre più grande e disperato. Le persone che raccontano le loro esperienze di senza lavoro rientrano abbastanza chiaramente in due gruppi diversi. Ci sono quelle ancora giovani, al massimo trentacinquenni, che si interrogano sul perché il mondo della produzione non riesce più a trovar loro un’occupazione; e quelle sui 45-50 anni e oltre, le quali hanno compreso che per lo stesso mondo sono ormai troppo anziane.

Del primo gruppo colpisce soprattutto il fatto che i titoli di studio elevati sembrano servire poco per trovare o mantenere un posto di lavoro qualificato, coerente con gli studi fatti. Hanno due o tre lauree, un paio di master, tre o quattro specializzazioni, significative permanenze all’estero. Speravano di far ricerca in aziende di alto profilo, quelle da cui escono le invenzioni che cambiano il mondo e migliorano la vita. Contavano di guadagnare bene e di fare prima o poi un figlio. Oppure di dedicarsi all’insegnamento. Invece si ritrovano a fare il garzone di cucina in un fast food, la badante o l’addetto alle pulizie sui vagoni delle ferrovie. Con paghe effettive da 6 euro l’ora, quando va bene 800 al mese. Naturalmente con un contratto a breve scadenza. Che alla scadenza non viene rinnovato. Con la precisazione, se si tratta di una donna, che non si può rinnovare il contratto a una che potrebbe addirittura fare un figlio. Esperienze ripetute per tre, cinque, dieci anni. Fino a quando non ci si arrende, e si ritorna a casa dai genitori, senza soldi e senza figli, portando con sé il senso di una sconfitta di cui non si ha colpa, ma che pare irrimediabile. Non è un paese per giovani, l’Italia.

Non è nemmeno un paese per vecchi; laddove vecchio, aziendalmente parlando, significa aver passato i quaranta. In questo secondo gruppo i disoccupati che si raccontano sono in prevalenza dirigenti d’azienda, funzionari della PA, tecnici con una lunga pratica di laboratorio, esperti di informatica. Rappresentano un patrimonio immenso di conoscenze, competenze professionali, abilità accumulate in decenni di lavoro. Però alle imprese non servono più. Perché ai tempi della crisi l’impresa deve dimagrire, cioè tagliare posti, e ovviamente preferisce tenersi i dipendenti più giovani. Oppure perché progetta di trasferirsi da Catania a Belluno, o da Novara a Tallin, e una che ha cinquant’anni, due figli studenti e un padre in cattiva salute magari non è troppo disponibile al trasloco. O semplicemente perché la settimana prossima l’impresa chiude, come ha deciso il proprietario che risiede non si sa bene dove, in Irlanda o in Brasile.

Di conseguenza la dirigente o il tecnico con decenni di prezioso sapere professionale, o l’amministratore che maneggiava miliardi, cominciano a spedire curricula in giro. Decine alla settimana. Centinaia al mese. Con i titoli di studio in evidenza, la carriera in aziende di primo piano, i risultati eccellenti della propria attività. In generale non ricevono nemmeno risposta. Nessun Direttore per le Risorse Umane prende oggi in conto l’assunzione di una persona che oltre ad avere già superato i 45 o i 50 anni, si è pure fatta licenziare.

Un paio di elementi accomunano i due gruppi dei disoccupati più e meno giovani. Il primo è il senso di umiliazione che traspira dai loro scritti, di ingiustizia gratuitamente subita. In una società in cui la sopravvivenza stessa dipende dal lavoro che si fa, ovvero dal reddito che ad esso è collegato, venir privati del lavoro o non riuscire trovarlo, non per demerito proprio ma per incomprensibili vicende dell’economia, è la peggiore offesa che possa colpire un essere umano. Lo rode nel profondo, ferisce la sua stima di sé, pesa sui rapporti con il prossimo. Molti di questi racconti trasmettono con dolente vivezza questo senso di offesa.

L’altro elemento in comune è il risentimento, se non la rabbia, verso chiunque svolga un ruolo in campo economico. La politica, il governo, i partiti, la pubblica amministrazione, gli enti locali, le imprese grandi e piccole, i singoli imprenditori, i manager, lo stato: tutti sono oggetto di sprezzanti giudizi. E’ vero, non si tratta d’un campione rappresentativo, a fronte dei milioni che si trovano in condizioni simili. Ma chi sottovalutasse il significato sociale e politico di questi racconti di ordinaria disoccupazione commetterebbe un madornale errore.

 

Il piano varato dal Cipe voce per voce 
   Andrea Del Monaco :: il manifesto 7/3/2009

 
Il welfare di facciata
Proprio il giorno successivo al rifiuto parlamentare della proposta del Partito democratico di riconoscere a tutti i disoccupati un assegno pari al sessanta per cento dell'ultima retribuzione, il Consiglio dei ministri ha annunciato un mini piano a sostegno del lavoro, che i dati riconoscono ormai come vittima principale di questa crisi economica. Ne sono testimonianza l'aumento delle richieste, del 46 per cento, delle indennità di disoccupazione e le impennate continue, l'ultima di oltre il 500 per cento su base annuale, del ricorso alla cassa integrazione da parte delle imprese.
Andrea Scarchilli :: Aprile online 13/3/2009  continua...

 

Una scuola su cinque cade a pezzi Mo. Ma. :: Aprile online 13/3/2009

Indesit, imparare la lezione dell'Electrolux 
   Adriano Serafino :: il manifesto 15/3/2009
Tod's, i sindacati: "Pronti a denunciare Della Valle" 
   Castalda Musacchio :: Liberazione 15/3/2009


Lavoro sano, lavoro sicuro
Quando, oltre trent'anni fa, cominciai a lavorare nel sindacato, mi capitò il seguente caso. In un'azienda calzaturiera della provincia bresciana, un giovane operaio, ancora in prova, incorse in un gravissimo infortunio sul lavoro. Entrambe le mani gli furono troncate di netto mentre lavorava alla tranciatura delle tomaie. Tutta la fabbrica si fermò. Il padrone si difese sostenendo che il "tragico" evento non poteva essere causato dalla carenza di adeguati dispositivi antinfortunistici di cui la macchina era, a suo dire, perfettamente munita. Precisamente, la protezione consisteva in due...

Dino Greco :: Liberazione 6/3/2009  continua...

 


S.O.S. pensioni Carla Ronga :: Aprile online 6/3/2009


La beffa del governo: ricariche mancate, un regalo a Mastercard
Un vero e proprio percorso a ostacoli, quello della carta acquisti per i più poveri, a tal punto che su una platea di aventi diritto di 1,3 milioni di persone finora sono state distribuite appena 560 mila social card. Non tutte però sono state caricate, e 200 mila persone, denunciano le Acli, sono ancora in attesa di ricevere gli arretrati promessi da Tremonti (120 euro, che coprono ottobre, novembre e dicembre, per chi ha fatto richiesta della carta solo a gennaio). La crisi non era che ai suoi prodromi quando il governo ha varato...

Sara Farolfi :: il manifesto 6/3/2009  continua...

Tremonti si sveglia:
la crisi è gravissima
Le certezze di Giulio Tremonti si stanno (per fortuna) sgretolando: il ministro dell'economia ha finalmente scoperto che la crisi è grave e serie e non è il caso - come ha fatto con Berlusconi finora, di minimizzare i rischi che corre l'Italia., visto che quello odierno è un presente durissimo e il futuro non da segni di miglioramento. «Il 2009 sarà un anno ancora più difficile del 2008. Il che è tutto dire», ha sostenuto ieri Tremonti incontrando al ministero i rappresentanti delle imprese e delle banche in occasione del «Credit day», la «giornata del credito». Com'è sua abitudine, però, il braccio destro...
Roberto Tesi :: il manifesto 6/3/2009  continua...

 

POTREMO ANCORA SCIOPERARE?

Non li ferma nessuno. Dal settore dei trasporti a tutto il mondo del lavoro. Il ministro Sacconi e il Consiglio dei Ministri approvano un pacchetto di limitazione generale degli scioperi

https://esserecomunisti.it/dati/ContentManager/images/Lavoro%20e%20economia/lopotremofare.jpg

Gallino: «Pure la legge antisciopero. Davvero c'è da avere paura»

di Manuela Cartosio

su Il Manifesto del 28/02/2009

Grande sociologo del lavoro, eccellente storico delle occasioni mancate dall'industria italiana, il professor Luciano Gallino è anche una persona saggia ed equilibrata. E' soprattutto al secondo che abbiamo rivolto qualche domanda sulla legge antisciopero approvata ieri come sempre «all'unanimità» dal consiglio dei ministri. Forse volevamo essere essere rassicurati, e invece...

A questo punto, professore, dobbiamo davvero avere paura?

Penso proprio di sì. Quella della limitazione del diritto di sciopero è una strada che si sa dove comincia ma non si sa dove finisce. Anzi, lo sappiamo benissimo. Il governo comincia con i trasporti, poi passerà a tutti i servizi di pubblica utilità, poi al pubblico impiego e alla fine, per coerenza, la valanga investirà il settore privato.

L'obiettivo è inseguito da tempo. Perché ora si accelera?

Da un governo di destra c'era da aspettarselo. Crisi e disoccupazione oscurano l'orizzonte, il timore di perdere il posto di lavoro e un reddito per quanto minimo viene prima di tutto, lascia poco spazio alle battaglie per i diritti, per quanto sacrosanti. Il momento è buono per affondare il colpo. E' stato scelto con cura. E poi dobbiamo ammetterlo: molti italiani sono favorevoli a limitare il diritto di sciopero, almeno nei trasporti. Non servono i sondaggi per saperlo. Un sacco di persone sono d'accordo con le peggiori cose attuate o progettate da Berlusconi. Questo è il nostro problema.

Il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali è già stato limitato da due leggi. C'era proprio bisogno di una terza?


Ci si poteva accontentare di qualche ritocco, di una manutenzione ordinaria, di un aggiornamento. Invece qui siamo al giro di vite e molto stretto. E' vero che siamo ancora all'inizio dell'iter, ma l'inizio è pessimo. L'articolo 40 della Costituzione è sibillino. Dice che il diritto di sciopero «si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano». Se le leggi sono ultrarestrittive, come risulta dai paletti messi dal ministro Sacconi, ne consegue un drastico ridimensionamento del diritto di sciopero come fin qui esercitato nel nostro paese.

Questa è una legge antisciopero e, insieme, una legge contro la Cgil.

Non c'è dubbio che la Cgil è sotto tiro. Il segretario Epifani ha preso una posizione netta. Cisl e Uil sono più che disponibili. Però bisognerà vedere come si evolverà la situazione. L'ingordigia del governo è così grossa che persino Cisl e Uil potrebbero essere costrette a rivedere le loro posizioni.

Il ministro Sacconi, bontà sua, sostiene d'aver optato per la legge delega per valorizzare i contributi delle parti sociali.

E' vero il contrario. Una legge delega è una scatola vuota dove il governo può metterci quel che vuole.

Il ddl-delega approvato ieri dal consiglio dei ministri contiene leggere modifiche rispetto al testo anticipato dai giornali. In meglio o un peggio?

La sostanza non cambia. Non è certo una miglioria dire che "basterà" il 20% della rappresentanza per indire un referendum in cui almeno il 30% dei lavoratori dovrà approvare lo sciopero.

I referendum su accordi e contratti sono discrezionali, quelli sugli scioperi diventeranno obbligatori.

Con l'aggravante che per ottemperare alle macchinose procedure i tempi per fare uno sciopero diventeranno biblici.

Cose che succedono in un paese dove l'opposizione non c'è.

Se nemmeno una legge antisciopero riuscirà a imporre un minimo di unità ai pezzi sparsi delle sinistre, siamo davvero messi male.

 

Guerra al diritto di sciopero

di Sara Farolfi

su Il Manifesto del 28/02/2009

Approvata la legge delega che controriforma il diritto di sciopero. Confermata l'adesione preventiva e lo sciopero virtuale. Resta il nodo della democrazia. E tra due anni arriverà un Testo unico valido anche per tutti gli altri settori. La Cgil isolata. Il governo esulta, insieme a Confindustria, Cisl e Uil

Un Testo unico sul diritto di sciopero, entro due anni. E' negli ultimi capoversi del disegno di legge (ddl) approvato ieri dal consiglio dei ministri che si coglie il progetto complessivo del governo: coerentemente agli obiettivi della legge, «il governo è altresì delegato ad apportare all'ordinamento vigente ogni ulteriore modifica e integrazione, con la possibilità di redigere, entro 24 mesi, un testo unico delle disposizioni in materia di diritto di sciopero». Il testo approvato ieri - in nessun punto del quale, peraltro, si legge che si tratta di norme «limitate» al settore dei trasporti - non è dunque che l'inizio, i trasporti l'apripista. Gli 'scalini' per avere diritto alla proclamazione di uno sciopero salgono addirittura a tre mentre - «ammesso che sia lecito collegare un diritto a una soglia di rappresentanza», nota Fabrizio Solari (Cgil) - resta insoluto il nodo dei nodi: come si certifica la titolarità di un'organizzazione sindacale a firmare accordi o proclamare scioperi. Tutto ciò che non è Cgil, Cisl e Uil viene tagliato fuori e proprio nel settore dove più sono presenti sindacati di base, basti pensare al caso Alitalia o alle Ferrovie. Sacconi e Brunetta esultano, l'intendenza Cisl e Uil segue. Confindustria rilancia e chiede l'export delle nuove norme anche nel privato. Risalta la solitudine di Epifani (Cgil): «Mettere una cappa su un diritto di libertà, come è quello di sciopero, è il segno che si vuole rendere più debole la capacità di rappresentazione e di risposta del lavoro, per rendere più forte quella della sua controparte. Per noi questo non è accettabile».
Diritto di sciopero virtuale
Il governo avrà ora un anno di tempo per firmare i decreti che modificano le regole nel settore dei trasporti (e a seguire un altro anno per redigere il Testo unico). Il testo approvato ieri dai ministri ne definisce i contorni dell'intervento, restringendone ancora di più l'esercizio. Potranno proclamare scioperi quelle organizzazioni sindacali che, nel settore, hanno un grado di rappresentatività superiore al 50 per cento. Chi non ci arriva, ma deve raggiungere una soglia di rappresentatività di almeno il 20%, potrà indire un referendum tra i lavoratori, e lo sciopero potrà farsi se almeno il 30% sarà favorevole. Nei servizi di particolare rilevanza (non si dice quali) sarà obbligatoria l'adesione preventiva di adesione allo sciopero da parte del singolo lavoratore: un modo ottimale per consentire alle aziende di sostituire chi protesta o, alla peggio, per provvedere alla dissuasione. Contro il cosiddetto «effetto annuncio», la revoca degli scioperi dovrà essere comunicata con largo anticipo.
Resta lo sciopero virtuale, che sarà regolamentato nei vari contratti: si tratta di quella forma di agitazione in cui il lavoratore resta al lavoro ma senza percepire stipendio, mentre all'azienda viene comminata una sorta di multa da devolvere in beneficenza. Si tratta di una forma di protesta da tempo esistente, quasi mai utilizzata (per la difficoltà di trovare accordi sull'entità della 'multa' da comminare all'azienda). Perciò Sacconi ha voluto renderlo più agevole con la possibilità per il lavoratore di restare al lavoro senza rinunciare allo stipendio, magari «con un segno distintivo al braccio, penso a una fascia al braccio che indica uno stato di malessere...». Lo sciopero virtuale sarà obbligatorio «in alcuni settori per la delicatezza del servizio». mai nel testo si dice che le norme sono 'limitate' ai trasporti: l'accento viene posto sulla difesa del diritto alla mobilità. Cambia anche il ruolo della Commissione di garanzia, la cui terzietà già oggi non era certo cristallina, e che potrà avere competenze «conciliative, anche obbligatorie» per la risoluzione di conflitti, servendosi, guarda un po', delle strutture del ministero del lavoro. Arrivano infine sanzioni amministrative (da 500 a 5000 euro) per chi viola le norme e per chiunque «blocchi strade, porti, aereoporti, e stazioni».
Il nodo della democrazia
Resta insoluto il vecchio nodo della rappresentanza e della rappresentatività - l'unico settore 'regolato' da questo punto di vista è il pubblico impiego - ossia di come venga stabilita la titolarità a proclamare scioperi o firmare accordi.
«Se ci vuole una soglia, ossia una verifica del reale consenso, per proclamare uno sciopero, e ammesso che questo sia lecito, non si capisce perché non debba esserci un meccanismo di verifica quando si fanno piattaforme o si firmano contratti», nota Fabrizio Solari (Cgil). Sarà obbligatorio un referendum per decidere un'astensione, mentre non lo è per verificare il consenso dei diretti interessati su un'accordo. Persino se oggetto dell'accordo sono le regole della contrattazione, come è avvenuto il 22 gennaio scorso con la firma dell'accordo sul modello contrattuale senza quella della maggiore confederazione in termini di iscritti (la Cgil). E senza che nell'accordo stesso si preveda il ricorso alla misurazione. Anche il ricorso alla delega al governo, ha detto Epifani, non è appropriato su materie tanto delicate, sulle quali dovrebbe essere il parlamento a esprimersi. «Il confronto continua, non è un decreto legge, non entra in vigore stanotte», dice Sacconi, «non potevamo stare a guardare tutti questi scioperi». Secondo il segretario della Cisl si tratta di regole «equilibrate, rispettose delle esigenze di ciascuno e della maggioranza dei lavoratori». Secondo i sindacati di base (Cub, Cobas e Sdl) il disegno di legge è «incostituzionale e inapplicabile».

 

Comunicato di Rifondazione Comunista su SIPE S.p.A.

In relazione alla delicata situazione dei lavoratori della ex SIPE di Monte San Vito, il PRC di Jesi, attraverso questo comunicato, vuole esprimere e ribadire tutta la sua preoccupazione per questa vicenda che non fa altro che mettere ancor più in risalto la devastante crisi occupazionale che sta colpendo tutta la Vallesina. 

Il circolo Karl Marx di Jesi non può e non vuole tacere davanti all’ennesimo caso di gestione industriale puramente speculativa, dove a rimetterci sono sempre i lavoratori.

Uomini e donne che al freddo, notte e giorno, protestano davanti  alla loro fabbrica, per impedire che venga  portato via loro il  lavoro sono li a lottare per la difesa del proprio futuro.

Lo devono sapere anche i loro manager, che guadagnano fior di quattrini e che davanti alla generale crisi del  settore sono talmente bravi da trasferire un comparto della  produzione in Polonia, sfruttando il basso costo della manodopera e lasciando, per ora, senza lavoro circa trenta persone dello stabilimento di Monte san Vito; senza contare gli altri quarantacinque dipendenti, mandati in cassa integrazione a zero ore!

Non si può permettere a questi signori dell’industria di realizzare certe operazioni di mercato a dir poco discutibili, e con tutta tranquillità lavarsi le mani del futuro dei propri dipendenti, gettandoli nel baratro della disoccupazione! 

Il direttivo del PRC di Jesi ribadisce con forza tutta la solidarietà ai lavoratori della ex  SIPE, ribadendo l’appoggio totale e attivo a qualsiasi manifestazione di protesta, per la difesa di un loro diritto costituzionalmente inviolabile.

Confidiamo, inoltre, nel sindacato di categoria e nel ruolo fondamentale dell’amministrazione comunale di Monte San Vito, come garanti per la difesa dei lavoratori e dei loro diritti.

Cogliamo poi l’occasione per invitare gli operai della Sipe e tutti i lavoratori della Vallesina al dibattito, organizzato dal circolo di Jesi, che si terrà Venerdì 27 Febbraio a JESI al Palazzo dei Convegni sul tema: "La crisi economica, l'attacco al lavoro, l'opposizione sociale, sindacale e politica".

 Prc Jesi, Circolo Karl Marx Jesi, 22/02/09

 

 

 

 

 

 

Precari, raddoppia l'elemosina

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 14/03/2009

Il sostegno a chi perde il posto passa dal 10 al 20%, ma resta una tantum. Cgil critica: lo avrà solo 1 atipico su 10. Pd e Udc: aiutino inadeguato

L'elemosina è stata raddoppiata, ma resta sempre un'elemosina. Il governo ha deciso ieri di portare dal 10% al 20% della retribuzione annuale, l'indennità una tantum destinata ai parasubordinati che verranno licenziati: si tratta, secondo i calcoli della Cgil su dati Inps, di passare da circa 800 a 1600 euro medi (mentre il ministro del Welfare Sacconi ieri parlava di una somma che va da 1000 a 2600 euro). Soldi che i collaboratori, dopo anni di sfruttamento, riceveranno in un'unica tranche, per rimanere sostanzialmente a piedi per tutti i mesi a venire. E non basta, perché essendo molto stringenti i requisiti in base ai quali si potrà accedere al sussidio, non saranno affatto tutti gli 836 mila parasubordinati del Paese a ricevere la cifra, ma al massimo un 10% (calcola la Cgil), cioè circa 80-90 mila persone. La cifra stanziata dal governo, d'altra parte, è molto bassa: cento milioni di euro.
Ma spieghiamo prima i contenuti del provvedimento, e poi riporteremo le critiche che ne mettono in evidenza i limiti. È probabile che le misure siano inserite come emendamento al decreto sugli incentivi alle auto e agli elettrodomestici.
Assegno in 20 giorni. Si accorciano i tempi per accedere agli ammortizzatori sociali. «Dai 120-140 giorni che servivano per l'erogazione degli strumenti ordinari, con le misure adottate oggi ci sarà una drastica semplificazione del procedimento per arrivare a 20-30 giorni», ha annunciato il ministro Sacconi.
Raddoppia l'indennità. «L'indennità di reinserimento per i collaboratori a progetto con un solo committente - ha spiegato il ministro - è innalzata dal 10% al 20% di quanto percepito l'anno precedente in una somma che va da 1.000 ai 2.600 euro circa». Il costo di questa misura è di circa 100 milioni di euro per il 2009. «Useremo 100 milioni ulteriori di disponibilità del ministero. Ragionevolmente prorogheremo anche nel 2010 la misura ma attualmente la copertura è per il 2009».
Piccoli lavori per chi ha sussidi e «voucher». I lavoratori che ricevono i sussidi potranno accettare anche piccoli lavori, ma per un massimo di 3 mila euro per la parte restante del 2009. Potranno così integrare all'80% il reddito che ricevono dagli ammortizzatori. Si potranno considerare come spezzoni lavorativi anche i buoni lavoro, i cosiddetti «voucher» già utilizzati in agricoltura e nei lavori domestici.
Enti bilaterali. Gli enti bilaterali potranno concorrere a integrare il reddito dei lavoratori sospesi per tre mesi ai quali viene comunque garantito l'80% del salario».
Queste le linee guida dell'intervento, almeno nella formula con cui l'ha presentato il governo: di scritto c'è ancora poco e i sindacati e l'opposizione stanno cercando di capire le parti più fumose. Le critiche più pesanti vengono dalla Cgil, che con la segretaria del Nidil Filomena Trizio bolla il provvedimento come semplice «raddoppio dell'elemosina». Roberto D'Andrea, della segreteria nazionale Nidil, ci spiega perché l'indennità una tantum sia di fatto un «bidone» riservato ai precari. «Il problema sta innanzitutto nel fatto che non si parla di interventi strutturali, più a lungo termine, ma di un'una tantum. In media, nemmeno 1800 euro se è vero che il reddito medio annuo di un parasubordinato, secondo l'Inps, è di 8800 euro lordi. Ma è ancor più grave che molti vengano illusi, mentre solo un 10% al massimo riuscirà ad accedere al sussidio: i requisiti sono molto stringenti, e basta non possederne uno per essere esclusi. Bisogna avere un solo committente e un reddito compreso tra 5 mila e 13.800 euro annui: paradossalmente, chi ha fatto meno di 5 mila euro nell'anno passato, non potrà avere l'assegno. E poi, se ne ho fatti 6-7 mila arrabattandomi con più lavoretti, sono comunque escluso. Ancora, si devono avere tra i 3 e i 10 mesi di versamento contributivo nell'anno precedente, e almeno 3 in quello in corso. Ma stiamo attenti: secondo una ricerca della Sapienza di Roma su dati Inps, solo il 53% dei parasubordinati ha più di 6 mesi di lavoro in un anno. In poche parole, non solo sei stato sfruttato sui salari e le tutele: adesso ti tocca pure la beffa di una elemosina».
La Cgil confederale, con Fulvio Fammoni, sottolinea comunque che se il governo ha rimesso mano al provvedimento, è «un primo, parziale ma importante, risultato della nostra iniziativa»: «I risultati sui collaboratori, seppur ancora largamente insufficienti, vanno nella direzione delle nostre proposte». Il leader della Cisl Raffaele Bonanni invece plaude decisamente al pacchetto del governo: «Il dialogo paga».
La Cgil resta sempre dell'idea che si debbano parificare i sostegni dei parasubordinati a quelli di tutti i lavoratori, traendo fondi dalla lotta all'evasione, ma anche da una tassa rtemporanea sui redditi più alti. E, in prospettiva, riformando strutturalmente il welfare. Nel 2008, i dipendenti che hanno perso il lavoro e avevano diritto a un sostegno, hanno avuto 8 mesi pagati (12 se ultracinquantenni); il 60% della retribuzione lorda mensile per i primi 6 mesi, il 50% il settimo e ottavo mese, e il 40% negli ultimi 4 mesi. Per i collaboratori, nonostante versino dei contributi e nonostante l'Inps abbia 11 miliardi di avanzo, finora non è mai stato previsto nulla.
Il leader Udc Pierferdinando Casini dice che «più che un pacchetto di aiuti, si tratta di aiutini». Il Pd aveva chiesto nei giorni scorsi un assegno mensile, per il 2009, per tutti i disoccupati: misura emergenziale finanziata da una tassa di solidarietà sui redditi alti. Ieri il partito ha bocciato come «inadeguato» l'intervento del governo.

 

I salari continuano
a perdere valore
La crisi che stiamo attraversando, come ogni crisi finora conosciuta, produce inevitabilmente i suoi primi effetti sui soggetti più esposti, perciò più deboli del sistema-paese, e non potrà che accentuare tali debolezze quando l’economia riprenderà a crescere. Anzi, una delle interpretazioni più realistiche sulle cause alla base dell’esplosione della bolla speculativa sta nella caduta della quota del lavoro sul reddito primario (nazionale), mediamente di 0,5 punti ogni anno, più o meno ininterrottamente...
Riccardo Sanna :: Rassegna.it 13/3/2009  continua...

 

Lavoro, sul totale degli infortuni 1 su 4 coinvolge le donne

https://esserecomunisti.it/dati/ContentManager/images/Lavoro%20e%20economia/donnebluallavo.bmpdi Beatrice Macchia

su Liberazione del 07/03/2009

Il pericolo è soprattutto la strada. Per le donne gli infortuni sul lavoro avvengono sul tragitto casa lavoro e viceversa. Il 46,1% degli infortuni e il 50% dei casi mortali accade "in itinere". E il dato è ancora più rilevante se paragonato agli incidenti che colpiscono i loro colleghi uomini sul percorso per andare al lavoro (22%). Sul totale degli infortuni però solo 1 un incidente su 4 è rosa (27,5%).
I dati sono stati diffusi dal presidente dell'Inail Marco Fabio Sartori intervenuto ieri mattina a Roma alla presentazione del concorso musicale "Note scordate" promosso dall'Anmil in collaborazione con l'Inail in occasione dell'8 marzo.
Sulla base dei dati Istat, su una popolazione di quasi 60 milioni di residenti in Italia, le donne rappresentano il 51,4%, poco più di 30 milioni. La situazione rilevata a livello occupazionale, mostra uno sbilanciamento a favore degli uomini: solo il 40% degli occupati è donna, 9 milioni su un totale di 23. Dal punto di vista infortunistico, però, solo il 27,5% degli eventi è "rosa": circa 250mila infortuni su un totale di oltre 910mila. La percentuale si abbatte se si passa all'esame dei casi mortali: meno di 100, che corrispondono all'8% del totale. Ciò è indice che le donne vengono occupate in settori meno rischiosi e adibite a mansioni di tipo prevalentemente impiegatizio.
Nella distribuzione degli infortuni in itinere (non avvenuti in occasione di lavoro), invece, la quota rappresentata dal genere femminile, è rilevante e pari esattamente al 46,1%. Ancora più significativa la percentuale degli infortuni mortali avvenuti in itinere tra le donne, oltre il 50% dei decessi (contro il 22,3% tra gli uomini).
A livello territoriale, la percentuale degli infortuni occorsi alle donne è più elevata al Centro con il 30,5% del totale, seguita dal Nord-Ovest (28,1%). Al di sotto del valore medio relativo all'Italia (pari a 27,5%), vi sono il Nord-Est (26,3%), le Isole (26,2%) e il Sud (25,4%). Per i casi mortali, si registra un'incidenza femminile del 10,5% nelle Isole, seguita dal Nord-Est con il 9,6%, mentre il Centro con l'8% è perfettamente in linea con la media nazionale, mentre al di sotto si collocano il Nord-Ovest (7,1%) e il Sud (6,3%).
Se consideriamo la nazionalità degli infortunati, la quota delle donne infortunate straniere scende al 20,3% (rispetto al 28,8% delle italiane), differenziandosi, però, per paese di nascita. Infatti si rilevano dei picchi molto elevati per le donne provenienti da Ucraina (51%), Polonia (41,8%) e Ecuador (37,9%), occupate prevalentemente nei Servizi alle imprese e alle famiglie (pulizie, badanti, colf, ecc.), coerentemente alla composizione per sesso dei flussi migratori. Risultano quindi superate in graduatoria Romania, Albania e Marocco, ai primi posti nella classifica degli infortuni occorsi a stranieri di sesso maschile, occupati invece per lo più nelle industrie pesanti, costruzioni, agricoltura e commercio.

 

Atenei in rivolta per la difesa
dell’Università pubbl
ica

https://esserecomunisti.it/dati/ContentManager/images/Interni/ateininrocv.jpg

Domenica 1 marzo si è conclusa la due giorni promossa dal coordinamento dei collettivi de La Sapienza di Roma nell’ambito del network nazionale “atenei in rivolta”. Alla discussione hanno partecipato tantissimi studenti provenienti dalle realtà di autorganizzazione di almeno venti università italiane. Scopo dell’assemblea era tracciare un bilancio dei mesi di mobilitazione contro le “riforme” Gelmini e contemporaneamente avviare un percorso collettivo finalizzato alla costruzione democratica di un...
Fabio De Nardis :: Liberazione 7/3/2009  continua...

Teste di studenti spaccate a Pisa. Spiati su Facebook a Piacenza. Università blindata a Padova Checchino Antonini :: Liberazione 7/3/2009

 

 

Lavoratrici fino ai 65

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 04/03/2009

Il governo ha deciso: dal 2010 l'età di uscita delle dipendenti pubbliche verrà gradualmente innalzata fino a 65 anni. La bozza della legge è stata inviata alla Ue. No dalla Cgil, mentre il Pd è diviso sulla riforma delle pensioni

Il tema delle pensioni rientra prepotentemente al centro delle cronache: il governo ha deciso di usare l'accetta, e ieri ha ufficializzato l'intenzione di innalzare gradualmente l'età di pensionamento delle dipendenti pubbliche dagli attuali 60 fino a 65 anni. La bozza di proposta dell'esecutivo è stata inviata alla Ue - proprio la Commissione aveva sollevato il problema qualche mese fa - e per velocizzarne l'approvazione, la nuova norma potrebbe essere inserita come emendamento a uno dei disegni di legge (lavoro o comunitaria) attualmente all'esame delle commissioni del Senato.
La riforma prevede l'aumento di un anno per ogni biennio, a partire dal 2010, per arrivare a 65 anni nel 2018. Intanto il nodo pensioni - con la possibilità di un intervento complessivo, avanzata da Confindustria per finanziare gli ammortizzatori sociali - divide il Pd: la parte più «margheritina», che fa riferimento a Enrico Letta, ma anche esponenti come Pietro Ichino, si dicono d'accordo sull'eventualità di intervenire sullo spinoso capitolo, come d'altra parte l'Udc. Contrari si dicono invece i «concorrenti» diessini Bersani e D'Alema, soprattutto nell'attuale fase di crisi. Il neosegretario Enrico Franceschini dà un calcio al cerchio e uno alla botte, specificando che «i temi pensioni e ammortizzatori sono distinti»: «Quando sarà il momento non ci sottrarremo al confronto nel merito sulla riforma del sistema pensionistico, ma è un tema che non c'entra con la nostra proposta sugli ammortizzatori sociali».
Interessante vedere le varie posizioni presenti nel Pd: da un lato Linda Lanzillotta afferma che «si può innalzare l'età di tutti senza ridurre le pensioni, e nello stesso tempo reperire le risorse per gli ammortizzatori e così dare anche un segnale ai mercati». Per Pietro Ichino «si devono reindirizzare verso il welfare i 75 miliardi che lo Stato spende in pensioni: alle famiglie con persone non autosufficienti, o contro la povertà infantile». «Una misura necessaria - conclude - è per esempio il reddito garantito di cittadinanza ai ragazzi fino a 15 anni piuttosto che una garanzia di reddito ai cinquantottenni o ai cinquantanovenni».
Sul fronte opposto sta Rosi Bindi: «Non si può intervenire ora sulle pensioni e non si usa la previdenza per trovare le risorse necessarie a fronteggiare la crisi». Pierluigi Bersani invita il governo a «reperire i 5-6 miliardi necessari per gli ammortizzatori, da una seria ripresa della lotta all'evasione fiscale», mentre per Massimo D'Alema «questo è il momento meno adatto per introdurre contraddizioni: e quindi, per fare una specie di gioco in cui il governo cerca di scaricare sui pensionati il problema disoccupati».
No ad aumenti dell'età anche da Paolo Ferrero (Prc): «E' il contrario di quanto va fatto: pensionati, dipendenti e precari non vanno lasciati soli». Secondo l'Italia dei Valori «si può pensare a una parificazione dell'età tra uomini e donne solo quando si 'parificano' anche le possibilità di accesso al mondo del lavoro».
Dal fronte sindacale, netto il no della Cgil: «Un inaccettabile accanimento contro le donne, nascosto dietro l'ipocrisia della cosiddetta gradualità», dice la segretaria Morena Piccinini. Ma dice no anche Renata Polverini (Ugl): «La risposta del governo alla Ue sull'aumento dell'età pensionabile delle donne non può prescindere dalla volontarietà, quale elemento cardine per lasciare alle lavoratrici libertà di scelta». Quanto al segretario Cisl Raffaele Bonanni, dice «sì alla proposta di Franceschini per l'assegno di disoccupazione», e «no» all'idea di Emma Marcegaglia «di legare i nuovi ammortizzatori sociali alla riforma delle pensioni».

 

«Basta, ormai questo paese ha dichiarato guerra all'intelligenza» Mariangela Maturi :: il manifesto 4/3/2009

 

"Precarie e vittime del ricatto: o la carriera o la famiglia"

Roberto Farneti


Filomena Trizio, segretaria generale del Nidil, l'organizzazione che in Cgil si occupa del lavoro "atipico". Quali sono le cause della differenza nella retribuzione media tra uomini e donne in Italia?


Vanno distinti due ambiti, quello del lavoro dipendente a tempo indeterminato e quello delle varie forme di precarietà. Nel caso del lavoro a tempo indeterminato, uno dei fattori che abbassa il livello delle retribuzioni è il ricorso al part-time, che a livello femminile incide ancora notevolmente. Tra uomini e donne c'è però soprattutto un problema di differenziale di carriera. Le donne restano tendenzialmente nei livelli più bassi dell'inquadramento contrattuale, qualsiasi sia il contratto. Pagano in questa maniera il "pegno" del loro essere geneticamente predisposte alla maternità. Perché non è mai messa in discussione la capacità lavorativa o la qualità del lavoro delle donne. Quello che puntualmente viene sempre messo in discussione - si tratti di straordinari o di percorso professionale - è la discontinuità di prestazione legata o alle maternità o a ciò che fa seguito alla maternità o, in generale, al lavoro di cura.

Non è neanche una questione di titolo di studio. Nella relazione della Commissione europea c'è scritto che le donne rappresentano il 59% di tutti i nuovi laureati.
Questo è il paradosso che accompagna tutte le forme di lavoro femminile. Le donne sono tendenzialmente le più istruite, quelle che tendono a conseguire titoli di studio con punteggi più alti. Malgrado ciò, il dato che emerge alla fine è che nel mondo del lavoro gli uomini procedono e le donne si fermano. Ci troviamo di fronte a una vera e propria anomalia di sistema, perché gran parte di questa pratica discriminatoria, più ancora che alla maternità, è legata alla mancanza di strutture per gli anziani e per i bambini, troppo spesso surrogata dal lavoro di cura femminile.

C'è poi l'altro aspetto a cui accennavi, quello del lavoro precario, particolarmente diffuso tra le donne.


Questo sta diventanto un problema persino più grave dell'altro. Noi del Nidil lo scorso anno abbiamo condotto uno studio sul lavoro femminile nel precariato. Quello che ne emerge, sotto tutti i profili, è che anche qui - a parità di età e in presenza di livelli di istruzione spesso pari o addirittura superiori a quelli maschili - c'è una marginalizzazione del lavoro femminile, il quale occupa le fasce più basse in termini di qualificazione professionale. E quandanche ci sia una maggiore rispondenza con il titolo professionale, in ogni caso l'impiego femminile è tarato su livelli di orari e di prestazioni tali da determinare uno scarto salariale del circa 30% in meno rispetto agli uomini. Il lavoro femminile in parasubordinazione nelle nicchie peggiori e nelle fasce più marginali è maggiormente concentrato, non a caso, nel Mezzogiorno. Qui le donne inserite nei circuiti lavorativi precari, per non essere espulse, devono rinunciare alla maternità; se invece fanno la scelta della maternità, la scontano con il non rientro al lavoro. Ecco perché in occasione del rinnovo del contratto a somministrazione, siglato a luglio 2008, abbiamo fatto una battaglia serissima, vincendola, per conquistare il diritto di precedenza al riavvio delle lavoratrici fuoriuscite dal lavoro per maternità.

Queste disparità - salariali e non - tra lavoratori e lavoratrici hanno conseguenze anche sulle pensioni. L'Ue dice che il rischio di povertà in età avanzata è maggiore per le donne: 21% contro il 16% degli uomini. Ora il governo vuole allungare l'età lavorativa delle donne e dal Pd sono giunte aperture. Ma così facendo l'unica forma parziale di risarcimento per il doppio lavoro svolto in casa e fuori dalle donne verrebbe meno...


E' notissima la contrarietà della Cgil all'innalzamento dell'età pensionabile delle donne. Proprio perché siamo consapevoli di questi problemi. A parte il fatto che già oggi uomini e donne vanno in pensione sostanzialmente a parità di età, solo che gli uomini ci vanno a 60 anni per effetto delle pensioni di anzianità, mentre le donne ci vanno a 60 anni per vecchiaia. Parlare di equiparazione dell'età è un inganno: nei fatti si chiede alle donne di lavorare persino di più degli uomini. E ciò proprio per le questioni che dicevo prima e che impediscono alle donne di accedere alla pensione di anzianità: tardivo inserimento, spesso periodi di fuoriuscita dal mercato del lavoro dovuti alla maternità. Questo determina percorsi lavorativi della durata media intorno ai 20-25 anni. Stando così le cose, non c'è pensione di anzianità che tenga. Ecco perché i 60 anni sono una tappa obbligata e insistere su questo percorso rappresenta solo un atteggiamento punitivo, non certamente di equiparazione.

Liberazione 04/03/2009


Forbice salariale:
l'Europa si scopre maschilista

Per una volta non siamo la maglia nera d'Europa. Anzi siamo i migliori secondo la statistica. Anche se è tutto relativo quando si tratta di discriminazione di più della metà del genere "europeo": donne discriminate nel salario (ma anche nell'accesso al lavoro con 58% delle donne occupate rispetto al 73% maschile). Da ieri l'Unione europea vara una campagna sul " gender pay gap " in vista del 8 marzo. E poco conta che quella che gli statistici chiamano "la differenza relativa delle retribuzioni orarie lorde medie delle...

Claudio Jampaglia :: Liberazione 4/3/2009  continua...

 

 

 

 

 

Gelmini, caos a tempo pieno

di Loredana Fraleone

su Liberazione del 03/03/2009

Secondo i dati ministeriali, il tempo pieno (40 ore settimanali) è stato scelto dal 34% dei genitori italiani e ben il 56% ha iscritto i propri figli al tempo lungo (30 ore).
Verrebbe da dire: "ben scavato, vecchia talpa!". I media appaiono sorpresi e parlano di bocciatura della riforma Gelmini. Il Ministero della Pubblica Istruzione si trova ora in un caos totale; come far quadrare i conti, ossia i tagli, visto che i genitori chiedono, come è loro diritto, di avvalersi di un modello di scuola ancora in vigore? Soltanto il 3% ha scelto il modello breve a 24 ore settimanali, caldeggiato dalla ministra per ridurre i posti di lavoro e rendere operativi i tagli della finanziaria. Se qualcuno sperava che il movimento della scuola si fosse esaurito nelle grandi mobilitazioni dell'autunno-inverno 2008 ha sbagliato di grosso. Portati a casa alcuni risultati anche se non nella misura sperata - sostanzialmente il recupero del tempo pieno e la possibilità di scelta da parte dei genitori dei vari modelli orari - il movimento "del tempo pieno" contrario al maestro/a unico/a e ai tagli di tempo e di risorse, ha assunto un andamento carsico, ha mantenuto i contatti, i comitati, l'azione quotidiana nelle scuole.
La mobilitazione si è concentrata sulle iscrizioni, l'informazione ai genitori è stata preziosa per svelare l'inganno di una riforma tesa ad affossare il diritto allo studio e ciò che di meglio ha prodotto la scuola in questo Paese. Hanno contribuito le associazioni, alcuni sindacati, in particolare la Flc-Cgil che ha utilizzato le affollate assemblee per il referendum sul contratti. Anche Rifondazione si è mossa in un'ottica di servizio al movimento. Stiamo diffondendo un manuale di (R)esistenza per le scuole su questioni concrete, gestibili nella quotidianità, territorio per territorio, per riconquistare occupazione, agibilità, diritti. Lo straordinario risultato delle iscrizioni al tempo pieno o lungo, non esaurisce l'iniziativa di questa fase che, oltre alla scadenza dello sciopero del 18 marzo indetto dalla Flc, richiede ancora controinformazione, costruzione di reti e comitati, tenuta di un tessuto che è uno dei pochi in grado, per il momento, di reggere l'offensiva regressiva e a tratti barbarica in atto nel Paese. E' prevedibile uno stato confusionale del Ministero nella gestione degli organici, dopo la valanga di richieste di tempo lungo arrivate persino da zone dove il tempo pieno non era mai stato attivato. E' prevedibile una reazione scomposta ed autoritaria del governo, come quella già tentata sulle realtà che resistono alla valutazione numerica in nome delle "differenze" da valorizzare e da non omologare nell'aridità dei numeri. La creatività ed il coraggio, come quelli delle maestre della scuola "Longhena" di Bologna attaccate dalla Gelmini e, a seguire, dal sindaco Cofferati, non sono casi isolati e se anche costituiscono punte avanzate del movimento non mancheranno di ricevere la solidarietà che meritano. Anche questo è prevedibile.

 

Dimmi come parli.....Traduzione dal politichese all'italiano di Klaus Mondrian

Maurizio Sacconi
La protesta virtuale per esempio si potrà fare con una fascia al braccio e comunque trattenendo lo stipendio del lavoratore.
Certo che se riusciamo a fregare gli italiani con questa stronzata dello sciopero virtuale… dopo non ci ferma più nessuno. Potremmo inventare lo sciopero virtuoso: il premio al più bravo scioperante d'Italia (chi non sciopera per almeno 40 anni), oppure lo sciopero in tanga per le belle lavoratrici a progetto, lo sciopero con la fascia del milan per i tifosi metalmeccanici… sto pensando anche al supersciopero: il lavoratore per protestare meglio quel giorno lavora il doppio e per dispetto dona tutto lo stipendio del mese all'azienda…

Raffaele Bonanni
Alt, intanto abbiamo ottenuto che la riforma si limiti al sistema dei trasporti.
In ogni sistema democratico la maggioranza più uno è il criterio per stabilire qual è l'opinione prevalente.  Mi riconosco molto nella posizione del presidente della Camera, Gianfranco Fini.

Sacconi ci ha perfino concesso la grazia  di limitare per ora la riforma solo ai trasporti; per gli altri settori ci ha promesso che aspetta che  la gente va al mare…
In ogni caso il Governo può stare tranquillo sulla mia fedeltà. Io sto sempre  con le maggioranze più uno. Come Fini devo ogni tanto devo recitare la parte del rompipalle, fa parte della fiction, che vuoi… ma alla fine siamo tutti sulla stessa banca.

Pierferdinando Casini
Bisogna salvaguardare sempre il diritto di sciopero ma anche tutelare gli utenti, i cittadini, i pendolari.
Su questa storia non so che cavolo dire di preciso. Non vorrei urtare la sensibilità di qualche colluso precario del mio partito che sciopera per farsi riassumere nelle liste europee.

Renato Brunetta
Abbiamo liberato il paese dal ricatto di minoranze politicizzate.
Senza Rifondazione Comunista finalmente c'è una maggioranza non politicizzata anche all'opposizione. A meno che qualche fesso creda che il Pd faccia politica.

Pier Luigi Bersani
Tuttavia noi siamo pronti a discutere. Per esempio la soglia del referendum mi pare un po' alta.
Come ha detto sopra Brunetta confermo che sulla riforma dello sciopero siamo pronti a votare a favore. Ovviamente non ce ne voglia Sacconi se saremo costretti a presentare piccoli emendamentini per recitare la pupazzata dell'opposizione.

Silvio Berlusconi
Sulla Costituzione serve un chiarimento.
Essendo ispirata ai soviet va aggiornata… Va introdotto finalmente il diritto di shopping.

Liberazione 03/03/2009

 

Cremaschi: "La legge antisciopero è autentico fascismo"

Di Giorgio Cremaschi, da www.rete28aprile, 26 Febbraio 2009

Nota stampa.

Il Governo rifiuta di legiferare sulla democrazia sindacale. Respinge l’ipotesi che le lavoratrici  e i lavoratori possano decidere sulle piattaforme e sugli accordi con il loro voto e, nello stesso tempo, impone ad essi di non scioperare o di scioperare virtualmente. (...)
Come in altri piani il Governo si sta inventando un suo sistema costituzionale che non ha nulla a che vedere con la Costituzione della Repubblica nata dalla Resistenza.
Il diritto allo sciopero è un diritto individuale e già esistono le leggi che lo disciplinano. Trasformarlo in un potere dei sindacati maggioritari, tra l’altro da attuare in forme virtuali, cioè inesistenti, significa semplicemente cancellare tale diritto. Né vale la tesi per cui questa misura eccezionale e antidemocratica avrebbe effetti solo nel settore dei trasporti. E’ evidente, infatti, che i principi che qui vengono affermati, proprio perché affrontano temi di carattere costituzionale, non possono essere ristretti a un solo settore. Il Governo vuole colpire il diritto di sciopero perché sa perfettamente che nei prossimi mesi ci saranno sempre più conflitti sociali dovuti alla crisi e alla sua gestione sbagliata e ingiusta. Limitare la libertà, imporre autoritariamente le decisioni e reprimere il dissenso è una caratteristica tipica dei sistemi antidemocratici e, nella nostra storia, è la caratteristica autentica del fascismo.
Se il Governo andrà avanti su queste misure, occorrerà una risposta politica e sindacale senza precedenti, sia sul piano delle relazioni sociali e sindacali, sia sul piano del ricorso alla magistratura e alla Corte Costituzionale. E’ chiaro che dopo questa scelta, con questo Governo ci può essere solo rottura e conflitto sociale.
Rete28Aprile
Roma, 26 febbraio 2009

 

Forum a Liberazione con Giorgio Cremaschi e Dino Greco

«Il mercato è in pezzi, ma la politica non garantisce la svolta sociale»

di ----

su Liberazione del 01/03/2009

Greco Siamo di fronte a una crisi mondiale del capitalismo, del sistema fondato sull'onnipotenza del mercato, malgrado i nostri emuli di Milton Friedman, come Giavazzi, continuino a negarlo. Siamo davvero di fronte ad un salto d'epoca?

Cremaschi Assolutamente si. La crisi è mondiale, ma ognuno ci arriva con le sue disgrazie. E noi abbiamo le nostre. Ed entriamo in questa crisi sicuramente con un livello di democrazia, un livello di poteri sociali, un livello di salari e di diritti, che sono sprofondati nel lungo periodo. Io penso che abbiamo di fronte una caduta della produzione e una caduta possibile dei redditi, da anni '30. La crisi sta in qualche modo risolvendo quel conflitto che ha percorso tutti gli anni ottanta e novanta tra due facce del liberismo: una è quella che predica mercato e concorrenza, l'altra è quella populista e autoritaria inaugurata da Craxi, poi ereditata da Berlusconi. La crisi distrugge l'autonomia della Confindustria e del sistema bancario, le liberalizzazioni e il libero mercato. E lascia sul campo solo il modello autoritario e dirigista di Berlusconi e Tremonti. Questo produce la crisi. Il potere di vita e di morte sulle imprese ce l'ha il potere politico. Un potere politico però di destra, che ha una idea autoritaria della società.

Greco Questo accade nella "provincia Italia". C'è tuttavia una dimensione più ampia, a partire da ciò che accade nel cuore del capitalismo, negli Stati Uniti di Barak Obama. Ci troviamo qui di fronte al tentativo di inaugurare un nuovo corso, una sorta di new deal rooseveltiano. Ci sono alcuni atti, come l'intervento su GM, sulle banche, cose che solo un anno fa sarebbero parse delle pure aporie.

Cremaschi Quello che voglio dire è che mentre il liberismo di mercato è sempre di destra, a differenza di quello che dicono Giavazzi e Alesina, non è detto che il ritorno del pubblico sia sempre di sinistra.
Siamo di fronte al fatto che c'è il fallimento della globalizzazione. La globalizzazione liberista non funziona più. Il meccanismo si è rotto. E non riprenderà più come prima. Quando ci sarà l'eventuale ripresa economica, in mezzo ci saranno stati tali e tanti interventi della politica che quel tipo di globalizzazione lì comunque non ci sarà più.

Greco Esiste la possibilità che prenda corpo l'idea di rafforzare il sindacato come agente di sviluppo dell'economia, contrariamente alle strategie delle passate amministrazioni?

Cremaschi Non lo so. Secondo me, questo non c'è l'ha in mente neanche Obama. Il fatto è che si è precipitati in acqua e si è disimparato a nuotare. Se devo vedere cosa fa Obama, vedo cose contraddittorie. Da una parte dice "buy american", che è uno slogan protezionista classico, che sta avendo già delle ripercussioni, perché vuol dire che l'acciaio europeo muore e significa una competizione selvaggia. Nello stesso tempo la G.M. ha detto ai sindacati americani che la condizione per ripartire per avere gli aiuti di Stato, è dimezzare i salari. Quindi c'è sì un intervento pubblico, ma non è detto che sia democratico, progressivo e partecipativo. E' la crisi totale del post-fordismo. Tutti i governi vanno avanti per tentativi e la prima cosa che fanno è mettere in piedi meccanismi che fino a poco tempo fa erano tabù.

Greco Tuttavia alcune scelte di impronta sociale sono ben visibili: il rilancio del welfare, l'estensione delle tutele sanitarie fatte pagare ai ricchi. E poi, in campo internazionale, l'apertura al mondo musulmano, la proposta di ridurre drasticamente gli arsenali nucleari...

Cremaschi
Si, ma se la domanda era sul lavoro, ti dico non lo so. I dati non ci sono . Non è detto che l'intervento produca effetti socialmente importanti. Se devo vedere i segnali rispetto alla domanda di fondo che fai e cioè se c'è una idea progressista di gestione della crisi, una idea che dica facciamo crescere i redditi dei lavoratori e redistribuiamo la ricchezza, oggi tendenzialmente questo non c'è.

Greco

Torniamo all'Italia. Le imprese che hanno investito in modo massiccio nella speculazione finanziaria adesso si trovano i portafogli pieni di titoli tossici e di derivati. Sono le imprese che hanno pensato di fare i soldi con i soldi anziché investire nel processo e nel prodotto. Adesso quello che chiedono è che si intervenga con il denaro pubblico per ripulire il loro portafoglio, piuttosto che innescare un meccanismo di sviluppo che cambi i comportamenti tenuti in questi decenni. Il modello che in Italia si sta realizzando, dentro questo blocco politico sociale, è il modello Alitalia? Cioè debiti in collo alla collettività, macelleria sociale e rimessa in campo di una imprenditoria fraudolenta ed usuraria?

Cremaschi

Tutto quello che si sta facendo oggi produce regressione sul piano sociale. C'è una politica sempre più aggressiva che vuol far pagare tutti i costi della crisi ai lavoratori, ma non è vero che c'è un ruolo puramente subalterno della politica rispetto all'impresa. E' vero l'esatto contrario. Penso che i padroni vanno con il cappello in mano da Berlusconi e con il bastone dagli operai. Il mercato sparisce definitivamente e diventa una cosa che viene riservata solo ai poveri. La competizione è tra loro.

Greco Il conflitto orizzontale che sostituisce quello verticale...

Cremaschi Questo è quello che sta avvenendo in Italia ancora più che negli altri Paesi. I Tremonti-bond sono il modo con il quale il Governo italiano controllerà il sistema bancario, senza neanche avere fatto l'operazione trasparente della nazionalizzazione. Quindi sarà un controllo preciso, diretto, ad personam. Perché è chiaro che a quel punto chi presta i soldi è il padrone.

Greco
Veniamo al sindacato. Dopo lo sciopero di Fiom e Funzione pubblica, la mobilitazione della Cgil proposta per il 4 aprile è sostenuta da una piattaforma programmatica in grado di dare respiro a questa iniziativa, oppure siamo ancora in una fase in cui si naviga a vista?

Cremaschi Siamo ancora in una fase in cui si naviga a vista, perché manca una piattaforma anticrisi. E manca perché il sindacato è stato parte interna al processo di egemonia culturale dell'impresa e del mercato. E quindi è spiazzato. A volte capita che siano più a sinistra i governi dei sindacati, perché sono i governi a dire nazionalizziamo prima che i sindacati. Questo avveniva anche negli anni '30, peraltro. In Italia, l'attacco ai diritti, ai contratti è avvenuto attraverso la concertazione, facendo partecipare i sindacati al processo di liberalizzazione, privatizzazione, precarizzazione del lavoro. Se questo da un lato ha salvato il sindacato come organizzazione, dall'altro ne ha ridotto la capacità di "fare" sindacato, contrattazione, di essere nel sociale. L'hanno istituzionalizzato. Intanto i salari italiani sono i più bassi d'Europa. Per tantissimi lavoratori oggi il sindacato è una istituzione inutile, cosa che c'è molto meno negli altri paesi in cui c'è invece un riavvicinamento al sindacato. Da questo punto di vista la rottura attuata dalla Cisl sul sistema contrattuale è una cosa importante...

Greco In articulo mortis...

Cremaschi ...esatto. E' semplicemente un fermarsi un metro prima del baratro. Di per sé, tuttavia, non definisce un percorso. E' chiaro che se la Cgil avesse firmato l'accordo separato ci troveremmo in un regime sindacal-berlusconiano. Questo oggi non c'è, ma non è detto che ci sia la risposta.

Greco Oggi c'è una intera generazione, forse due, allo sbando, senza che sia possibile immaginare come la loro condizione materiale ed esistenziale possa essere recuperata. Nell'arco di poco meno di vent'anni si sono abbattuti su di loro veri e propri colpi di maglio: il ripetuto intervento sul regime pensionistico, la devastazione del mercato del lavoro, il taglio delle retribuzioni attraverso l'attacco al contratto nazionale e, infine, i licenziamenti di massa senza disporre di adeguati ammortizzatori sociali. Oltre alla risposta alla crisi, quella sistemica, esiste una linea plausibile di difesa, esiste una strategia anche pragmatica da riprendere in campo qui ed ora per rispondere a questa condizione che qui ed ora ha bisogno di risposte?

Cremaschi
Nella crisi, il modello delle relazioni sindacali diventa un modello autoritario dove da un lato conta soprattutto il Governo e le sue decisioni, mentre in azienda c'è la complicità. Al sindacato si chiede di adattarsi a questo. La complicità non può che essere azienda per azienda e quindi non può che alimentare la guerra tra i poveri. Cisl e Uil hanno progressivamente accettato questa cosa. E sono dentro. La Cgil ha detto di no a questo, ma non ha nessuna risposta alternativa perchè vive nel rimpianto della concertazione. In questo c'è una similarità tra gruppo dirigente della Cgil e Partito democratico. Una similarità di posizione impotente. Come il partito democratico, rimpiange il periodo in cui era la sinistra che gestiva la politica economica di destra, quando Agnelli diceva a D'Alema: "solo voi potete fare certe cose". Il Pd rischia l'estinzione politica per inutilità. La Cgil rischia di trovarsi nella stessa situazione.

Greco
La Fiom ha fatto della questione democratica la sua bandiera. Su questo tema è possibile ricostruire le basi di un rilancio di un sindacato moderno?

Cremaschi
Quella della Fiom non è una specificità di categoria, è un'ipotesi di sindacato confederale. O la Cgil si ristruttura e si riorganizza usando l'esperienza della Fiom, oppure si balcanizza e la maggior parte verrà riassorbita nel modello Cisl, aziendalistico ed autoritario. La democrazia è il cardine della partita. Perchè è chiaro che scegliere fino in fondo la pratica della democrazia sindacale significa scardinare il modello di sindacato nato dalla concertazione.

Greco Una battuta sulla politica. Si è determinata nel Prc l'ennesima scissione. Gli scissionisti pensano ad un cartello elettorale che comprenda anche socialisti e radicali,con un occhio all'Udc. Poi c'è stato un appello di un gruppo autorevole di intellettuali per una lista unitaria di tutta la sinistra sotto un ombrello definito "per la democrazia" Che ne pensi?

Cremaschi
Con tutto il rispetto, mi pare un'operazione senza futuro. Mi dispiace, perchè sono persone che stimo. Penso che oggi c'è bisogno di una critica radicale ed organizzata al capitalismo. Non siamo più di fronte alla caduta del muro di Berlino, ma di fronte alla crisi del capitalismo reale.

Greco Siamo anche di fronte alla crisi del bipartitismo?

Cremaschi Del bipartitismo non lo so. Siamo di fronte alla crisi della politica dell'alternanza, questo sì. In Italia Berlusconi ha occupato lo spazio della politica delle alternanze e quindi c'è il rischio che l'alternanza a Berlusconi tra cinque anni sia Fini. O si costruisce un'alternativa oppure l'alternanza ci sarà solo nella destra.

 

 

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Strage di migranti
davanti alle coste libiche

Il 30 marzo 2009 si è consumata l`ennesima tragedia dell`immigrazione “clandestina”. Nello stesso giorno in cui il ministro Maroni annunciava che dal 15 maggio saranno avviati i pattugliamenti congiunti di unità italiane e libiche per impedire ai migranti di raggiungere Lampedusa e le coste meridionali della Sicilia, il Corriere della sera riferisce che un peschereccio su cui erano stipate 257 persone che si dirigevano verso l`Italia sarebbe affondato al largo delle coste libiche: “soltanto 23 persone sono state salvate dalla marina libica”.

Fulvio Vassallo :: Terre libere.org 1/4/2009  continua...


 

Fasci napoletani. L'estrema destra sotto il Vesuvio
Nella saletta studenti all'entrata della Facoltà di giurisprudenza, sugli armadietti consumati, sei adesivi marcano il territorio: «Odia gli stupidi», firmato Blocco studentesco. Sono sfregiati perché a quanto pare lo scorso 18 marzo, dopo la rissa tra i fascisti e gli attivisti dell'Onda, qualcuno di sinistra avrebbe fatto irruzione per appendere le proprie locandine. «Quest'aula è di tutti. Noi siamo aperti al dialogo, ma dai collettivi è solo una guerra». Antonio Ponticelli è consigliere di facoltà, eletto a...

Francesca Pilla :: il manifesto 1/4/2009  continua...

La marcia di Mussolini nella politica italiana Italia dall'estero.info 1/4/2009

L'ombra del fascismo
L’obiettivo centrale di Silvio Berlusconi come Primo Ministro italiano è apparso da lungo tempo sconcertante e vergognosamente ovvio. Sin da quando scese in campo nel vuoto politico creato nel 1993 dai simultanei scandali della corruzione governativa a destra e dal collasso del comunismo italiano a sinistra, il signor Berlusconi ha usato la sua carriera e il suo potere politico per proteggere dalla legge se stesso e il suo impero mediatico. Durante il più lungo dei suoi tre periodi di detenzione del potere, il signor...
The Guardian 30/3/2009  continua...

Un happening antifascista. Per fermare il naziraduno europeo 
   Mariangela Maturi :: il manifesto 1/4/2009

 

Anche nelle Marche il pacchetto sicurezza impedisce l'integrazione dell'immigrato

Nel pacchetto di sicurezza, ci sono norme che classificano i residenti nel belpaese in cittadini di serie, "a" e ”b", in serie "b" naturalmente ci sono gli immigrati, razze inferiori, in altri parole sono nemiche da combatterle in tutti i campi. L'opposizione parlamentare di Pd e Idv non ha alcuna intenzione di accettare il confronto, il dialogo, il dibattito politico.

La legge è così brutta, antistorica, incivile da far preoccupare perfino la Conferenza episcopale italiana, è tutto dire. Neppure l'Udc di Casini - che pure ha quindici anni di esperienza di lavoro a fianco a fianco con Berlusconi, Bossi e Fini - se la sente di appoggiare la strategia politica della maggioranza. Una maggioranza al cui interno prevalgono - nel caso in esame - le più profonde e peggiori pulsioni leghiste. Esempio: tre anni fa le procedure per il rinnovo del permesso di soggiorno sono cambiate. Adesso si spedisce tutta la documentazione a Roma via posta. Prima si pagavano circa 10 euro, il costo della marca da bollo. Il 4 dicembre 2006, i cittadini stranieri potranno ritirare presso tutti gli Sportelli di Poste Italiane una busta con i moduli a lettura ottica. Pagando 27,50 euro con bollettino In di conto corrente postale per la stampa del nuovo permesso di soggiorno elettronico, se provieni da un Paese extra Unione Europea e richiedi il permesso di soggiorno superiore a novanta giorni, e 14,62 euro per la marca da bollo da allegare alla domanda, e alla fine 30 euro da versare all'operatore dell'Ufficio Postale quando consegni la domanda compilata.

Tanti stranieri sono in regola costretti ad attendere il rinnovo del permesso di soggiorno oltre i limiti di legge, a causa della lentezza del sistema burocratico. Fin’oggi sono state due milioni e 340mila le richieste di rinnovo arrivate alle poste, ma i permessi stampati dall’Istituto Poligrafico sono stati un milione e 800mila. Restano quindi in attesa del rinnovo ancora 520mila stranieri. Nonostante quanto previsto dal Testo unico sull’immigrazione – in base al quale il rinnovo del permesso deve avvenire in venti giorni – i tempi di attesa si allungano di molto: si aspettano più di sei mesi per la chiamata in questura e altri due mesi per il rilascio fisico del documento. Prima ci volevano in media 4-5 mesi ad avere il permesso di soggiorno rinnovato. Durante questi mesi resta senza permesso, solo con una ricevuta in mano, che è buona solo per restare in Italia, non si può viaggiare all'estero, tranne che per il paese d'origine (e anche quest'ultimo fatto non è regolamentato, ma dipende da direttive ministeriali). La ricevuta non si può usare per fare altri documenti che richiedono il permesso di soggiorno. Adesso in media ci vogliono oltre di dieci mesi. Spesso quando il permesso arriva, è già scaduto.

Prima della crisi, il 37,5% dei famigli di mono reddito non arrivano alla terza settimana; figuriamoci che adesso sono disoccupati, oppure sono nella cassa d’integrazione. La situazione è talmente rilevante che il 20% dei famigli è sfratato, il 17% non riesce a pagare il mutuo della casa, altri si rivolgono alla Caritas o ad alcuni associazioni, per chiedere una spessa settimanale o vistiti di seconda mano, altri si rivolgono al comune per chiedere casa d’emergenza o per un sostegno famigliare. Il problema più grave di tutto ciò è il rinnovo del permesso di soggiorno. L11% dei disoccupati ha presentato la domanda del rinnovo per motivo (in attesa di lavoro); legalmente gli concedono un permesso di otto mesi, in questo periodo devono trovare un lavoro altrimenti sono considerati clandestini. Insomma Gli immigrati regolari sono i primi a pagare gli effetti della recessione economica. Bisogna dare loro la possibilità di godere, al pari degli italiani secondo l’art. tre della costituzione, degli ammortizzatori sociali e più tempo per cercare un nuovo lavoro.

Se come tutto questo disagio non bastasse, i geni della solidarietà e dell’integrazione: (il presidente dei ministri S. Berlusconi, il ministro dell’Interno Maroni e il ministro della giustizia Alfano), invece di allungare la durata del permesso per ricerca d’occupazione, hanno presentato al Senato della Repubblica in data 3 giugno 2008; e il 05/02/09 è stato approvato. Il quale è composto di cinquantacinque articoli uno peggiore dell’altro, in somma finalmente emerge con chiarezza il carattere razzista, xenofobo e intollerante degli atti su immigrazione e immigrati presi dal ministro dell’interno Maroni e dal governo delle destre. La medicina il disagio economico e sociale degli immigrati è l’articolo trentanove, lettera r) sottopone la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari al pagamento di una tassa dell'importo di 200 euro. Ad esempio: una famiglia composta di quattro persone, l’unica persona che lavora, è il capo famiglia, ma ora sta in cassa d’integrazione e vuole fare il rinnovo del permesso, gli ci vuole ottocento euro. Ci mettiamo che prima della crisi prendeva mele euro, meno ottanta per cento sono ottocento euro, ci mettiamo nei suoi pani: che dobbiamo fare pagare l’affitto!?, o fare la spessa per la famiglia!?, o fare il rinnovo del permesso!?.

Il Prc di Jesi ( Circolo Carlo Marx); esprime ferma contrarietà all'introduzione di una tassa o contributo (poco conta, in questi casi, la denominazione e l'importo) che gli extracomunitari dovrebbero versare per chiedere o rinnovare il permesso di soggiorno; e qualora il ddl 773 diventasse legge, si appella al Capo dello Stato affinché non firmi questo ennesimo passo verso le nuove leggi razziali e dichiara sin da ora che in ogni modo attuerà forme di disobbedienza civile alla sua attuazione. Saremo al fianco di tutte le associazioni democratiche, antirazziste e di migranti per impedire questo nuovo scempio del dettato costituzionale e proporremo la realizzazione nei territori di presidi giuridici per stabilire azioni di difesa legale contro di quello che si configura a tutti gli effetti come "razzismo di Stato". 

Il responsabile Prc Jesi della politiche immigratorie

Hassan Yadini

 

 Continua l'odissea degli stranieri

Prima della crisi, il 37,5% delle famiglie mono reddito, non arrivava alla terza settimana; ora la situazione è molto peggiorata. C’è il 15% di disoccupazione, 20% di mobilità e il 47% di cassa integrazione. Nonostante gli interventi governativi, la situazione si aggrava giorno per giorno, segno che la manovra messa in atto non risolve i problemi di lavora. Inoltre Il 20% delle famiglie sono sfrattati, il 17% non riesce a pagare il mutuo della casa, molti si rivolgono alla Caritas o ad alcune associazioni, per chiedere prodotti alimentari o vestiti di seconda mano, altri si rivolgono al comune per chiedere un sostegno economico.

 

Il problema più grave di tutto ciò è il rinnovo del permesso di soggiorno. Il 21% dei disoccupati ha presentato la domanda di rinnovo per motivo in attesa di lavoro; legalmente gli concedono un permesso di otto mesi, in questo periodo devono trovare un lavoro altrimenti sono considerati secondo la legge Bossi-Fini clandestini. Questo scenario s’incrementa continuamente, e se la crisi tenderà ancora ad aumentare, avremmo la maggior parte degli stranieri irregolari; a questo punto il governo, che cosa ne farà di loro?.   

 

Se come tutto questo disagio non bastasse, i geni della solidarietà e dell’integrazione: (il presidente dei ministri S. Berlusconi, il ministro dell’Interno Maroni e il ministro della giustizia Alfano), invece di allungare la durata del permesso, hanno presentato il ddl 733 al Senato della Repubblica, in data 3 giugno 2008; e il 05/02/09 è stato approvato. Il quale è composto di cinquantacinque articoli uno peggiore dell’altro, Il migliore è l’articolo trentanove lettera r, sottopone la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso soggiorno per motivi familiari al pagamento di una tassa dell'importo di 200 euro. Ad esempio: una famiglia mono reddito, composta di quattro persone, dove il capo famiglia prima lavorava  regolarmente, ed ora sta in cassa integrazione e vuole fare il rinnovo del permesso per tutti membri della famiglia, deve sborsare ottocento euro. Mettiamo che prima della crisi prendeva mille euro, come può fare?, inoltre deve pagare l’affitto!?,  fare la spessa per la famiglia!?, fare il rinnovo del permesso!?.

 

Il Prc Circolo Carlo Marx di JESI (AN); esprime ferma condanna all'introduzione di una tassa, che gli extracomunitari dovrebbero versare per chiedere o rinnovare il permesso di soggiorno. e qualora il ddl 733 diventasse legge, un provvedimento che va contro ogni forma di integrazione in quanto incrementa la clandestinità,  fa appello al Capo dello Stato affinché non firmi. Dichiara sin da ora che in ogni modo attuerà forme di disobbedienza civile alla sua attuazione. Saremo al fianco di tutte le associazioni democratiche, antirazziste e di migranti per impedire questo nuovo scempio del dettato costituzionale e proporremo la realizzazione nei territori di presidi giuridici per stabilire azioni di difesa legale contro di quello che si configura a tutti gli effetti come "razzismo di Stato".

Il responsabile Prc Jesi della politiche immigratorie

Hassan Yadini

 

 

Darfur, allarme Onu: da maggio più di un milione sarà senza cibo
Il 4 marzo il Sudan è finito sulle prime pagine di tutti i giornali e ha aperto le edizioni dei telegionali. La breaking news era il mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) contro il Presidente Omar al-Bashir, per crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Darfur, regione occidentale sudanese grande quanto la Francia. Il Presidente del Sudan è il primo Capo di Stato in carica ad essere incriminato, dall’istituzione della Corte nel 2002. A partire da maggio di quest’anno, un milione e centomila sfollati del Darfur resteranno molto probabilmente senza cibo.

Francesca Marretta :: Liberazione 26/3/2009  continua...


«Fosforo bianco
su Gaza da Israele»
Non passa giorno senza la presentazione di un nuovo rapporto su gravi violazioni e crimini compiuti dalle forze armate israeliane durante l'offensiva «Piombo fuso» a Gaza dello scorso gennaio. Human rights watch ha diffuso i risultati della sua inchiesta sull'utilizzo da parte di Israele di munizioni al fosforo bianco durante i bombardamenti che hanno devastato la Striscia provocando oltre 1.300 morti, tra i quali centinaia di civili. «A Gaza i militari israeliani non solo hanno usato il fosforo bianco come schermo protettivo in aree aperte ma lo hanno fatto ripetutamente in aree densamente popolate...
Michele Giorgio :: il manifesto 26/3/2009  continua...

 

 

 

Metti una mattina in classe a parlare di sturpri

Monica Lanfranco


«Cosa si può fare quando chi ha potere abusa di chi non ne ha? Almeno farsi avanti, e gridare forte la verità. Farsi avanti per se stessi, farsi avanti per gli amici, farsi avanti anche se si è da soli». E' uno dei passaggi più significativi di North country - storia di Josey , film fortemente voluto dall'attrice Charlize Theron che interpreta la parte della prima donna che fece causa negli Stati Uniti per molestie sessuali alla miniera dove lavorava, creando così un precedente per l'introduzione nell'ordinamento nordamericano delle class action (le azioni di categoria) incentrate sui diritti sessuati.
I fatti sono del 1989, ma ciò che il film racconta è cronaca di oggi: il sessismo in un microcosmo lavorativo tutto maschile, i pregiudizi nei confronti di una giovane madre single, la diffidenza e la mancanza di solidarietà da parte dei colleghi, e soprattutto delle colleghe, la solitudine di chi per prima alza la voce nei confronti di abusi che non sono riconosciuti come tali.
La protagonista ha anche un figlio adolescente, avuto in seguito ad uno stupro da parte di un insegnante, quando era appena sedicenne, e come di consueto c'è chi avanza il dubbio che lei se la sia cercata. L'avvocato, che si chiede come ci si possa difendere dagli abusi, dice in modo diverso quello che la womanist femminista nera Alice Walker scrisse a proposito della condizione delle afroamericane ne "Il colore viola": «Le persone spesso cedono il loro potere pensando di non averne affatto».
E' proprio questa la sensazione che lasciano due incontri, che fanno parte di un percorso più ampio di formazione sulla differenza di genere in alcune scuole genovesi, percorso finanziato nell'ambito del progetto Rigenera: che molti giovani non sappiano il potere che hanno, che non siano stati formati ed educati alla possibilità di fare scelte e che le uniche strade per raccontarsi siano quelle più facili, violente e di superficie.
Una delle scuole del progetto è il Bergese, Istituto Professionale per i Servizi Alberghieri e Turistici, circa 700 giovani lo frequentano nella popolosa delegazione di Sestri Ponente. La scuola è attivissima, ero già stata lì per l'esame finale delle ultime classi, che nel caso dell'alberghiero è una cena completa, un'occasione speciale ed emozionante nella quale tutte le future e i futuri maturandi si cimentano in sala con l'armamentario che sarà il loro futuro lavoro: il servizio, l'abbigliamento e la postura, la cucina, l'attenzione verso i commensali. Il progetto Rigenera prevede incontri con alcune classi, e la scelta è quella di servirsi di un film da vedere insieme per entrare direttamente nel tema della violenza maschile contro le donne, per provocare reazioni e dibattito tra ragazze e ragazzi.
Così come in altre scuole, salta subito all'occhio che non ce la fanno a stare fermi e attenti per più di pochi minuti: il fatto di non separarsi mai né dal cellulare né dall'ipod, e l'essere abituati alle interruzioni in tv sembra avere indotto una mutazione antropologica rispetto alle generazioni precedenti. Molti insegnanti mi confermano che la percentuale dei disturbi dell'attenzione è altissima.
Con le quarte (sono circa una sessantina) la scintilla scocca ancora prima del film: quando cito le cifre sulla violenza e le molestie in Italia e nel mondo, un ragazzo salta su come una molla: «Va bene parlare di stupro, però le ragazze a volte esagerano. Non mi va bene che se, per esempio, io bevo un po' una sera, incontro una anche bevuta, e poi dopo succede qualcosa, al mattino lei venga fuori con la storia che l'ho stuprata». Ci siamo. Una ragazza, seguita da altre, risponde arrabbiata al compagno: il fatto di avere alzato il gomito non giustifica il saltare addosso ad una ragazza, perché un ragazzo è più forte fisicamente e può imporsi. Butto lì anche la questione dell'abbigliamento: essere provocanti e svestite è un'attenuante per il violentatore? Su questo si dividono quasi nettamente: le ragazze rivendicano il fatto di potersi vestire come vogliono (tranne una minoranza che sostiene che se ti metti troppo in vista te la vai a cercare, e si prendono un lieve applauso da parte di un gruppetto di maschi), mentre i ragazzi, tranne uno, si descrivono come "più animali" delle femmine, e quindi incapaci di trattenersi.
La deriva parte da qui, dalla convinzione che comunque esista una "naturale" predisposizione del maschio all'incontinenza istintuale: hanno solo sedici, diciassette anni e già sono certi che maschile sia sinonimo di pulsione sessuale selvaggia. Attenzione: quando passo all'ovvia conclusione, e cioè che stanno dicendo che tutti gli uomini sono potenziali violentatori, ecco che non ci stanno. Nonostante le cifre che ho fornito siano lì, scritte su un grande foglio bianco, e inchiodino gli uomini italiani in grande maggioranza su quelli stranieri (e gli uomini della cerchia familiare più di quelli sconosciuti) come autori abituali degli abusi scatta la ribellione. No, non è vero: gli stupratori sono gli altri. Rumeni, albanesi, di certo non gli italiani, non quelli "come loro" sono i veri violenti. Dopo il film, che dice con chiarezza che sulla violenza contro le donne c'è spesso una tacita connivenza della comunità, scatta in classe la difesa del territorio. Ecco le motivazioni: intanto il film è «vecchio» (la vicenda è del 1989, il film è stato girato nel 2005). Poi la violenza che racconta è esagerata, e ora non è più così, le donne lavorano dappertutto, non c'è più discriminazione. «Lo sa cosa ci vuole per rimettere le cose a posto? - dice a voce alta uno dei ragazzi più chiacchieroni, la faccia pulita e infantile - Più armi, pena di morte e castrazione, ma non quella chimica, quella fisica, magari in piazza, così, per dare l'esempio». La matassa è intricatissima: stupro, sicurezza, razzismo, violenza generale, paura, odio, impotenza si intrecciano in un mix reso ancora più micidiale dall'assenza di informazione e dall'approssimazione mediatica.
Il giorno dopo ci sono le quinte. Anche qui la prima reazione è di difesa: nel film si parla di Stati Uniti, c'è la miniera di mezzo, certo che non è un posto da donne, e comunque ora tutto è tranquillo nel mondo del lavoro. Quando accenno al fatto che oggi, in Italia, ci sono aziende che fanno firmare alle giovani donne dichiarazioni nelle quali loro si impegnano a non restare incinte pena il licenziamento, si ammutoliscono, così come cala il silenzio quando snocciolo i numeri della violenza in famiglia.
L'impressione è che, se si riesce a fare fermare quel tanto che basta la loro attenzione sulla materialità e concretezza dell'argomento, se il parlare delle relazioni tra uomini e donne passa dalla lontana teoria alla pratica dei loro rapporti, dei loro corpi, allora la musica cambia. Una ragazza con grande coraggio racconta che un fidanzato la riempiva di lividi, e che per molto tempo, dopo la rottura, lui l'ha perseguitata. La reazione dei compagni è quasi unanime: quello non era normale. Però, grattando sotto la superficie, ecco che riemerge l'adagio dell'animalità maschile: in fondo bisogna capire che i maschi sono più reattivi, e quindi uno schiaffo ci può stare, la gelosia è brutta ma è anche sintomo di attaccamento, l'amore non è bello se non è litigarello; le donne dicono spesso no con la bocca ma in fondo un po' bisogna forzarle. Hanno diciotto, vent'anni ma esprimono concetti analoghi a quelli dei loro nonni. E' un antico, raggelante ritornello: le donne sono una fortezza da espugnare, gli uomini degli arieti che a testa bassa partono e non si possono fermare.
Del resto se la loro formazione ai sentimenti e alla sessualità resta dominata dalla televisione della De Filippi e dai telefilm perché stupirsi? Almeno questa scuola sta provando a intercettarli, ma quante sono le scuole in Italia dove questo accade?

Liberazione 03/03/2009

 

Cultura sprecata

di Renato Nicolini

su Il Manifesto del 01/03/2009

Attacco all'arte intesa come interesse generale. Da Baricco a Bondi, peggio che durante il Ventennio

Qualcosa tiene insieme le dimissioni di Settis e molti altri studiosi dal Consiglio Nazionale dei Beni Culturali; le spallucce con cui il ministro Bondi ha risposto; la soppressione della Darc/Parc (architettura, paesaggio e arte contemporanea) e la nomina di Mario Resca (presidente del Casinò di Campione, da cui non si è dimesso - come Umberto Broccoli, neo sopraintendente del Comune di Roma, resta giornalista Rai) a un'indefinita Direzione generale per la valorizzazione dei beni culturali; il viaggio dei Bronzi di Riace alla Maddalena per mostrarli ai «grandi della Terra»; lo spazio con cui La Repubblica ha lanciato la proposta di Alessandro Baricco di sopprimere i finanziamenti pubblici al teatro.
Il risultato è un attacco - forse più grave che nello stesso Ventennio fascista, quando Mussolini ogni tanto correggeva i vari Ojetti e Farinacci pronunciandosi per l'«arte del proprio tempo» - alla cultura intesa come interesse generale, valori condivisi, patrimonio artistico e culturale «che appartiene alle generazioni future», dunque non da preservare da operazioni pubblicitarie di dubbio gusto. In particolare alla nuova produzione artistica: Baricco poco tollera il costoso teatro di regia, per lui la musica contemporanea non deve proprio essere più eseguita perché incomprensibile; Bondi appena arrivato al Collegio Romano ha dichiarato di non capire gli artisti contemporanei...
Il bersaglio è l'autonomia delle competenze e del sapere tecnico scientifico, che devono essere rigidamente subordinati al governo e alla managerialità (un idolo che dovrebbe generare qualche perplessità nella grande crisi). Il filo dell'autoritarismo, dell'insofferenza per critiche e dissenso, lo lega ad altre grandi manovre: contro la magistratura, o contro l'Università e la scuola, cui si tagliano potere e risorse presentandole contemporaneamente all'opinione pubblica sul banco degli imputati per tutte le colpe della politica e per tutte le ragioni del declino italiano. Questo senza troppo contrasto dell'opposizione. Esemplare la vicenda del decreto Gelmini sull'università, dove sono state ottenute - esaltandole come una vittoria contro le «baronie» - farraginose nuove norme concorsuali; mentre è dovuto intervenire Napolitano per denunciare all'opinione pubblica i rischi dei tagli feroci previsti per il 2010 al bilancio delle università, che di fatto aboliscono la possibilità stessa di nuovi concorsi...
Settis ha fatto benissimo: i beni culturali non sono una merce, non da loro direttamente ma dall'indotto che generano si può sviluppare un'economia virtuosa, che non si esaurisca nella sorpresa pubblicitaria, ma sappia entrare in sintonia in modo durevole con il bisogno di produzione d'immaginario. Che potrebbe nascere ancora dai centri storici italiani. Da Roma, Firenze, Napoli, se, anziché shopping mall a cielo aperto tornassero ad essere i luoghi del desiderio per il mondo intero ( lo aveva un po' fatto William Wyler con Vacanze romane)... Vanno sottratti al mercato ed alla politica, sono patrimonio di tutti, devono autogovernarsi attraverso organi tecnici. Questo non può avvenire senza il massimo di autonomia e di libertà, la liberazione della cultura dalle pastoie della (cattiva) managerialità e politica.
Un tempo l'Italia aveva uno straordinario sistema policentrico di Sopraintendenze, sorrette da Istituti Centrali, che esaltavano il potere del sapere. Il mondo ce l'invidiava, e l'abbiamo distrutto, riducendo alla metà i bilanci, non bandendo più concorsi per rinnovare gli organici, non adeguando le retribuzioni, subordinandolo sistematicamente a controlli burocratici, pretenziosità manageriali e politiche, umiliandolo con immotivati commissariamenti (che finora non hanno risolto, vedi Pompei, nessuno dei problemi per cui sono stati istituiti).
L'opposizione non è senza gravi responsabilità. È stato Rutelli ha sottrarre al Consiglio nazionale dei Beni culturali la nomina del proprio presidente riservandola al ministro. Sono stati Bettini e Veltroni a calcare la mano (il modello Roma) sull'uso della cultura come vetrina pubblicitaria per la politica (il tappeto rosso alla Festa del Cinema). È stato Veltroni ministro a varare in pochi giorni la trasformazione dello stato giuridico degli enti lirici in fondazioni private, svendendo così al privato potere, ma ottenendo in cambio un aumento di risorse inferiore al 10%.
La storia degli enti lirici ricorda la svendita del patrimonio pubblico attraverso la Scip... Siamo abituati al terzismo degli editorialisti del Corriere della Sera; l'affare Baricco inaugura un nuovo terzismo, sulle pagine culturali di Repubblica? Baricco rovescia Pasolini, che voleva «abolire la tv e la scuola dell'obbligo«, responsabili dell'omologazione e del «genocidio culturale». Per Baricco, che cova un lungo rancore contro il teatro dai fiaschi di Davila Roa all'Argentina e dal molto modesto successo della sua Iliade senza Dei allestita dal RomaEuropa Festival, si può lasciar fare ai privati, che oggi purtroppo avrebbero «margini di manovra minimi». Davvero? «Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione».
Di nuovo, davvero? L'idea di una convivenza civile che si sviluppa negli spazi pubblici della città, che è fatta di esperienze e scelte dirette non mediatizzate e non necessariamente educative o pedagogiche, che è frutto del diritto all'espressione di tutti i cittadini, che produce discussione, dissenso, anche polemiche e conflitto, gli è estranea. I filmclub e le cantine teatrali romane degli anni sessanta e settanta Baricco non le ha frequentate né tanto meno comprese. Dovremmo ragionare sul perché l'Italia spende per la cultura (scuola e università comprese) le briciole residuali del proprio bilancio, anziché contribuire a presentarla come «uno spreco» da tagliare.

 

 Senza intervento pubblico solo conformismo culturale 
   Stefano Tassinari :: Liberazione 3/3/2009 

 

Vi racconto cos'era la Volante Rossa

di Tonino Bucci

su Liberazione del 22/02/2009

«Ho avuto una grave condanna, in passato». La voce, tranquilla e bonaria, è quella di un anziano signore. Si conoscono per caso al telefono, lui - l'anziano signore - si chiama Paolo Finardi, mentre dall'altra parte del cavo c'è Massimo Recchioni, responsabile dell'Anpi in Repubblica Ceca. Si incontrano dopo qualche giorno - siamo nel mese di marzo 2006 - al tavolo d'un caffè di Bratislava, «all'ombra dei platani». «Così sono venuto a conoscenza della lunga e incredibile storia che vado a raccontare» e che di fatto Massimo Recchioni ha raccontato nel libro Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa , pubblicato da DeriveApprodi in uscita in questi giorni(con prefazione di Cesare Bermani, pp. 160, euro 14).

https://esserecomunisti.it/dati/ContentManager/images/Memoria%20storica/volanterossaband.jpgAndiamo con ordine. Paolo Finardi accetta d'essere intervistato dopo aver taciuto per quasi sessant'anni. E' un racconto in prima persona, senza note aggiuntive, a eccezione del saggio introduttivo di Cesare Bermani, il primo storico che ha ricostruito da sinistra la vicenda della Volante Rossa. Paolo Finardi, alias "Pastecca", comincia dalle origini, dal paese natìo, Castel Rozzone e di quando tutta la famiglia, per sfuggire alle ritorsioni dei fascisti, si trasferisce a Milano. Qui Paolo, poco più che quindicenne, manovale in una ditta di costruzioni, si avvicina alla Resistenza. Entra a far parte della 118ma Brigata Garibaldi. Porta in giro per la città messaggi nascosti nel sellino della bicicletta, fa il palo durante le azioni contro i tedeschi, fino a che non prende a partecipare in prima persona.
Il pensiero vola in particolare a Eugenio Curiel, fisico triestino, ebreo e comunista, chiamato a dirigere l'Unità clandestina e ucciso alla fine del febbraio '45 in un agguato dai repubblichini. «Ricordo che fummo tutti scioccati da quella notizia. Era davvero una brava persona e incuteva coraggio a molti di noi, soprattutto ai più giovani». All'assassinio di Eugenio Curiel, vedremo, saranno in qualche modo legate le scelte e le sorti personali di Paolo Finardi.
Dopo il 25 aprile si apre una fase di incertezza. Tra le diverse forze politiche che hanno animato la Resistenza si generano sospetti reciproci. «Non fummo i soli a non consegnare le armi. Ci arrivavano voci di gruppi di partigiani che se le erano tenute, e in molti casi si trattava di partigiani "bianchi". Se le avevano tenute, un motivo ci doveva pur essere. Ma sicuramente lo scopo per cui loro e noi ce le eravamo tenute non era lo stesso... Morale della favola, a eventuale difesa non consegnammo praticamente nulla». Sono anni di intensa attività politica delle massa, scrive Cesare Bermani nel saggio introduttivo del libro. Le disposizioni dei partiti a riconsegnare le armi furono in grandissima parte disattese. La storiografia di sinistra è stata fin troppo subalterna, scrive Bermani, sulla Volante Rossa perché ha rinunciato a ricostruire la storia sociale di quegli anni. Nel Pci «non esisteva neanche una vera e propria alternativa organizzata alla linea di Salerno, ma vi era in esso un marcato atteggiamento di preoccupazione per quanto poteva accadere in quell'Europa del dopoguerra e nel Paese. C'era allora nell'aria il pericolo di un colpo di Stato monarchico, operavano squadre armate fasciste e qualunquiste, e, anzi, tutti i partiti, in parallelo all'organizzazione politica, disponevano di una struttura militare, non solo per difendersi dai fascisti ma anche perché l'ala conservatrice della Resistenza diffidava di azionisti, comunisti e socialisti, e viceversa». Anche la Dc incamera armi, quelle dei partigiani bianchi e quelle mandate dagli americani a ridosso delle elezioni del 18 aprile 1948.
Ma non c'è quella Gladio rossa di cui gli americani parlano già a partire dal '46 e che servirà da alibi per la creazione dell'unica vera Gladio, la struttura occulta della Nato. «La posizione del Pci - scrive ancora Bermani - in materia di armi può essere così sintetizzata: se la gente per conto proprio e spontaneamente vuole accantonare le armi sono faccende sue, inclusi i rischi che corre e non sono problemi di nessuna organizzazione di massa. E i depositi di armi non debbono avere niente a che vedere direttamente con l'azione politica e il comportamento politico ufficiale né del Partito comunista né delle varie organizzazioni di massa sorte attorno a lui».
Timore di colpi di stato monarchici, gruppi neofascisti in formazione, armi americane e un forte conflitto sociale, nella fattispecie all'interno delle fabbriche del nord. Questo è lo scenario in cui agisce la Volante Rossa. Ufficialmente è un circolo ricreativo-sportivo alla Casa del popolo di Lambrate dove si organizzano gare, balli ed escursioni. «Ma era anche la sede di un gruppo - torniamo al racconto di Paolo Finardi - che vigilava su quanto stava continuando a succedere anche in tempo di pace. Nei tribunali venivano interrogati molti fascisti, ma quasi tutti venivano rilasciati e si contavano sulla punta delle dita i casi in cui erano messe sotto processo personalità di spicco del regime. Ancora meno frequentemente ci si occupava di quelli che si stavano riorganizzando. Eppure lo facevano quasi alla luce del sole e noi li conoscevamo quasi tutti: sapevamo chi erano, dove si incontravano e spesso sapevamo anche quali erano i loro progetti». La Volante Rossa intensifica le azioni nel '47 mentre stanno nascendo i gruppi fascisti delle Sam (squadre d'azione Mussolini) e delle Far (fasci di azione rivoluzionaria), prodromi dell'Msi. Nel gennaio del '49 Finardi partecipa a un doppio agguato: nei confronti di Felice Ghisalberti, responsabile dell'uccisione di Eugenio Curiel, e di Leonardo Massaza, una vecchia spia dell'Ovra, la polizia segreta fascista.
Da questo momento la vita di Finardi cambia. La polizia stringe il cerchio intorno a lui. Non resta che la fuga all'estero, oltre cortina. Il partito si fa vivo nella veste di due funzionari che gli fanno un discorso che più chiaro non si può. «Il partito non è obbligato a darti una via d'uscita, chiaro? Quindi, il partito ci pensa nonostante non abbia chiesto a voi della Volante Rossa di andare in giro a fare i giustizieri. Se qualcuno ti ha detto che c'era un livello di sicurezza non siamo stati certo noi! Il partito sa che queste cose succedono ma non le organizza affatto, anzi non ne sa proprio un cazzo, e questo dovevi averlo chiaro fin dall'inizio». L'alternativa alla fuga all'estero sarebbe il carcere. Paolo Finardi sceglie la Cecoslovacchia. Ci arriverà con un viaggio travagliato, prima attraverso le montagne verso la Svizzera, poi in Austria, infine a Praga. Qui incontrerà altri fuoriusciti per gli stessi motivi politici suoi, anche se in mezzo c'è qualcuno che ne ha approfittato per attuare vendette personali, «ma si riconoscevano subito». E' un lungo dopoguerra. Finardi frequenta scuole di partito e si mette a fare i lavori più svariati, nelle cooperative agricole come in fabbrica. Trascorre anche un periodo nella Cuba rivoluzionaria di Fidel Castro e del Che. E' testimone della Primavera di Praga. «Rivisitando gli episodi accaduti in quei mesi col senno di poi, mi resi conto che molti di quelli che vedevano in Dubcek un innovatore erano davvero comunisti. Ma allora le cose non erano affatto così chiare. C'erano presumibilmente forze reazionarie, e non solo interne, che strumentalizzavano gli eventi. Quella situazione, soprattutto se seguita da altre analoghe, minacciava di diventare una mina vagante, una spirale estremamente destabilizzante». Così le truppe del Patto di Varsavia invasero il paese. Sta di fatto però che «ci accorgemmo che lo strappo tra dirigenza e masse popolari ormai si era consumato. E avremmo capito solo dopo che proprio quello fu l'inizio della parabola discendente del sistema socialista cecoslovacco».
La fine di questo esilio arriverà solo più tardi con l'elezione del partigiano Sandro Pertini a Presidente della Repubblica. Paolo Finardi ottiene la grazia. Proprio quando in Italia la lotta armata è all'apice. E qui si affaccia un altro mito, quello del filo rosso tra l'esperienza della Volante Rossa e la nascita delle Br. E' vero che nel linguaggio delle Brigate rosse torna spesso il motivo della Resistenza interrotta o, di più, della Resistenza tradita, delle aspirazioni a una rivoluzione sociale che non arrivò mai e di cui la Volante Rossa è stata nel tempo trasformata in simbolo. Eppure alle orecchie di chi della Volante Rossa fece parte davvero l'analogia non funziona. «Dall'Italia - racconta ancora Paolo Finardi - ci arrivavano notizie a dir poco sconcertanti. Il paese si trovava immerso fino al collo in quelli che venivano definiti gli anni di piombo. Un clima irrespirabile, non da guerra di liberazione come era stato trent'anni prima. Infatti le condizioni storiche e politiche erano completamente diverse da allora. Noi eravamo nei luoghi di lavoro, lì avevamo le nostre basi, ci vivevamo, eravamo radicati nei quartieri, seduti a ogni muretto, presenti in ogni capannello, in tutte le fabbriche sorgeva il bisogno di trasformazione in senso socialista della società e del superamento delle classi. Invece, dal clima di lotte fratricide che si stavano consumando a trent'anni di distanza, la grande assente sembrava proprio essere la classe operaia». Ma neppure corrisponde a vero nel racconto di Finardi la tesi dei contatti tra brigatisti, vecchi partigiani fuoriusciti e servizi segreti cecoslovacchi. «Io vivo qui dal 1949 e ho sempre mantenuto stretti rapporti con i compagni di Praga. Se ci fosse stata la presenza di brigatisti italiani per esercitazioni paramilitari beh... credo proprio che almeno uno, dico solo uno, tra i compagni più informati e meno scemi di noi se ne sarebbe sicuramente accorto, o comunque ne sarebbe venuto a conoscenza, di persona o anche solamente per sentito dire. E invece no. Nulla del genere».
Concludiamo con le stesse parole di Paolo Finardi. «Chissà, più di una volta ho pensato che se anche l'Italia avesse provato a fare i conti col suo passato con processi veri e condanne esemplari dei colpevoli, molto probabilmente molti di noi non avrebbero fatto le scelte che hanno fatto. Per quello che riguarda me, sono sicuro che non ci sarebbe stato questo Paolo Finardi se coloro che erano preposti avessero fatto giustizia».

 

Giovani di Salò. Storie di adolescenti nella Resistenza

di Bianca Bracci Torsi

su Liberazione del 22/02/2009

Una umida mattina di fine ottobre 1943, arriva a Mestre la solita frotta di scolari provenienti dai paesi vicini: insonnoliti, infreddoliti, coi libri sotto il braccio e in tasca la merenda che l'inventiva delle mamme riesce a garantire nonostante i razionamenti alimentari del tempo di guerra, si dividono in gruppi chiassosi diretti verso le rispettive scuole. Nessuno, o quasi, fa caso a un ragazzo dell'Istituto tecnico che a metà strada svolta e sparisce, nessuno lo vede raggiungere, rapido e guardingo, il filobus che va a Treviso. Si chiama Primo De Lazzari, ha 17 anni, vive coi genitori a Marcon dove ha costituito, con amici e compagni di scuola, un gruppo impegnato in azioni di propaganda e di disturbo contro gli occupanti tedeschi e i loro alleati fascisti.

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Nonostante l'età che a quel tempo gli procurato l'appellativo "Bocia" (ragazzino, in dialetto veneto) che resterà il suo nome di battaglia, è "bruciato": nel gergo partigiano significa sospettato e sorvegliato dalle milizie repubblichine, per cui la sicurezza sua e dell'organizzazione impone un cambiamento d'aria. Primo sceglie l'aria del Battaglione Garibaldi Ferretto che opera, appunto, nel trevisano. I genitori, che lo pensano a scuola, saranno tempestivamente informati da un messaggio laconico e sommario secondo le regole della clandestinità. Lo rivedranno dopo la Liberazione. Molti anni dopo Primo De Lazzari, dirigente dell'Anpi e autore di alcuni pregevoli volumi sul fascismo e la Resistenza, dedica gran parte del suo tempo alle scuole romane dove spiega e racconta il fascismo, la guerra, l'esperienza partigiana, la Costituzione. Da questi incontri nasce l'idea di far conoscere agli scolari di oggi i loro coetanei che scelsero di combattere per la libertà, affrontando i disagi, il rischio costante della morte, il pianto delle madri, in un'età che li metteva al riparo dal richiamo alle armi della Repubblica di Salò e dai rastrellamenti tedeschi. Nasce così il libro Ragazzi della Resistenza (Teti editore, pp. 165, euro 14), arricchito da una prefazione pensata e sentita di Massimo Rendina, che De Lazzari dedica al suo più caro amico e compagno d'armi, "Dolfino", sedicenne, ferito in combattimento e finito a bastonate dai fascisti della Brigata Cavallini alla vigilia della Liberazione.
Avevano 16 anni anche Ora e Velia, cresciute insieme a Castel Tesino, che il comandante della Brigata Gramsci non riesce a rimandare a casa, fucilate, dopo atroci torture, dalle SS del capitano Hegenbart.
Più piccoli, ancora bambini di 12 e 13 anni, gli scugnizzi delle quattro giornate di Napoli che si calano nelle acque del porto per recuperare fucili e munizioni gettate dall'esercito italiano in fuga, raccolgono bombe a mano abbandonate per strada per fermare i carri armati tedeschi. Hanno 12 anni "Belpasso", rimandato indietro per tre volte dai partigiani del Battaglione garibaldino "Fronte della gioventù" di Udine, morto in seguito a ferite, "Topolino" staffetta del Battaglione Garibaldi Evangelista che riesce, con le sue chiacchiere a ingannare le sentinelle dei posti di blocco, Ugo Forno che nasconde due pistole con le quali partecipa all'ultimo scontro il giorno della liberazione di Roma e cade in combattimento al ponte ferroviario sull'Aniene e Alfredo Luna che porta sulla canna della bicicletta le armi dei gappisti di Osimo e Loreto.
Alcuni di loro venivano da famiglie antifasciste, altri avevano incontrato, a scuola o in fabbrica, compagni poco più grandi ma già militanti, c'era chi aveva raggiunto il padre, il fratello maggiore, il fidanzato partigiani e chi riuscì a nascondere la sua attività alla famiglia. In tutti, in tutte, a volte passati direttamente dalle battaglie fra bande di ragazzini alla guerra vera, c'era la baldanza dell'età, la voglia di essere considerati "grandi" dai partigiani che quasi sempre li respingevano, trattandoli da "bambini". La paura veniva dopo, quando quei bambini, quelle ragazzine avevano conosciuto la durezza della guerra di guerriglia e acquisito la consapevolezza delle proprie responsabilità verso i compagni e verso il compito che si erano assunti, ma si cresceva presto in quegli anni, si diventava adulti in fretta, condividendo con gli adulti rischi e diritti, si imparava anche a reagire alla paura come ogni combattente, di qualsiasi età. Anche con sistemi che fanno sorridere i ragazzi di allora, diventati adulti davvero, come Teresa Vergalli staffetta diciassettenne nella pianura di Reggio Emilia, che ricorda divertita di aver avuto in dono un rivoltella calibro 6, elegante quanto inefficiente, finita chissà come in un deposito di armi, così piccola da poter essere nascosta nel reggiseno dove lei la teneva col proposito di uccidersi in caso di cattura, convinta «che morire di un colpo secco non era niente in confronto di essere torturata» e di quello aveva paura.
E' una delle tante storie che il "Boccia" racconta con le parole dei documenti militari o con quelle di chi allora le visse o ne fu testimone, tante storie diverse che ricostruiscono un pezzo importante di quella "guerra dei cento fronti" che anche la presenza di ragazzi e ragazzine rese "guerre di popolo".

 

I documenti, la mozione conclusiva e le foto della Seconda Assemblea nazionale dei Sindacati di base, tenutasi Sabato 7 Febbraio a Roma,                                                    CLICCA SOTTO

 

https://nazionale.rdbcub.it/index.php?id=20&tx_ttnews[tt_news]=17752&cHash=4c99e2e87c&MP=63-552

 

 

Danno fuoco a immigrato per divertirsi orrore a Nettuno, presi tre giovani

di Anna Maria Liguori

su la Repubblica del 02/02/2009

Si erano drogati, uno è minorenne. Tafferugli tra stranieri e militanti di destra

Prima lo hanno picchiato selvaggiamente, gli hanno dipinto il volto con la vernice grigia e poi gli hanno versato addosso una bottiglia di benzina: un indiano di 35 anni, Navtej Singh Sidho che sabato notte dormiva nella stazione di Nettuno, una cittadina del litorale laziale, si è incendiato come un bonzo in pochi minuti. A dargli fuoco sono stati tre giovani, uno di 16 anni, l´altro di 19, Luca, e l´ultimo di 29, Francesco, alla fine di una notte brava, pieni di alcol e hashish. Ai carabinieri che li hanno presi nel tardo pomeriggio di ieri il più piccolo e il più grande non hanno voluto dire niente mentre Luca ha confessato: «Lo abbiamo fatto - ha detto - per provare una forte emozione. Volevamo finire la serata con qualcosa che sarebbe stato ricordato». L´indiano è ora ricoverato all´ospedale Sant´Eugenio di Roma, le sue condizioni sono gravi ma non corre immediato pericolo di vita.
Domenica mattina alle quattro il branco ha raggiunto la stazione deserta di Nettuno, avevano speso quasi tutto. Una volta dentro hanno visto l´indiano disteso sulla panchina di marmo davanti ai binari, lo hanno svegliato e gli hanno chiesto i soldi, lui ha detto di non averne e ha cercato di andare via ma loro hanno cominciato a picchiarlo e a colpirlo con una bottiglia alla testa lasciandolo a terra. Non è bastato, sono andati via e sono tornati con una bottiglia di benzina, è stato allora che gliel´hanno versata sulle gambe e hanno appiccato il fuoco. Singh Sidho si è alzato di colpo e ha cercato di spegnere le fiamme con le mani, ha fatto alcuni passi ed è arrivato fino alla sala d´aspetto mentre urlava «mi hanno aggredito!». Poi ha perso i sensi per il dolore. Lo ha visto un persona che ha telefonato al 112. I carabinieri, che distano solo cinque minuti dalla stazione, sono arrivati immediatamente. «Abbiamo spento il fuoco con delle coperte - spiega il maggiore Emanuele Gaeta, comandante della polizia di Anzio - e poi abbiamo chiamato il 118. È stato trasportato all´ospedale di Anzio ma era troppo grave e lo hanno trasferito a Roma».
Intanto a Nettuno è scoppiata la polemica sia sulla mancata sicurezza interna alla stazione sia sull´aggressione ad un extracomunitario. «Non ci sono telecamere, i cancelli sono aperti e di notte i barboni vengono a dormire qui dentro - spiega Lorena Baldi che lavora alla stazione - è una terra di nessuno e le Fs dovrebbero fare qualcosa». Il sindaco di Nettuno ha parole forti su quanto è successo: «È un gesto gravissimo sul quale esprimo la mia condanna e quella di tutta la città di Nettuno - dice Alessio Chiavetta (Pd), 30 anni, uno dei più giovani sindaci d´Italia - pensare che qualcuno sia andato alle 4 del mattino ad aggredire un immigrato, evidentemente indigente, che dormiva nella stazione, dà molto da pensare e fa rimanere sgomenti. Garantire la sicurezza di notte in un territorio vasto come il nostro non è facile. Abbiamo chiesto un aumento di organico delle forze dell´ordine e presto installeremo telecamere di controllo in vari punti della città».
I cittadini ieri hanno organizzato un sit-in davanti al municipio di Nettuno. Momenti di tensione nel corso del corteo organizzato dall´associazione Soweto e da Rifondazione Comunista: ci sono stati dei tafferugli proprio alla partenza del corteo quando un giovane appartenente a movimenti di destra ha urlato «pecoroni» contro i manifestanti e alcune persone hanno reagito malamente, a sedare gli animi ci hanno pensato agenti della polizia e i carabinieri in servizio di ordine. Tutti urlavano slogan come "siamo tutti immigrati" e alla testa del corteo uno striscione sorretto da una decina di rappresentanti della comunità indiana di Anzio e Nettuno con la scritta "Ma quale pacchetto sicurezza - Cittadinanza per tutti".

(ha collaborato Laura Serloni)

 

"Mi hanno spruzzato vernice in faccia dormivo sulla panchina, poi le fiamme"

di Paolo G. Brera

su la Repubblica del 02/02/2009

Il racconto dell´indiano: è grave ma per ora non in pericolo di vita. Sul collo le ustione più gravi

«Stavo dormendo su una panchina, qualcuno mi ha spruzzato in faccia della vernice spry. Non capivo cosa stesse succedendo. Mentre cercavo di alzarmi mi hanno spaccato una bottiglia in testa, e un ragazzo mi stava versando addosso una tanica di benzina. Poi ha dato fuoco». Navtej Singh Sidhu, indiano di 35 anni, ha ustioni di terzo grado sul 41 per cento del corpo: è gravissimo, ma riesce a parlare, a raccontare la sua notte orribile, il terrore che ancora non lo abbandona: «Il fuoco gli ha bruciato le terminazioni nervose, e coi farmaci che gli somministriamo non sente dolore», spiegano i medici del Sant´Eugenio di Roma, dove lotta per sopravvivere. È in prognosi riservata, ma per fortuna «non in immediato pericolo», e il primario è «assai cautamente ottimista» sulla possibilità di salvarlo.
«Vengo da Moga, nel Punjab. Cinque anni fa sono arrivato in Italia», ha raccontato ai medici e ai rappresentanti dell´ambasciata e della comunità indiana della capitale. «Lavoravo come muratore, a Lavinio. Ero qui da solo, senza documenti. Non ho moglie né figli, e non ho più nemmeno i genitori». In India ha solo una zia, che l´ambasciata sta cercando di contattare. «Quattro o cinque mesi fa ho perso il lavoro, e mi sono ritrovato senza più soldi per pagare un posto in cui dormire. Sono finito alla stazione Termini, a Roma. Dormivo lì, ma mi disturbavano in continuazione: venivano a svegliarci per mandarci via. Due notti fa avevo preso il treno per Nettuno. Mi sembrava un posto tranquillo, e finalmente ero riuscito a dormire un po´. Così ci sono ritornato. Ho dormito in treno, poi sono venuti a pulirlo e mi sono nascosto. Sono sceso a prendere una boccata d´aria, mi sono sdraiato su una panchina per continuare a dormire. Erano quasi le quattro».
È ancora molto spaventato, raccontano i medici che gli hanno affiancato una terapia psicologica. «Mentre cercavo di riaddormentarmi mi sono passati accanto tre ragazzi, mi hanno detto qualcosa che non ho capito e se ne sono andati. Finalmente mi sono riaddormentato, ma dopo un po´ sono tornati a darmi fuoco». Le prossime 48 ore saranno decisive, per Navtej: dovrà lottare con «le inevitabili infezioni», poi i medici cominceranno ad asportargli la pelle e la carne devastata dalle fiamme, cospargendolo con una pomata speciale di ultima generazione per preparare un successivo impianto della pelle prelevata da altre regioni del corpo.
«Avevo le gambe che bruciavano, e con la vernice in faccia non ci vedevo. Mi sono spogliato nudo, ho strappato via i pantaloni infuocati, urlando per il dolore». Anche quelle, ora, sono ustionate. «Per fortuna un signore, un passante, mi ha sentito. E ha chiesto aiuto» .

L'ALTOLA' DEL SINDACATO 

Cgil, SdL, Cobas e Cub non ci stanno e avvisano il governo: "Stia molto attento". I lavoratori dei trasporti: "La misura è colma"

 

Sacconi se ne frega della Cgil

di Sara Farolfi

su Il Manifesto del 27/02/2009

Scontro tra Epifani e il ministro del lavoro. «Il governo stia attento a non introdurre forzature», ammonisce il leader sindacale. E oggi la controriforma sul diritto di sciopero approda al consiglio dei ministri

«Il governo stia molto attento perchè in questa materia che riguarda un diritto, una libertà costituzionalmente garantita, bisogna procedere con grande attenzione. E se l'intenzione è quella di ridurre una libertà fondamentale, partendo dal problema del rispetto dei diritti degli utenti, sappia che la Cgil si opporrà, ora e dopo». Le parole di Guglielmo Epifani, segretario generale Cgil, sono state accolte ieri nell'indifferenza del ministro del lavoro. Padre del disegno di legge che oggi arriva sul tavolo del consiglio dei ministri e che, dietro la bandiera del diritto alla circolazione, vuole fare piazza pulita di quello di sciopero (partendo dai trasporti). Se la cava così, Maurizio Sacconi: «Temo che manchi la Cgil. L'unanimità del resto non è di questo mondo, appartiene al mondo del nulla, del non fare».
E infatti della rappresentatività - ossia di chi è titolato a parlare (firmare accordi o proclamare scioperi) a nome di qualcun'altro (i lavoratori) - al governo non importa nulla. Ne è un esempio la firma di un accordo sulle regole della contrattazione, senza quella dell'organizzazione maggiormente rappresentativa. E così è anche per la limitazione del diritto di sciopero - nel settore dei trasporti per ora - dove la soglia minima necessaria per la proclamazione sarebbe portata al 50%, trasformando così un diritto e una libertà individuale in un diritto a maggioranza, per cui il 49% dei lavoratori non avrebbe diritto a scioperare. Una delle ipotesi allo studio di Sacconi, ieri, era l'alternatività tra «un requisito minimo di rappresentatività degli attori proclamanti» - il 50% appunto - e il referendum preventivo tra i lavoratori: se cioè non si raggiunge la maggioranza più uno, si ricorre al referendum tra i lavoratori. Come si dovrebbe certificare questo 50%, e se ci si riferisca ai soli iscritti o a tutti i lavoratori di una certa azienda, non è chiaro.
Ad ogni modo, non si può dire non essere stata tempisticamente perfetta la relazione al parlamento svolta ieri dalla Commissione di garanzia per gli scioperi (che nel ddl dovrebbe assumere compiti e funzioni di arbitrato). Ha introdotto i dati Gianfranco Fini, cercando di rendere istituzionalmente digeribile il disegno di legge del governo: «Il diritto di sciopero non si può soffocare ma lo si deve armonizzare con l'esercizio degli altri diritti in un'opera di bilanciamento che deve tenere conto dell'evoluzione sociale». «C'è da chiedersi - si domanda Fini se lo sciopero nei diritti essenziali possa configurarsi come un diritto che qualunque soggetto collettivo, anche non adeguatamente rappresentativo, può esercitare allo stesso modo».
E si torna alla rappresentatività, senza mai dire come questa debba essere certificata. Prova a suggerirlo Antonio Martone, presidente della Commissione di garanzia, dopo essersi marcatamente sbilanciato verso la proposta del governo (che stupisce in un organismo che dovrebbe essere terzo e di garanzia appunto). Suggerisce Martone che una verifica sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali potrebbe essere affidata alla Commissione stessa. «La Commissione di garanzia è un organismo che non si presta a questo», trasecola Fabrizio Solari (Cgil), «abbiamo sempre detto che il nostro punto di riferimento erano le regole del pubblico impiego e su questo erano d'accordo anche Cisl e Uil».
Ma ieri Cisl e Uil non hanno fiatato. L'unico punto su cui del resto avevano manifestato una qualche perplessità, due giorni fa, era stata l'obbligo di adesione individuale agli scioperi. «Necessaria perchè consente di dare certezza ai cittadini con riferimento ai mezzi che circoleranno», dice Sacconi. Necessaria soprattutto alle imprese che potranno così coprire programmaticamente le 'assenze', o più comodamente provvedere alla 'dissuasione' degli interessati.
Via libera, da Cisl e Uil, anche allo sciopero virtuale (quella forma di agitazione - in cui il lavoratore resta al lavoro e l'azienda paga una sorta di penale, da contrattare volta per volta, il cui importo va in beneficienza). Una forma di protesta che nei fatti praticamente non esiste - essendo praticamente impossibile trovare un accordo su quanto debbano pesare le sanzioni sull'azienda - e che non a caso le aziende gradiscono assai.
Giorgio Cremaschi (Rete 28 Aprile) non usa mezzi termini: «La legge anti sciopero è autentico fascismo». L'impressione che si stia scivolando verso un accordo politico, sulla scia di quello del 22 gennaio, cresce comunque trasversalmente a corso d'Italia. Insieme a quella che i trasporti non siano che l'apripista di una riforma che si vorrebbe almeno «per i servizi pubblici essenziali» e di qui, come ha già chiesto Confindustria, valida per tutti. «L'impressione è che si voglia fare un po' per volta», dice Fabrizio Solari (Cgil). Il ddl oggi all'esame dei ministri vieta anche tutte le forme di protesta, non solo per i trasporti, che possano ledere la libertà di circolazione (manifestazioni in strade, autostrade, porti e via dicendo). Calca la mano il ministro Brunetta: «Lo sciopero è un diritto tutelato dalla Costituzione ma anche la mobilità, la vita, il lavoro sono valori tutelati dalla Costituzione. Senza la Cgil? «Ce ne faremo una ragione».

 

«Il governo attacca la democrazia e salva le corporazioni»

di Francesco Piccioni

su Il Manifesto del 27/02/2009

La risposta di Cobas, SdL e Cub

Grazie alla formula «limitativa» scelta dal governo («nei servizi pubblici essenziali») il provvedimento antisciopero che oggi prenderà in esame il consiglio dei ministri ha un primo nemico chiaramente indicato: il sindacalismo di base. Ex quadri Cgil delusi da politiche «concertative» che facilitavano spesso il sistema clientelare, ex «nuova sinistra», lavoratori di un po' tutti i tipi. Negli anni hanno fatto la storia delle vertenze in Alitalia, Ferrovie dello stato, nella scuola, in molti comparti del pubblico impiego e della sanità; ma anche in Telecom o all'Enel, in Atesia.
Insieme a questa componente politicamente chiara, sono esistite anche forme di microsindacalismo corporativo, spesso fatto di poche decine di iscritti, abilissimo nell'annunciare scioperi che non avrebbe poi mai fatto per meglio contrattare sottobanco privilegi e sinecure da «casta». Questi rimarranno vivi, naturalmente. Magari all'interno di quel più grande contenitore corporativo che è l'attuale Cisl di Bonanni.
Il sindacalismo di base ha reagito ieri dimostrando di aver ben chiara la portata politica di questo provvedimento, che fa da apripista ad analoghi diktat sul settore privato (mettendo al muro anche la Cgil), con l'intento di metter fine a un diritto costituzionale (il diritto di sciopero, secondo la Carta, è individuale e non delegabile ad alcuna organizzazione, di qualunque entità). In una nota inviata alla stampa Cobas, Sdl e Cub lo definiscono «un attacco alla democrazia». La ragione è semplice: c'è la crisi, diventerà più pesante e questo esecutivo si prepara a governarla nell'unico modo che conosce, quello «militare». «Dietro un linguaggio formalmente tecnicistico - dicono i tre sindacati - il governo predispone la legislazione per gestire la fase attuale e futura di grave crisi economica e le conseguenti risposte dei lavoratori al tentativo di farne pagare a loro il costo». Non è un'illazione malevola, nel testo ci sono «norme che dovrebbero impedire di bloccare strade, aeroporti e ferrovie, forme di lotta utilizzate da tutti i lavoratori in casi particolarmente drammatici». Del resto, il combinato disposto di

COMUNICATO PRC JESI SULLA RICONVERSIONE SADAM 18/12

 

ll PRC di Jesi giudica positivo l'esito della votazione in consiglio comunale di sabato 13 dicembre  sull’ atto di indirizzo per la  riconversione dello stabilimento SADAM.Un documento che, anche grazie al fondamentale contributo del PRC, riesce a coniugare organicamente la questione ambientale ed occupazionale, gettando le basi per un percorso attento e ancor più partecipato che porti la città tutta ad una soluzione definitiva e consapevole.

Ambiente e occupazione sono e saranno i nostri unici interessi, nessun profitto particolare e nessuna alchimia politica possono avere la precedenza rispetto alla salute dei cittadini e del loro posto di lavoro.

Anche per questo siamo amareggiati per l'atteggiamento ostruzionistico e vago dell'opposizione che ancora una volta ha preferito la sterile schermaglia politica all'interesse collettivo, non riuscendo a giustificare in modo chiaro i motivi del proprio voto contrario. Invitiamo vivamente il sindacato di categoria ad un'attenta riflessione.Rifondazione Comunista ritiene che le battaglie per la tutela del lavoro, in tutte le sue forme, non siano separate e separabili da quelle per la tutela dell’ambiente, della salute e della qualità della vita: esse sono strettamente legate e tra loro dipendenti e si vincono soltanto informando la città e  coinvolgendo, senza strumentalizzazioni, tutti i cittadini.In questa direzione chiediamo l’impegno dell’amministrazione comunale e delle forze politiche della maggioranza, su questo  lavoreremo nei prossimi memesi.                                                 

 

Prc Jesi Circolo Karl Marx

Jesi, 18 dicembre 2008

 

  

Intervista ad Achille Bucci (PRC)  dopo il voto sulla riconversione Sadam

 Da www.jesiattiva.org 

Achille Bucci (PRC)

1) Rifondazione Comunista ha espresso pubblicamente, in più occasioni, un parere sostanzialmente negativo riguardo al piano di riconversione presentato dalla Sadam.Al C.C. del 13/12 lei ha votato a favore del documento proposto dalla maggioranza: quali sono gli elementi, contenuti nell’atto approvato, che vi hanno determinato in questo senso? 

A nostro giudizio il documento finale è buono e difende gli interessi della città, ovvero il lavoro e la salute.
Questo è stato possibile nonostante il comportamento della SADAM, la quale si è sempre rifiutata di dialogare seriamente con il Consiglio Comunale.
In questa vicenda, purtroppo, si sono formati due blocchi contrapposti: da una parte chi difende la salute e dall’altra chi difende il livello occupazionale.
Il documento approvato, invece, partendo da alcuni punti fermi, riesce a coniugare entrambi gli aspetti.
Nell’area SADAM, intanto, non potrà svilupparsi un “polo energetico”: la produzione di energia si ferma a quanto è previsto dal documento, non potrà aumentare ulteriormente.
Se lo stabilimento, in futuro, deciderà di crescere dovrà farlo in altri settori, non in quello energetico.
Si stabilisce, poi, che la centrale elettrica ad olio di palma nasce esclusivamente a servizio dell’impianto per il biodisel e la sua potenza massima sarà 5MW.
Il documento non solo prevede la conservazione di 143 posti di lavoro, ma impegna il Sindaco affinché richieda all’azienda di incrementare l’occupazione nell’arco di 5 anni, privilegiando l’assunzione di ex-lavoratori precari e stagionali.
Infine, sono previste garanzie e sicurezze sul controllo ambientale, sanitario, finanziario ed occupazionale.

 

2) Sia lei che il consigliere Fancello avete affermato, nei vostri interventi in C.C., che il raggiungimento di un documento unitario della maggioranza è stato il frutto di un lavoro di condivisione complesso e difficile: per quale motivo? C’erano sensibilità differenti? 

Rispetto al progetto di riconversione, c’era chi aveva detto subito sì e chi aveva detto subito no: il documento è stato un punto di mediazione.
Questa mediazione è stata difficile anche perché, in precedenza, erano stati dati troppi aut aut al Consiglio Comunale.
Mi riferisco all’intransigenza della SADAM nei confronti dell’assemblea cittadina, che è stato sicuramente un elemento negativo.
L’azienda ha sempre voluto mostrare i muscoli, ma, alla fine, questo comportamento non paga.
Il Consiglio Comunale ha comunque deciso con ponderazione ed equilibrio e fortunatamente non hanno vinto coloro che hanno creato blocchi contrapposti, da una parte e dall’altra.
Rifondazione Comunista è notoriamente sensibile al tema del lavoro, che però va coniugato anche con l’attenzione per l’ambiente e per la salute pubblica: il documento raccoglie queste istanze e, di conseguenza, la nostra posizione, evitando di contrapporre tra loro questi interessi.
A questo proposito, vorrei sottolineare che non mi sono piaciuti affatto alcuni atteggiamenti che si sono manifestati rumorosamente e con platealità durante la seduta del Consiglio Comunale.
 Scenate di quel tipo   rinforzano, a mio avviso, la sola Eridania Sadam.
Chi continua ad accettare e, di conseguenza, a rinforzare il ricatto occupazionale, senza denunciarlo e senza  rifiutarlo con decisione, chi cerca di far passare l’idea che in questa vicenda la controparte non è la Eridania-Sadam ma  il Consiglio comunale, non fa  l’interesse della città e degli jesini né, tantomeno, quello dei lavoratori.  

 

3) Se Eridania-Sadam non dovesse accettare alcune delle condizioni imposte dal C.C., cosa potrebbe accadere? Quale sarebbe la vostra posizione? 


Il Consiglio Comunale non ha dato un mandato in bianco al Sindaco, bensì ha posto dei paletti precisi: se non venissero rispettati, la questione tornerà in Consiglio.

4) Nel caso in cui, invece, l’azienda accettasse tali condizioni, il documento approvato in Consiglio potrebbe essere considerato una delega automatica per la firma del Sindaco, oppure sarebbero comunque necessari ulteriori passaggi? 


Se SADAM dovesse accettare, noi chiederemo al Sindaco di rendere partecipe il Consiglio di tutte le fasi successive, passo dopo passo.
Il mandato, tra l’altro, non è irrevocabile: il Consiglio può azzerare tutto, oppure può valutare eventuali nuove proposte dell’azienda per ciò che riguarda l’occupazione o un nuovo tipo di attività.
Attualmente l’area SADAM è industriale, ma l’Amministrazione Comunale può sempre rifletterci su e valutare la possibilità di una destinazione differente.
Noi chiederemo, comunque, che l’Amministrazione favorisca maggiormente la partecipazione e l’informazione dei cittadini, anche organizzando iniziative di confronto pubblico che, senza strumentalizzazioni verso  una o l’altra posizione, consentano alla gente di capire veramente di cosa si sta parlando, di capire quali siano gli eventuali rischi, i costi e i benefici previsti per il nostro territorio.

 

COMUNICATO STAMPA RICONVERSIONE SADAM 31/01/09

Le segreterie Jesine dei partiti della Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani si sono incontrate per approfondire e  discutere gli sviluppi della riconversione dell'ex zuccherificio.

Dalle notizie apparse sulla stampa continua a destare preoccupazione l'atteggiamento di chiusura dell'Eridania Sadam e la mancata presentazione da parte della stessa di un qualsiasi ulteriore documento tecnico e progettuale, nonostante sia ormai passato più di un mese dall'approvazione dell'atto di indirizzo del Consiglio Comunale di Jesi.

Il Partito della Rifondazione Comunista ed il Partito dei Comunisti Italiani ribadiscono la loro piena adesione al documento del Consiglio Comunale e in tal senso ritengono necessario:

  -         che la Sadam Eridania presenti immediatamente una proposta tecnica ed economica che raccolga puntualmente ed esattamente quanto indicato dall'atto di indirizzo consiliare e consenta di valutare nel dettaglio gli effetti di quanto proposto;

-         che la proposta elaborata dalla Sadam rispetti espressamente i limiti ed i divieti posti dal Consiglio Comunale alla produzione energetica non legata al fabbisogno dei nuovi impianti e delle nuove attività previste dalla riconversione;

-         che il Sindaco condivida l'intero percorso della riconversione con i due Assessori competenti (Sviluppo Economico ed Ambiente) ed informi regolarmente e tempestivamente il Consiglio Comunale, la Città ed i soggetti sociali interessati al problema, attivando quei percorsi di reale partecipazione che, pur previsti dagli atti consiliari, non sono stati  ad oggi  messi in atto;

-         che il Sindaco riconvochi la Commissione tecnica per la valutazione di qualsiasi nuova proposta della Sadam Eridania, integrando la commissione stessa con le competenze venute a mancare a seguito del diniego dell'ARPAM ;

-         che negli incontri tra le varie parti siano invitati anche i portatori di interessi diffusi ed i rappresentanti delle associazione di categoria, a cominciare da quella degli agricoltori e al fine di privilegiare la “filiera corta” ed evitare ulteriormente qualsiasi possibile ripercussione negativa sulle produzioni agricole locali;

-         che l'Amministrazione Comunale controlli diligentemente e direttamente il processo di bonifica del sito (impianti, suolo e sottosuolo, ecc.), informando nel merito il Consiglio Comunale e la Città e richiedendo le più ampie garanzie per un effettiva salubrità dell'area.

 

Jesi 31/1/09

Partito della Rifondazione Comunista

Partito dei Comunisti Itialiani

Blog

Migranti: Danno più di quanto ricevono

di Manuela Cartosio

su Il Manifesto del 20/01/2009

Presentato il Rapporto Ismu 2008. Molti dati e qualche perplessità. Nel 2030 gli stranieri saranno 8 milioni. «Aperti, ma con giudizio»

Danno più di quanto ricevono, ci servono, però è il momento di mettere in discussione l'assioma dell'immigrazione come convenienza. È il succo del XIV Rapporto sulle migrazioni redatto dall'Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) della Fondazione Cariplo. L'edizione 2008 è come sempre ricca di dati. Qui ci concentriamo soprattutto su quelli inerenti il lavoro e i costi per la finanza pubblica.
Per valutare l'effetto dell'immigrazione sulla finanza pubblica il rapporto ha calcolato il beneficio fiscale netto (la differenza tra quanto si riceve dal sistema pubblico e quanto si versa) dei migranti e ha stimato il loro accesso al welfare. Poi li ha confrontati con dati corrispondenti per gli italiani. Il beneficio fiscale medio annuo di questi ultimi (2.800 euro) è il triplo di quello degli immigrati. Gli italiani versano all'erario il 54% di imposte in più rispetto agli immigrati (guadagnano e possiedono di più), ma hanno un "ritorno" triplo. Dall'indagine non risulta un maggior ricorso al welfare da parte degli immigrati. Tra loro, mediamente più giovani degli autoctoni, i pensionati sono l'8,4% (contro il 32,7% degli italiani). Gli stranieri accedono in percentuale leggermente inferiore degli italiani ad assegni familiari, cassa integrazione, indennità di disoccupazione, borse di studio.
Per il primo trimestre del 2008 l'Istat ha censito 2,3 milioni potenziali lavoratori stranieri. Un dato sottostimato, secondo l'Ismu che sottolinea i quasi 3 milioni di stranieri assicurati all'Inail nel 2007 (ma molti con contratto a tempo potrebbero essere stati conteggiati più volte). I migranti che effettivamente lavorano sono 1 milione 519 mila. Di questi, 586 mila sono donne. L'86% ha un contratto a tempo indeterminato. L'80% lavora a tempo pieno, ma metà delle donne è a part time. In calo le assunzioni non stagionali. In calo anche le assunzioni di immigrati programmate dalle aziende: il 20% del totale nel 2008, a fronte del 27% dell'anno precedente. I dati sulla disoccupazione, anteriori alla scoppio della crisi economica, vanno presi con beneficio d'inventario. Gli stranieri disoccupati erano 159 mila, di cui 96 mila donne (il tasso della disoccupazione femminile - 14% - è doppio rispetto a quello maschile e aumenta nel Mezzogiorno, in linea con i dati totali nazionali). La maggior parte degli immigrati (870 mila, per due terzi donne) lavora nei servizi. 350 mila sono occupati nell'industria, 254 mila nell'edilizia, 50 mila nell'agricoltura.
Perché le aziende italiane assumono gli immigrati? E' proprio vero che lo fanno perché non trovano italiani disponibili? Laura Zanfrini, docente alla Cattolica, ha parecchi dubbi in proposito. «La propensione a ricorrere a personale immigrato non si spiega con le difficoltà di reperimento incontrate dalle imprese. Si spiega semmai con la ricerca di una manodopera a buon mercato e con la propensione a riprodurre le tendenze all'etnicizzazione che hanno investito taluni mestieri e settori». Detto altrimenti: se le imprese pagassero di più, gli italiani disposti a fare quai lavori si troverebbero. Il ragionamento (se si escludono le badanti e i raccoglitori di pomodori) non è infondato. Ma va maneggiato con cautela: rischia di finisce diritto nella geremiade contro gli immigrati che «rubano» il lavoro agli italiani.
Dei 4 milioni e 300mila immigrati presenti in Italia, 650 mila - stima l'Ismu - sono irregolari. Nel 2030 saranno il doppio (proiezione Istat). Oggi ci sono 6 stranieri ogni 100 italiani, tra vent'anni ce ne saranno quasi 15. Ma l'apporto straniero non sarà sufficiente ad annullare la caduta della natalità e a impedire la crescita dell'indice di dipendenza degli anziani (il carico pensionistico e sanitario sul Pil). Quest'ultimo, senza stranieri, aumenterebbe del 54%. Con 8 milioni di immigrati, crescerebbe comunque del 43%. Questo futuro dietro l'angolo fa dire all'Ismu che è necessario smetterla con il «domandismo» (delle aziende e delle famiglie con il nonno da assistere) e con la logica della convenienza a breve raggio. «Gli immigrati non vanno valutati esclusivamente come risorsa per mandare avanti la produzione o per supplire alla bassa riproduttività degli italiani». Parole sante. Ma poi si aggiunge: « E' necessario che il ritmo dei nuovi ingressi vada di pari passo con le capacità della società ospite... Altrimenti, il fenomeno potrebbe accrescersi a ritmi patologici col rischio di generare più problemi di quanti sia in grado di risolvere». Di nuovo, il linguaggio è soft ma la ricetta non è molto diversa da quella leghista (o di un Pd eventualmente al governo). Ma non sarà Maroni a fermare i migranti. E neppure, senza offesa, l'Ismu.

 

Una legge anti-emissioni, e la Puglia «limita» l'Ilva

di Ornella Bellucci

su Il Manifesto del 18/12/2008

La Regione guidata da Rifondazione approva una normativa storica in materia ambientale e di sicurezza sul lavoro. Abbassati radicalmente i limiti di diossina e di altre sostanze tossiche che le aziende possono emettere. Così si rispettano i parametri Ue e si tutela la salute delle persone. Particolare soddisfazione a Taranto, la città più inquinata d'Italia. È la prima proposta del genere in Italia. L'azienda protesta

«La nostra legge vuole dare speranza alla Puglia e parlare all'Italia e all'Europa. La difesa dell'ambiente è una responsabilità politica». Così Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, dopo che il consiglio regionale ha approvato il ddl che fissa i limiti per le emissioni di diossina e furani da parte dell'industria. È stato due giorni fa. In aula c'erano molti tarantini, dipendenti Ilva e non, esponenti di associazioni ambientaliste, confluite nella rete Altamarea, e sindacati. La legge è passata a maggioranza allargata, con il voto favorevole di tre consiglieri di opposizione (uno dell'Udc e due di Forza Italia) e 5 astensioni (due di FI, una di An, una di "La Puglia prima di tutto" e una del Gruppo misto). L'obiettivo è audace e la strada intrapresa dalla Regione per tutelare la sicurezza del territorio e di chi lo abita, in particolare l'agro di Taranto, martoriato dalle emissioni industriali, si fonda su evidenze scientifiche. Quelle che dall'era Vendola in poi l'Arpa, agenzia regionale per l'ambiente, raccoglie e denuncia, inascoltata, al governo centrale. Le stime attestano che la diossina prodotta dall'Ilva a Taranto in un anno e in condizioni routinarie, è pari a 171 grammi - dato rilevato nel 2008 sul camino E312 dello stabilimento -, che moltiplicati per 45 anni di attività del siderurgico, danno oltre 7,7 chili di diossina: tre volte Seveso. E sono complementari a quelle contenute nel registro Ines, secondo cui a Taranto si produce il 92% della diossina italiana. Dei paesi europei, in cui il limite di emissioni per metro cubo è fissato in 0,4 nanogrammi in tossicità equivalente, l'Italia è l'unico ad avere una legge che fissa il tetto a 10mila nanogrammi a metro cubo in concentrazione totale: il più alto. Di più. L'Ines stima anche che la fonte principale di diossina a Taranto è l'Ilva.
L'obiettivo della legge Vendola è dimezzare le emissioni entro il primo aprile del 2009, per scendere entro il 31 dicembre 2010 al limite europeo. Verranno calcolate soltanto le diossine dannose per l'uomo, come prevede la legge italiana. Recependo il decreto di Aarhus (approvato nel 2004 dal Consiglio europeo, e divenuto legge in Italia nel 2006 ma mai applicato), la legge dispone che «tutti gli impianti di nuova realizzazione non dovranno superare i 0,4 nanogrammi di emissione». Diverso il discorso per gli impianti già esistenti, come l'Ilva di Taranto. Le emissioni di diossina prodotte dallo stabilimento a febbraio 2008, dati Arpa, oscillavano tra i 4,4 agli 8,1 nanogrammi, ma a giugno, dopo l'impiego di tecnologie Urea (che esercitano una forte funzione inibitrice) si sono ridotte anche a 0,9. Dal primo aprile del 2009 non dovranno superare i 2,5 e dal 31 dicembre del 2010 dovranno rispettare il limite europeo. Entro 90 giorni dall'entrata in vigore della legge, i gestori degli impianti dovranno elaborare, a loro spese, un piano per il campionamento continuo dei gas di scarico e presentarlo all'Arpa per la validazione e il successivo controllo. Sarà infatti l'Arpa a valutare l'effettiva attuazione dei piani e la loro efficacia, e, in caso di superamento dei limiti, a informare l'assessorato all'Ecologia che diffiderà il gestore dell'impianto dal rientrare dal superamento entro 60 giorni. Se non accadrà, la fabbrica dovrà chiudere: le modalità di riattivazione saranno definite in un'apposita Conferenza dei servizi dopo l'individuazione e la rimozione delle cause che hanno determinato il superamento dei valori limite.
Il 15 luglio scorso, in una relazione al ministero dell'ambiente, l'Arpa Puglia, sulla base di esiti di varie rilevazioni, segnalava a Taranto «una situazione fortemente degradata dal punto di vista ambientale e sanitario», ma il ministero aveva ritenuto quelle rilevazioni «non valide ai fini dell'individuazione di limiti più restrittivi», perché effettuate con metodi non previsti dalla normativa. Dello stesso avviso l'azienda che nel cronoprogramma presentato al ministero in vista dell'Autorizzazione integrata ambientale (Aia) aveva indicato parametri tre volte superiori a quelli chiesti dalla Regione. Ora, dopo l'approvazione della legge, in una nota dichiara che i limiti alle emissioni di diossine indicati «sono tecnicamente irraggiungibili nei tempi stabiliti dalla stessa legge».
«Un provvedimento storico», commenta Roberto Dinapoli, di Altamarea. «Si comincia a ragionare in termini concreti del nostro futuro. Questa legge impedirà alla grande industria di continuare a procastinare l'adozione delle migliori tecnologie disponibili». Lunetta Franco, di Legambiente Taranto, aggiunge: «È una legge importante non solo dal punto di vista pratico, ma anche simbolico, perché spiana la strada ad altri provvedimenti di questa natura». Per Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, «la legge antidiossina è un esempio di civiltà che a Taranto gode del sostegno di tutta la popolazione. Supplisce allo Stato centrale che finora si è inginocchiato davanti ai poteri forti». Fabrizio, operaio dell'Ilva dice: «La fabbrica però non può essere chiusa. Non puoi mandare a casa dodicimila persone più l'indotto. Bisognerebbe renderla meno inquinante, gli strumenti ci sono, solo che Riva dovrebbe spendere più di soldi. Non bisogna cedere al ricatto occupazionale. È strano che mentre si pone il problema dell'inquinamento l'azienda annunci la cassa integrazione. Oggi i sindacati sono stati convocati per altri 2200 provvedimenti».
«La legge rappresenta una pietra miliare per la Puglia», commenta Antonio Buccoliero, consigliere regionale Udeur. «Traccia un nuovo percorso culturale, da oggi le problematiche ambientali non sono più scisse da quelle occupazionali». Dello stesso tenore le dichiarazioni di Mino Borracino, capogruppo dei Comunisti italiani: «Non è una legge anti-industriale, ma si muove nel solco già tracciato dall'Unione europea». Con questa legge, aggiunge Arcangelo Sannicandro, capogruppo del Prc, «diamo una risposta ferma e celere alla domanda di sicurezza proveniente dalla popolazione tarantina e non solo».

 

Diossina, abbattuti migliaia di capi allo stremo gli allevatori del Tarantino

 

 

Mattanza per l'inquinamento dell'Ilva, viaggio nella masseria della famiglia Fornaro: 504 tra pecore e capre finite al mattatoio

Angela Mauro


Taranto
Lo stile è quello dell'800. Mura di cinta, cancello, corte interna tenuta a guardia da una decina di cani. All'esterno, ulivi, in tutto 35 ettari. Tipico paesaggio pugliese. Ma basta girare un po' lo sguardo che l'idillio svanisce. Dalla corte interna, è sufficiente mettersi di fronte all'arco che sovrasta il cancello d'ingresso, sguardo in su: fumo. E' il camino numero 312 a riportarci alla dura realtà della famiglia Fornaro, allevatori da generazioni, ma da sempre "perseguitati" dall'Ilva di Taranto, il colosso dell'acciaio più grande e più inquinante d'Europa.
Siamo a due passi dal quartiere Paolo VI di Taranto e a circa un chilometro e mezzo dal gigante siderurgico dei Riva. Il camino 312 diffonde emissioni nocive "a ombrello". Sì, è la «definizione tecnica per dirti che la diossina dei fumi industriali non ricade proprio sotto la ciminiera, ma sui terreni circostanti e anche più in là, a seconda del vento…», ti spiega Vincenzo Fornaro, uno dei lavoratori dell'azienda di famiglia che negli ultimi tempi si sono improvvisati veri e propri attivisti dei diritti dell'ambiente, dei cittadini, della loro professione. Perché l'ultima sciagura proprio non ci voleva: tutto il bestiame dei Fornaro - 504 capi tra capre e pecore - è finito al mattatoio. Abbattuto perché risultato positivo ai controlli anti-diossina effettuati dall'Arpa (Agenzia regionale per la Protezione Ambientale). Quella che in un video disponibile su you.tube è definita come "Un'inutile e tragica mattanza" si è consumata il 10 e 11 dicembre scorsi. Oltre al bestiame dei Fornaro, sono stati abbattuti altri 700 capi circa, individuati dalla procura di Taranto sulla base dei test dell'Arpa sul latte e il grasso degli animali. E' la prima volta che accade. E adesso i Fornaro e le altre due aziende più colpite (quella dei Quaranta, 330 capi abbattuti, e quella degli Sperti, 130 capi) non sanno che pesci prendere.
C'è anche questo risvolto nella lunga e intricata vicenda Ilva. Non solo morti sul lavoro (con tassi tra i più elevati d'Italia), non solo danni alla salute di operai e cittadini, non solo inquinamento generico dell'aria. Gli allevatori colpiti dall'ordinanza della procura sono le prime vittime materiali di una mentalità figlia del ricatto occupazionale che accompagna l'Ilva sin da quando era proprietà pubblica con il nome di Italsider: della serie, ci dà il pane in un sud malato di disoccupazione, l'ambiente passa in secondo piano. Una mentalità che negli ultimi due anni sta cominciando a sgretolarsi sotto i colpi di un neonato attivismo sociale in città, ma la battaglia sembrerebbe ancora lunga.
Ragionando in uno dei locali della masseria, dove sono ancora conservati gli striscioni del giorno della mattanza ("Vergogna! Punite le vittime e salvate i carnefici!"), i Fornaro sorridono per quello che il patron dell'Ilva, Emilio Riva, ha avuto il coraggio di dire ai giornalisti che lo hanno avvicinato domenica scorsa, in occasione della messa celebrata dall'arcivescovo di Taranto nello stabilimento siderurgico e mandata in onda su Raiuno. «Gli hanno chiesto dell'inquinamento… Ha detto che meglio di così non può andare perché la fabbrica sta per chiudere… Si permette anche di fare dell'ironia…», dice Emanuele De Gasperis, cognato dei Fornaro, anche lui impiegato nella masseria. Riva fa dell'ironia sulla nuova legge regionale, approvata dall'amministrazione Vendola prima di Natale. E' la legge che obbliga l'Ilva a rispettare i parametri europei sulle emissioni di diossina (fino a 0,4 nanogrammi entro la fine del 2010), una legge inedita in Italia (la normativa nazionale permette emissioni fino a 10mila nanogrammi), malvista dal governo Berlusconi ma salutata con favore dall'opposizione di centrodestra in Puglia. «Ovvio - osserva Vincenzo Fornaro - Quest'autunno 25mila persone hanno manifestato a Taranto contro l'inquinamento, l'anno scorso erano poche migliaia. Tutti i politici locali si sono resi conto che il ricatto occupazionale non basta più: la gente muore per le emissioni nocive dell'industria, a noi l'inquinamento ci ha smantellato un'intera attività…».
Sul governo i Fornaro sono stati più che chiari in una lettera inviata poco prima di Natale al ministro Raffaele Fitto, ex governatore della Puglia. «Vediamo un governo che prima contesta la realtà del problema ambientale relativizzando i dati raccolti dall'Arpa, poi si eclissa completamente, ed oggi, usando il pretesto della crisi economica permette di porre in secondo piano la vita, la salute, il futuro e paradossalmente il lavoro, proprio quel lavoro che ci si vanta di preservare», scrivono. La legge regionale invece «è un buon inizio - continua Vincenzo - sono cinque anni che con i Riva si va avanti con gli atti d'intesa e nulla è stato risolto».
Nei discorsi dei Fornaro il nome di Riva emerge quasi spontaneamente, constatazione di un dato di fatto innegabile e documentato, cioè che l'Ilva è il maggior responsabile dell'inquinamento in città, più della raffineria e del cementificio presenti nell'area industriale tarantina. Ma al momento la denuncia presentata in procura con gli altri due allevatori colpiti (Quaranta e Sperti) è contro ignoti. «Attendiamo l'esito delle perizie della procura, arriverà a metà gennaio, per dare un volto al colpevole: sarà il nostro regalo di Capodanno, dopo la mattanza che abbiamo trovato sotto l'albero a Natale…», dice Vincenzo. Suo fratello Vittorio si sofferma sul magro risarcimento predisposto dalla Regione. «160mila euro per tutti e sette gli allevatori colpiti". Pochi se si pensa che quei soldi dovranno coprire le spese di «trasporto al mattatoio, abbattimento, eliminazione delle carcasse classificate in "categoria 1", rifiuti nocivi e dunque più costosi da smaltire…». Se la ridono, amaramente, pensando ad un altro paradosso della loro storia: le olive. «Ci abbattono il bestiame, ma ci permettono di produrre l'olio perché secondo la legge italiana i nostri terreni non sono stracarichi di diossina, solo un piccolo appezzamento è risultato positivo ai controlli. Pensare che per il vincolo sanitario e il divieto di pascolo disposto dall'Arpa ad aprile, eravamo costretti ad alimentare i nostri animali con metodi industriali in stalla. Risultato: circa 90 capi sono morti negli ultimi mesi. Naturale: si tratta di una razza abituata al pascolo…».
Eredi di un'attività ultracentenaria (il nonno di Vincenzo e Vittorio aveva una masseria che fu espropriata dallo Stato quando decise di costruire l'Italsider a Taranto, negli anni '50), i Fornaro avevano altri progetti per la loro fattoria. «Stavamo pensando ad un caseificio, ad una cooperativa sociale di tipo B, un Bed&breakfast». Sogni da riporre nel cassetto. Con un dubbio: «Ben vengano i controlli, ma forse aveva fatto bene l'associazione locale "Codici" a proporre di non abbattere i capi risultati positivi alla diossina, ma di farne materiale di studio sull'inquinamento. Noi stessi avevamo proposto di abbattere solo i capi più anziani, cioè quelli più esposti alla diossina». Nulla da fare. Adesso, in attesa del verdetto della procura, ai Fornaro restano i cavalli. Proprio così, oltre alle olive, s'intende. Ne hanno alcuni all'ippodromo, gareggiano alle corse. Ma anche questa non è storia facile. Grassa risata: «Veniamo da un mese di sciopero degli operatori ippici…». Quello di quest'autunno contro i tagli annunciati dal governo per il settore. Storia rientrata, le corse sono riprese. Almeno questa è fatta.
 

Liberazione 02/01/2009

 

Le donne “fannullone” di Brunetta

di Dafne Iriti

su valorizzareilsaperfare.it del 23/12/2008

Una decina di giorni fa, il Ministro Brunetta, ha avuto l’ennesima splendida idea: dare alle donne l’opportunità di temprare e forgiare la loro forza fisica e di carattere fino a 65 anni, anziché fino a 60 mantenendosi così giovani ed in forma, avrà pensato.
Forse, però, il Ministro non sa che sottostare alla quotidiana stressante fatica di una vita da passare incastonando, nel vorace trascorrere delle giornate, il tempo da dedicare ad un lavoro fuori casa ed una famiglia, non ringiovanisce affatto. Probabilmente ignora che l’impiego in un lavoro fuori casa, nella maggior parte dei casi logorante, ripetitivo, per nulla gratificante, un lavoro che serve a guadagnare uno stipendio sovente insufficiente ed inadeguato, un lavoro in cui si è ricattate, magari molestate, sfruttate, un lavoro in cui gli orari e i ritmi dettati dall’imperativo della produttività, in cui contano solo i numeri e non le persone, in cui conta solo la quantità e mai più la qualità ( né del prodotto, ne’ tanto meno della vita delle persone), non si concilia con la gestione familiare ma, anzi, ne altera i ritmi scombussolandoli, non aiuta a mantenere in forma questa ultima categoria di fannullone che pretendono di avere il privilegio di andare in pensione cinque anni prima degli uomini.
Certo è che per quanto sia sconcertante il fatto in sé stesso, lo sono ancora di più le motivazioni addotte da Brunetta e che rendono l’ipotetico provvedimento veramente inaccettabile: in primo luogo c’è la volontà di non discriminare le donne pretendendo che siano angeli del focolare con i capelli ancora non completamente bianchi, accentando così l’ormai raggiunta pari opportunità di genere. In secondo luogo, questa sarebbe una manovra atta a “creare occupazione”.

L’evidenza della bestialità e, vorrei dire, brutalità, di tanto spirito di iniziativa è sotto gli occhi di tutti.
Un’idea dei dati e delle percentuali di quella che è la realtà delle condizioni di vita rapportate alle condizioni di lavoro delle donne, ci viene data dall’indagine condotta dalla Fiom e pubblicata da Liberazione qualche tempo fa, ma non mi pare necessario qui soffermarmi nel ripetere quei dati che non fanno altro che confermare quantitativamente quanto tutti i giorni respiriamo, ciò che quotidianamente è sotto gli occhi di tutti: i luoghi di lavoro, i treni dei pendolari, i supermercati, le scuole, le case, parlano in maniera più che eloquente di donne che raccontano di fatica, stanchezza, sfruttamento, parlano di pochi soldi, di tanta fatica a tirare avanti, parlano della mancanza di forza e di strumenti per sovvertire la situazione, parlano della sensazione di sentirsi in gabbia.
O forse Brunetta pensa che facendo lavorare le donne 5 anni in più, regali loro la possibilità di avere finalmente un innalzamento di livello, il riconoscimento della loro professionalità, un cambio di mansione, un aumento di stipendio?

La cronaca dei fatti, rapportata all’evidenza della realtà, di certo è spaventosa. Ma ci sono due cose che trovo ancora più inquietanti:

Innanzitutto è constatare che il primo folle che viene eletto ministro, può alzarsi la mattina e, decidendo di fare un poco di ordine a modo suo, abbia la possibilità di stravolgere a suo piacimento la vita delle persone (idee che coincidono sempre con quelle di una maggioranza che poi le vota!).

La seconda è che questo progetto abbia l’approvazione (perché di fatto si tratta di questo!) della feroce opposizione parlamentare. Perché quando due esponenti del Pd, per di più donna (onorevole Franco e Pienotta), lanciano al Ministro la loro provocazione, in realtà sanno di lanciargli un’ancora di salvataggio a cui aggrapparsi sicuro, tanto che il Brunetta, fregandosi le mani, si complimenta e ringrazia le furbe e progressiste oppositrici.
Questa temibile provocazione e sfida consiste nell’accettare l’innalzamento dell’età pensionabile per le donna a patto che il governo si impegni ad approvare il ddl 784 che contiene delle misure che dovrebbero promuovere l’occupazione femminile, garantire la tutela della maternità legata ai ritmi di lavoro e favorire la carriera. E qui mi chiedo: ma davvero queste senatrici pensano che l’approvazione di un decreto delegato possa favorire l’occupazione femminile e tutto ciò che ne consegue? Davvero credono che un decreto possa invertire la rotta di una radicatissima cultura maschilista e patriarcale che attribuisce implacabile all’uomo ed alla donna gli attuali ruoli? Probabilmente ne hanno piena consapevolezza ma, per l’ennesima volta, un partito che dovrebbe portare avanti, in maniera forte e determinata, una vera politica di opposizione a questo governo che non fa altro che minare quotidianamente la libertà e la democrazia dei cittadini, fa “un pò meno” della destra, nel nome della collaborazione col Governo e “del bene dell’Italia”.

Questa notizia ha una decina di giorni, in sé una notizia recente ma, nelle cose della politica sembra già vecchia. Vecchia perché gli avvenimenti si susseguono vorticosi e stanchi, ma soprattutto, questo governo, con a capo il suo primo ministro, ha al primo punto dell’agenda politica, quello di gettare fumo nelle notizie che vengono diffuse, quello di creare mostri da sbattere in prima pagina e creare falsi problemi su cui concentrarsi, in continuazione, confusamente, in modo da deviare l’attenzione da quelle che sono le vere necessità della popolazione, delle lavoratrici e dei lavoratori che, paradossalmente, vengono percepiti come problemi minori di cui occuparsi .Ma la lotta al mantenimento o all’acquisizione dei diritti per la propria libertà, non è mai vecchia, non è mai stanca, è sempre all’ordine del giorno, e per farlo nella migliore maniera non possiamo permetterci, nemmeno per un attimo, di abbassare la guardia.

* Comitato politico nazionale PRC - Area Valorizzare il saper fare

Questa destra è antagonista della Repubblica nata dalla Resistenza.
NO all'adeguamento dei trattamenti pensionistici per chi impugnò le armi in difesa del regime fascista.


di Bianca Bracci Torsi
(Resp. Dipartimento Antifascismo Prc)


Era da prevedere che, dopo la richiesta di " comprensione per i ragazzi di Salò ", le distinzioni tra partigiani buoni e cattivi (con la sottolineatura delle colpe dei secondi), " l'appello alla memoria condivisa ", la destra, saldamente piazzata al governo proponesse di sancire con una legge la legittimità di quanti scelsero di collaborare con le SS naziste uguagliandole in crudeltà contro i partigiani, ai quali non si riconosceva la qualifica di prigionieri di guerra e contro le popolazioni civili massacrate per rappresaglia o per puro terrorismo?

 

Era da prevedere, si, ed è arrivata la proposta di legge N 1360 primo firmatario Lucio Barani, del nuovo Psi aderente al PDl, per " L'istituzione  dell'ordine del tricolore e l'adeguamento dei trattamenti pensionistici di guerra da attribuire a tutti coloro che impugnarono le armi e operarono una scelta di schieramento convinti della bontà della loro lotta per la rinascita della patria ".

Una legge " coerente con la cultura di pace e di pacificazione della nuova Italia." Per "  rimarginare le ferite di un passato tragico e cruento ", un riconoscimento che equipara quanti " ritennero onorevole la scelta a difesa del regime " a quelli " che si schierarono con la parte avversa  ".

Qualcuno ricorderà di aver partecipato alla raccolta di firme contro il disegno di legge presentato nel 2006 alla fine del precedente governo Berlusconi, secondo il quale " soldati, sottoufficiali  e ufficiali che prestarono servizio nella Repubblica Sociale Italiana sono considerati a tutti gli effetti militari belligeranti equiparati a quanti prestarono servizio nei diversi eserciti dei paesi fra loro in conflitto durante la seconda guerra mondiale".

In seguito alle proteste che si levarono da tutta Italia quel disegno di legge fu cancellato dall'ordine del giorno della Camera.

Con l'auspicio" che un analogo tentativo non venisse mai più riproposto", ha detto Raimondo Ricci, Presidente nazionale vicario dell'Anpi, nella affollatissima conferenza convocata dall'Anpi a Roma il 13 Gennaio scorso con il titolo " Totalitarismo e democrazia " alla quale hanno parlato anche Marina Sereni, deputata del PD, Armando Cossuta e Giuliano Vassali, presidente emerito della corte costituzionale.

Ricci ha ricordato anche i fatti meno  noti che seguirono L'8 settembre come la sentenza della suprema corte di Cassazione che dichiarava la illegittimità della " Pseudo Repubblica Sociale Italiana " definendo quindi " traditori e collaborazionisti con il nemico i suoi sostenitori  ".

L'attuale proposta di legge prevede anche un adeguamento pensionistico per i repubblichini, mentre le famiglie di molti deportati e lavoratori coatti aspettano ancora un risarcimento.

All'iniziativa dell'Anpi hanno partecipato rappresentanti del Prc, Pdci, Psi, Idv, Pd, Sd, dell'arci e della Cgil, oltre ai messaggi inviati dagli ex presidenti della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Aurelio Ciampi: Una risposta autorevole ma è necessario che da uomini e donne di tutta Italia, lavoratori, studenti, intellettuali e pensionati, arrivi la forte espressione dell'indignazione di un popolo che non ha dimenticato le stragi perpetrate da coloro ai quali oggi si vuole concedere l'onore delle armi dovuto a nemici leali, assassini che già hanno goduto di procedimenti giudiziari a dire poco indulgenti quando non insabbiati nell'armadio della vergogna e, in tempi più recenti di una pubblicistica incline ad ignorarne le colpe quando non ad esaltarne presunte qualità umane e morali.

Indignazione e preoccupazione per una destra che sempre più si connota come antagonista della Repubblica nata dalla resistenza e nemica della costituzione che ne fissa i principi e i valori, un altro atto di chiara ispirazione fascista al quale bisogna rispondere con un NO forte è chiaro.
 
 

Gli schiavi dell'Emilia rossa

di Giusi Marcante

su Il Manifesto del 31/12/2008

Immigrati dalla Moldavia pagati appena 1,70 l'ora e tenuti al nero. Un'inchiesta giudiziaria svela come funziona il lavoro immigrato in edilizia a Reggio Emilia e dintorni. Senza far distinzioni tra appalti pubblici e privati. La scoperta grazie alle denunce dei lavoratori raccolte dall'associazione Città migrante

In principio fu una valigia piena di timbri e documenti falsificati finita in mano ai carabinieri grazie alla gelosia di un uomo per un presunto tradimento della sua donna. Poi sono arrivate le denunce di tanti, troppi, lavoratori stranieri che raccontavano di non essere stati pagati. Manodopera in nero e senza documenti in grado di sfuggire tranquillamente ad eventuali controlli nel cantiere: agli operai venivano fatti firmare contratti compilati a nome di altri lavoratori stranieri regolari e anche il badge che ogni manovale dovrebbe avere mentre lavora in cantiere riportava l'altro nome. Le indagini dei carabinieri di San Polo d'Enza e di Castelnuovo Monti sono durate un anno, sotto la direzione del pm Valentina Salvi, e hanno portato negli ultimi giorni agli arresti di alcuni imprenditori molto noti a Reggio Emilia e di un loro fidato capo cantiere. Associazione a delinquere finalizzata all'introduzione e alla permanenza di clandestini, falsificazione di permessi di soggiorno estorsione e utilizzo di manodopera clandestina: sono queste le accuse che hanno fatto finire in carcere Giovanni Freno, Marco Pozza e il figlio Federico e Victor Boldisor, cittadino moldavo considerato il tramite per l'arrivo di lavoratori dalla Moldavia che pur sgobbando nei cantieri italiani venivano pagati come se si trovassero in patria. A suo modo una piccola multinazionale dello sfruttamento della manodopera che ha prosperato negli appalti, anche in quelli pubblici, tra Emilia Romagna, Toscana, Lombardia, Lazio e Liguria. In quest'ultima regione sono stati aperti cantieri anche al porto di Genova. Ital Edil srl e Technological Building 7 srl: tutte mutazioni della stessa impresa che dietro la facciata mostravano una realtà di lavoro duro e di condizioni di vita che non è esagerato definire con il termine di schiavitù. Tutto questo nel cuore dell'Emilia produttiva e un tempo "rossa" dove il boom edilizio è stato l'occasione per ottimi oneri urbanistici che sono finiti nelle casse degli enti locali. Ma che ha riservato anche le forme dell'illegalità spregiudicata come dimostra questa inchiesta della magistratura o delle infiltrazioni mafiose come insegna la vicina provincia di Modena.
Secondo le indagini i lavoratori venivano pagati cifre che potevano arrivare fino ad un euro e settanta centesimi all'ora. Questo ha raccontato ai carabinieri un uomo moldavo: di essere stato prelevato in aeroporto nel 2003 e portato a lavorare nei cantieri di un'altra ditta collegata agli arrestati, Valsem Costruzioni Italia, con la promessa che dopo tre mesi sarebbe stato pagato tre euro all'ora. La sua vita è diventata un'odissea: ogni volta che il suo permesso di soggiorno scadeva veniva rimandato in patria per poi essere richiamato in Italia. Quando ha perso i documenti ha iniziato a lavorare per Ital Edil perché, gli avevano spiegato, «lì poteva lavorare anche da clandestino». La paga da 1,70 all'ora per alcuni era un semplice miraggio visto che, come risulta dalle diverse denunce presentate dall'avvocato Vainer Burani per conto di alcuni cittadini egiziani, spesso gli operai non venivano neanche pagati. Dopo gli accordi iniziali e i primi giorni di lavoro veniva dato loro un acconto di poche centinaia di euro. Il lavoro però proseguiva come si susseguivano gli spostamenti nei vari cantieri. Se però i lavoratori iniziavano a reclamare i loro soldi venivano minacciati di essere rimandati nei loro paesi grazie alle «amicizie» che Freno e Pozza vantavano di avere in Questura, Prefettura e tra i carabinieri. L'unico modo per avere lo stipendio era continuare a lavorare per loro, a scatola chiusa e senza troppe domande. Le denunce che l'avvocato Burani ha depositato alla procura di Reggio Emilia lo scorso aprile sono tutte fra loro simili: il primo contatto negli uffici della Ital Edil e il colloquio con Pozzi che si qualificava come tecnico della società. «Avevo fatto presente che ero privo di documenti - racconta nella sua denuncia uno dei lavoratori egiziani - ma mi è stato risposto di non preoccuparmi perché avrebbero risolto loro il problema, basta che fossi capace di fare l'intonacatore». Adesso Mohamed Harhash ha ottenuto un permesso di soggiorno per protezione sociale. Nella querela spiega bene quale fosse il meccanismo su cui poggiava Ital Edil e le sue successive trasformazioni: assumere lavoratori irregolari, fornire loro documenti con il nominativo di altri stranieri che avevano lavorato per loro e di cui avevano fotocopiato il permesso di soggiorno, dare una piccola cifra come prova che i pagamenti sarebbero prima o poi arrivati, portare i lavoratori nei vari cantieri aperti e farli lavorare con la minaccia di denunciare la loro clandestinità. E poi c'erano le condizioni in cui queste persone erano costrette a vivere: monolocali in cui venivano ammassate fino ad otto persone o seminterrati in cui in nove bisognava dividersi trenta metri quadri, ha raccontato Harhash al magistrato. Il lavoro era senza sosta sia nei giorni feriali che in quelli festivi ed era estremamente faticoso. Come accadeva in un cantiere a San Bartolomeo a Mare, in provincia di Imperia, dove si doveva portare in continuazione per una distanza di trecento metri «tutto il materiale a spalla dalla strada al cantiere di costruzione di villette a schiera».
Oltre a quella di Harhash, che ha 31 anni e una laurea in agronomia conseguita in Egitto e mai sfruttata in Italia dove ha sempre lavorato in edilizia, le denunce hanno iniziato ad accumularsi sul tavolo del pm Salvi dimostrando che non si trattava di casi singoli ma di un vero e proprio metodo che accomunava sempre gli stessi personaggi. A questo punto il puzzle delle indagini si è ricomposto anche grazie alla famosa valigia piena di timbri e foto. Sì, perché a volte la gelosia percorre strade insperate e così un ragazzo di origine marocchina ha portato i carabinieri dritti a casa della compagna che aveva avuto in custodia un borsone da un altro marocchino. Era l'uomo con il quale pensava che la sua donna lo tradisse, per i carabinieri è lui che falsificava i documenti. In questo momento è latitante, probabilmente in Marocco. Nella valigia c'era di tutto: timbri del consolato del Marocco di Bologna, dell'ufficio comunale di Gualtieri, della prefettura di Verona, dell'agenzia delle entrate di Bolzano, addirittura del vice prefetto di Reggio Emilia; tutto il necessario per realizzare permessi di soggiorno clonati con i quali coprire i lavoratori che cadevano nelle maglie della rete. Non è un caso che i Carabinieri abbiano battezzato questa operazione "Permesso Facile".
L'inchiesta conta anche casi di lavoratori che hanno consegnato fino a otto mila euro ai vari Freno e Pozza per avere in cambio un documento, ma il metodo più utilizzato era semplicemente quello di non pagare gli operai. Un'impresa che secondo stime prudenziali potrebbe aver sfruttato fino a trecento persone a Reggio Emilia e dintorni. Lavoratori come Mohamed Harhash che ad un certo punto si sono resi conto di non essere gli unici ad aver sopportato tanto.
I primi a denunciare il brutto affare dell'Ital Edil sono stati gli attivisti dell'associazione Città Migrante di Reggio Emilia, nata dall'esperienza del Comitato lavoratori irregolari che il 1 maggio 2007 organizzò una grande manifestazione di lavoratori immigrati bissata con successo quest'anno. Il 25 febbraio si sono presentati di fronte alla sede della Technological Building7 (quella di Ital Edil nel frattempo era stata chiusa) assieme a cinquanta lavoratori stranieri che chiedevano di essere pagati e uno striscione dove c'era scritto «chi è l'irregolare, lo sfruttato o lo sfruttatore?». Una mattinata movimentata visto che fu l'occasione per uno scambio di vedute tra gli attivisti, gli immigrati e Marco Pozza che passò al contrattacco denunciando Città Migrante per diffamazione e chiedendo un risarcimento di ventimila euro. Il processo che si è aperto di fronte al giudice di pace lo scorso 18 novembre è stato subito rinviato.
Grazie all'associazione questi lavoratori hanno trovato assistenza legale e l'avvio del percorso che li ha portati ad ottenere il permesso di soggiorno in base all'articolo 18 della legge Bossi-Fini (una circolare dell'ex ministro dell'interno Giuliano Amato incoraggiava le questure italiane nell'agosto 2007 a rilasciare questo documento nei casi di sfruttamento dei lavoratori immigrati). Del denaro che spetta loro per ora neanche l'ombra, mentre Ital Edil a novembre è stata dichiarata fallita in tribunale. «Uno dei miti che noi vogliamo sfatare e che questa vicenda mette nero su bianco è che la clandestinità sia una scelta - spiega Federica Zimbelli di Città Migrante - questa città è al quarto posto in Italia per presenza di stranieri irregolari e non lo diciamo noi ma Il Sole 24Ore». L'associazione vuole sottolineare come la combinazione tra gli effetti della crisi economica e la legge Bossi-Fini porterà «ad un aumento esponenziale della disoccupazione per cui i lavoratori migranti regolari diventeranno presto irregolari».

Università, il decreto è legge. Il Prc dice no, e lancia una campagna di mobilitazione

giovedì 08 gennaio 2009
corte_universit.jpgIl decreto Legge 180, una delle più grandi beffe della storia della ricerca e dell’alta formazione in Italia, è stato convertito in legge. È stato approvato a maggioranza senza modifiche e in maniera autoritaria, cioè privando il Parlamento della possibilità di discuterne il merito. Così un governo reazionario risponde a mesi di mobilitazioni democratiche e di massa, cioè rifiutando il confronto con chi materialmente è destinato a subire le conseguenze di un provvedimento legislativo.

di Fabio de Nardis, Responsabile Nazionale Università e Ricerca Prc-Se 
 
 
Sull’Università si matura dunque la crisi della democrazia rappresentativa che mostra il suo lato élitista. Come fu per il decreto legge 112, poi legge 133, il governo fa approvare il provvedimento in fretta e furia durante un periodo di feste, quando le aule sono deserte e il popolo dell’Università non può esprimere la sua opposizione democratica.

Il 5 gennaio, un giorno prima dell’Epifania, il ministro per i rapporti con il Parlamento ha posto, a nome del Governo, la questione di fiducia sull’approvazione del decreto, consapevole che una discussione attenta ne avrebbe mostrato le contraddizioni imponendone uno stravolgimento. Si rivendicano norme contro il nepotismo e le baronie, ma in realtà nulla si toglie al localismo concorsuale che genera o quantomeno sollecita certi elementi di devianza. Si riproduce di fatto il blocco dei concorsi limitandosi a posticipare i tagli al finanziamento pubblico che peseranno come un macigno sul bilancio degli atenei italiani. Per l’ennesima volta le deficienze amministrative e gestionali delle Università italiane verranno fatte ricadere sulle spalle degli studenti, che si vedranno ristretti gli spazi del diritto allo studio, e dei ricercatori precari, ai quali si promette più precarietà e meno garanzie.

Nel frattempo rimane incerto il futuro dei concorsi già banditi che avrebbero garantito la collocazione in ruolo di 1800 docenti, tra ricercatori, associati e ordinari, a causa di un cambio in itinere delle regole del gioco attraverso una modifica tutta propagandistica dei regolamenti concorsuali, perlopiù di impossibile applicazione, che lasciano presagire un’ondata di ricorsi al TAR. Rimane infatti nelle commissioni il membro locale nominato dalle facoltà banditrici mentre gli altri commissari saranno sorteggiati da una rosa comunque eletta, dunque inquinata da pratiche poco trasparenti, in un numero che in molti casi è superiore all’effettiva disponibilità di ordinari eleggibili.

Se i tagli venissero cancellati, ma così non è, sarebbe quantomeno interessante la riduzione posta ai limiti sul turn over con il vincolo del 60% delle risorse da destinare a concorsi per il reclutamento di nuovi ricercatori. Ma consentire alle Università “virtuose” di utilizzare quelle risorse anche per contratti precari vuol dire regalare agli Atenei un nuovo strumento di ricatto e precarizzazione riducendo i posti in ruolo. Le Università preferiranno bandire concorsi per contratti a termine che non vengono contabilizzati all’interno di quel famigerato 90% dei costi per il personale sul fondo di finanziamento ordinario che serve a stabilire il livello di “virtuosità” degli atenei.

Insomma. Tranne qualche spicciolo destinato a finanziarie borse di studio e nuove residenze per gli studenti, la nuova legge del Governo Berlusconi si configura come una presa per i fondelli che non dice nulla sui problemi strutturali dell’Università, anzi li peggiora. Diritto allo studio, precarietà della ricerca, trasparenza dei concorsi, valutazione seria della qualità della produzione scientifica e dell’offerta didattica degli atenei. Su nulla di tutto ciò la nuova legge sembra offrire risposte concrete. Per questa ragione Rifondazione Comunista, nell’ambito di un salto di qualità nelle attività di movimento, annuncia una campagna di mobilitazioni per una Università che sia veramente un luogo di emancipazione sociale attraverso il libero accesso alla conoscenza e a una ricerca libera dal ricatto della precarietà e dal condizionamento dei mercati. Il tutto sarà connesso a una più ampia battaglia nelle università e nella società per una radicale democratizzazione della politica e delle coscienze.

Roma, 8 Gennaio 2009

L'Onda suona la carica: «Non molliamo ora»

di Stefano Milani

su Il Manifesto del 08/01/2009

Protesta davanti Montecitorio

C'è fiducia e fiducia. C'è la nona che il governo ha posto ieri per blindare il decreto Gelmini sull'università, e c'è quella dei ragazzi dell'Onda convinti, nonostante tutto, che la battaglia non sia ancora finita. «Siamo appena all'inizio, presto ricominceremo a surfare», assicurano. Non inganni, infatti, questo periodo di stasi. Con il Natale, le feste e il rientro dalle vacanze. Il fatto è che ci avevano abituato bene, specie dopo la "piena" di novembre con occupazioni, autogestioni, lezioni all'aperto e assemblee che spuntavano di giorno in giorno in ogni ateneo dello Stivale. Per manifestare tutto il loro dissenso contro la legge 133, e più in generale contro l'intera riforma dell'Istruzione, culminato nell'ultimo grande appuntamento dello sciopero generale lo scorso 12 dicembre.
Ora si volta pagina. «Siamo alla fase due», dicono i futuri dottori. Più equilibrata, più razionale, meno rumorosa forse, ma non per questo meno efficace. Perché ci sono i momenti dell'inondazione e i momenti della quiete. Che ha però tutta l'aria di preannunciare presto una nuova tempesta. L'assaggio ieri, in un sit-in organizzato davanti a Montecitorio. Dentro, tra gli scranni della Camera, si svolgeva l'ennesima farsa della democrazia ai tempi di Berlusconi. Fuori i ragazzi, imbavagliati, a srotolare lo striscione «Criminale è chi distrugge l'università» e contestare un decreto, votato in fretta e furia, che al suo interno ha una serie di misure ritenute «inaccettabili». Basti pensare al blocco del turn over, della possibilità di trasformazione degli atenei in fondazioni private, dei finanziamenti differenziati in favore degli atenei virtuosi, dello smantellamento della ricerca già precaria e sottofinanziata. «Tutto già previsto, tutto a danno della qualità dell´università», lamentano gli studenti secondo i quali «è chiara la volontà di far pagare all'università, e al pubblico in generale, la crisi finanziaria, così all'insegna di un ipocrita discorso sugli sprechi e la meritocrazia passa la devastazione dell'università e della ricerca pubblica».
A non andar proprio giù è anche il fatto che questa votazione, rinviata più volte negli scorsi mesi, avviene in un periodo "morto", in cui le università sono deserte, e a pochi giorni dalla polemica «tutta strumentale e provocatoria» costruita dal rettore della Sapienza Frati e dal sindaco Alemanno, «abituato evidentemente ad una democrazia in cui la critica e il dissenso di chi non si allinea sono considerate pratiche criminali». Il sindaco e il rettore «si sentono come l'imperatore Serse - gridano verso Montecitorio - quando nella guerra per conquistare la Grecia hanno trovato 300 spartani ad affrontarli. Noi siamo orgogliosi di essere ben oltre 300». Per Stefano Zarlenga, uno dei leader del movimento, la tecnica è ben nota: «Alzano un polverone sulla Sapienza per nascondere il loro vero obiettivo, ovvero quello di smantellare il sapere pubblico».
Sit-in a parte c'è da pensare ad un 2009 che, appena cominciato, già si preannuncia bollente in materia di istruzione. I vari collettivi universitari cominceranno fin da questa settimana a convocare assemblee in tutte le facoltà per fare la conta e ripartire. Non è semplice coinvolgere tanta gente a partecipare, specie adesso con la sessione d'esame che incombe. Ma è anche vero «che non ci può arrendere proprio ora, dopo i successi dello scorso autunno», suona la carica Giorgio Sestili del collettivo di Fisica della Sapienza che ha già ben in mente gli obiettivi a breve termine. «Il diritto allo studio, la casa dello studente, la battaglia contro l'aumento delle tasse, la riduzione delle tariffe delle mense e la possibilità di ottenere più borse di studio». Punti chiari e precisi, inseriti in quel progetto di autoriforma nato dalla due giorni d'assise romana, nel novembre scorso, tra le varie facoltà d'Italia «per riappropriarci dei tempi, dei desideri, degli spazi e dei saperi nelle facoltà e nelle città». E anche nel mondo del lavoro: uscire dai confini accademici è, infatti,l'altro grande obiettivo prefisso quest'anno dall'Onda. L'esercito del surf è tornato.

 

Documento politico dell’assemblea nazionale di movimento

13-14 dicembre 2008, Tor Vergata – Roma

(21 dicembre 2008)

Il 13 e 14 dicembre 2008 si è tenuta all'Università di Tor Vergata un'assemblea nazionale di movimento, nata da un’esigenza largamente condivisa da quei singoli e realtà politiche che hanno attivamente preso parte, in questi mesi, alle proteste contro la legge 133 e contro tutte le misure governative in materia di Scuola, Università e Ricerca.
Dopo una prima fase di mobilitazione, in cui l’agitazione spontanea è stata predominante, si sono infatti cominciate a definire le rivendicazioni e a costruire le piattaforme politiche, entrando nel merito delle tante questioni aperte dal movimento. In questa seconda fase ci siamo resi conto che, condividendo punti di vista e prospettive, era necessario socializzare i percorsi di lotta e le analisi politiche maturate negli ultimi mesi e negli anni precedenti. Naturalmente quest'assemblea non ha rappresentato che un primo passaggio, necessario ma non sufficiente: quello conseguente è lavorare insieme per incidere in maniera efficace sul tessuto sociale e sulla realtà quotidiana.

La due giorni di intensi dibattiti si è articolata in due momenti di confronto assembleari sull'autorganizzazione, e in due tavoli di lavoro plenari, che hanno affrontato il rapporto fra “Scuola e Università, Capitale e Lavoro” e fra “Università e movimenti sociali”. La prima necessità dell'assemblea è stata infatti quella di fare il punto sulle varie esperienze di mobilitazione, e di portare avanti l'analisi teorica in modo da strutturare meglio le proprie pratiche.
Non è quindi un caso che il perno della discussione in tutte le assemblee sia stata la lettura della crisi economico-finanziaria. Differentemente da tutti quelli che hanno sprecato fiumi di inchiostro sostenendo che la “crisi” è solo “crisi della finanza”, noi siamo convinti della necessità di ribadire che si tratta sì di crisi, ma di una crisi di accumulazione capitalistica che viviamo da almeno trent'anni, e di cui la recente deflagrazione finanziaria è soltanto l’ultimo, violento, momento di svolta. I meccanismi di speculazione e indebitamento, che oggi vediamo crollare, non sono infatti il prodotto di alcune “mele marce”, ma una delle strade battute a partire dagli anni '70 per sopperire alle difficoltà di valorizzazione dei capitali. Mettere in discussione il capitalismo significa quindi prima di tutto chiarire che non può esistere un lato 'buono' di un sistema fondato su sfruttamento ed oppressione: finanza ed economia reale sono due aspetti dello stesso modo di produzione. Condannare il capitalismo rapace degli speculatori e delle banche, lasciando intendere che ve ne sia uno buono da difendere, o uno “sostenibile”, significa mistificare la realtà, e cedere le proprie armi critiche al nemico.

Per tentare di uscire da questa crisi di accumulazione, il capitale ha messo in campo diverse strategie: oltre alla finanziarizzazione e al controllo dei fondi e delle politiche monetarie attraverso organizzazioni transnazionali, è ricorso anche alla guerra globale e allo sfruttamento massiccio dei paesi del Sud del mondo (sia delocalizzando lì la produzione, sia abusando delle ingenti risorse naturali di quei territori). I governi e gli imprenditori, con la collaborazione di finte opposizioni politiche e il ruolo attivo dei sindacati concertativi, hanno poi attaccato direttamente le condizioni di vita delle classi subalterne. Hanno tentato di ridisegnare tutta la società, modificando alcuni aspetti fondamentali della sua organizzazione: il ruolo dello Stato, il mercato del lavoro, il sistema pensionistico, la sanità, i trasporti, incentivando lo scempio ambientale e la privatizzazione di risorse quali l'acqua e l'aria. In questo modo hanno limitato e depotenziato la conflittualità sociale, aperto incessantemente nuovi spazi di mercato, suscitato ad arte nuovi, redditizi bisogni.

In questo vasto processo di precarizzazione e sfrenata mercificazione, l’istruzione e la ricerca non sono state risparmiate, ma riformate rispondendo all’esigenza di costruzione di un’economia basata sulla conoscenza. È per costruire uno Spazio Europeo dell’Educazione Superiore e della Ricerca (funzionale, insieme all'Esercito europeo, all'aspra competizione sullo scenario mondiale) che i governi dei paesi membri dell’UE stanno armonizzando i sistemi di istruzione, portando avanti, pressoché ovunque, “riforme” di stampo neoliberista (si pensi alla Francia, alla Spagna, alla Grecia). Indagare le connessioni che esistono tra il sistema formativo, il quadro economico generale e le ristrutturazioni che avvengono a livello europeo ci ha permesso di comprendere in che modo i meccanismi di selezione di classe e di disciplinamento si sono evoluti e si evolvono, proprio a partire da scuole ed università.

Da questo punto di vista, l’introduzione del 3+2, di stage e tirocini obbligatori durante il corso di studi, del sistema dei crediti formativi (CFU), il nuovo ruolo dei privati negli atenei, il life-long learning, lo smantellamento di ciò che resta del diritto allo studio (mense, residenze, borse di studio), sono solo alcuni degli elementi concreti emersi durante la discussione assembleare.

Il credito formativo è stato uno dei punti dirimenti del confronto: la posizione “suggerita” dai report della Sapienza (workshop del 15 novembre), ovvero l’abolizione del sistema dei CFU attraverso un loro “inflazionamento”, è stata messa duramente in discussione. Il credito è definito come la misura del volume di lavoro di apprendimento, compreso lo studio individuale, richiesto ad uno studente in possesso di adeguata preparazione iniziale per l'acquisizione di conoscenze ed abilità nelle attività formative previste dagli ordinamenti didattici dei corsi di studio (cfr. Decreto Ministeriale, 3 nov. 1999, n. 509). Non è altro che una misurazione matematica del tempo di apprendimento (e non della conoscenza) che ha contribuito all'ulteriore dequalificazione della didattica. Esso racchiude la somma di lavoro che va dalla didattica frontale (apprendimento formale), allo studio a casa, fino all’acquisizione di skill e dispositivi pratici sui luoghi di lavoro (apprendimento informale). Non importa dunque l'acquisizione di un metodo, o una complessiva crescita culturale e personale, ma solo il riempimento di tempo “vuoto” con una serie di nozioni parcellizzate. Se dunque da una parte il credito formativo spinge ulteriormente in avanti il processo di mercificazione dei saperi (si pensi anche alle vergognose convenzioni con corporazioni di ogni tipo che le Università hanno sottoscritto per fare cassa, rese possibili proprio dall'introduzione del CFU), dall’altro contribuisce a creare uno standard comune di accesso al mercato del lavoro a livello europeo.

Così, l’ipotesi di “inflazionamento” dei CFU è paradossale e segna un arretramento delle nostre lotte: si dice di criticare il contenuto, ma non si tocca il contenitore. Piuttosto si collabora e legittima il sistema dei crediti, gli si conferisce credibilità presso gli studenti, e si portano, già nella fase della formazione, logiche baronali e di cooptazione, attraverso lo sviluppo di rapporti privilegiati con i docenti e con le autorità accademiche che devono riconoscere il “controcorso” (e che non hanno troppi problemi a farlo, visto che nel quadro di un assoggettamento totale dei percorsi curriculari alle esigenze del capitale, viene prevista quest'irrisoria valvola di sfogo: già la legge Ruberti del 1990 prevedeva attività formative autogestite dagli studenti; Zecchino consente poi che una piccolissima percentuale dei crediti formativi sia riservata ad attività formative autonomamente scelte dallo studente – cfr. stesso Decreto Ministeriale). L'autoformazione con i crediti è così perfettamente compatibile con le esigenze dei poteri accademici e economici, non li scalfisce, ma anzi li rafforza, svolgendo la funzione di moderare le lotte.
L'unica posizione possibile e necessaria è quella di lottare senza ambiguità per l'abrogazione del sistema dei crediti, portando avanti iniziative culturali, incontri, dibattiti davvero autogestiti e orientati in modo antagonista; non facendo tesoro di qualche “lezione” calata da professori o da ricercatori in cerca di visibilità, ma del confronto orizzontale fra i soggetti mobilitati e con soggetti esterni alle università, come lavoratori, migranti, realtà di movimento. Non si tratta insomma di rinchiudersi nelle aule privilegiate del “sapere”, ma di rendere l'Università un luogo di transito per le lotte aperte nelle metropoli e nei territori. Perché l'università non è degli studenti, è, o dovrebbe essere, di tutti, al servizio della collettività.

Bisogna quindi anche mettere in questione tutte quelle proposte volte a sgravare lo Stato dagli oneri del sistema formativo. Si pensi alla spinta pubblicitaria verso i prestiti d'onore, che mirano a far acquistare allo studente il proprio “pacchetto formativo”. Viene caldamente “proposto” allo studente di indebitarsi, per avere la speranza che con la laurea trovi un lavoro ben remunerato, che possa estinguere il debito contratto nei confronti del finanziatore (che può essere una banca, ma anche un'azienda alla quale ci si lega fideisticamente). Così è lo studente che investe su se stesso, con buone prospettive di finire doppiamente ricattato: dal padrone a lavoro e dal “finanziatore” del prestito d'onore. Un tale sistema (proprio come quello dei mutui “drogati”) è in crisi persino negli stessi paesi dove è più radicato, e ha come principali conseguenze l'esclusione sociale, la ricattabilità dello studente, il suo indottrinamento forzato, la spinta a una competizione feroce con i suoi compagni.

Anche i tentativi di abolizione del valore legale del titolo di studio, supportati non a caso da grandi multinazionali, vanno in questo senso. In generale l'obbiettivo del capitale è quello di costruire da un lato un'Università di massa adeguatamente dequalificata, dove si sfornano lavoratori a basso costo, esposti alla precarietà, costretti a cicli di formazione continua e a pagamento (master, corsi di specializzazione etc), che possano rappresentare un “esercito di disoccupati” disperati e in competizione fra loro, e dall'altro lato di creare invece pochi luoghi di formazione altamente selettivi in cui si forma la classe dirigente solidale alle sue esigenze. Da questo punto di vista l'“emergenza”, lo “spreco” e la “meritocrazia” sono i paraventi ideologici con cui si cerca di veicolare riforme che in effetti rafforzano proprio l'arbitrio baronale e la dequalificazione dell'Università pubblica.

Per questo motivo un altro punto cruciale sul quale si è concentrata l’attenzione del movimento è quello della trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato. Una tale possibilità, che per molti atenei diventerà obbligo, comporterà da una parte che l’ingresso dei privati nei dipartimenti diventerà sempre più stabile, dall’altra che quei corsi di laurea che non rispondono a “criteri di produttività” verranno tagliati limitando inevitabilmente la libertà di studio nonché quella di insegnamento e ricerca. In generale, la trasformazione delle università in fondazioni, che è l'estremo effetto della privatizzazione (non si incide più con riforme curriculari o con una generica collaborazione con soggetti privati, ma tagliando nettamente i fondi, e costringendo dunque gli atenei a immettere al loro interno le uniche realtà capaci di erogare liquidità), non farà che aumentare le molteplici contraddizioni in cui l'università è inserita. Contraddizioni articolate su più livelli: fra logiche baronali e politico-clientelari; fra le diverse cordate d'interesse; fra il personale tecnico amministrativo e le dirigenze accademiche; fra le masse sempre più numerose di studenti esclusi dai livelli più alti della formazione e i meccanismi sempre più rigidi di selezione, repressione e controllo; fra le aspettative professionali degli studenti che completeranno il proprio percorso di studi e la loro crescente dequalificazione; fra i capitali stessi, in competizione per assicurarsi corsi di laurea favorevoli e “prestazioni d'opera vantaggiose”; fra Dipartimenti Atenei, Centri di ricerca, in opposizione, contro il buon senso e le pratiche di condivisione in uso fino a qualche decennio fa nella ricerca pubblica, per la registrazione di un brevetto o per accaparrarsi una fetta più grande di finanziamenti.

In questo quadro gli stage ed i tirocini sono un altro aspetto del riassetto dell’istruzione tutta, in funzione del mercato: acquisire conoscenze, attraverso la pratica sul posto di lavoro, è considerato formativo per gli studenti fin dalle scuole medie superiori. Ancora una volta, viene cancellata persino la parvenza di una cultura critica e slegata da logiche aziendalistiche: se da un lato parliamo di prestazioni di lavoro gratuite che permettono, in molti casi, di abbassare i costi per il personale di università e aziende non assumendo per gli incarichi coperti da stagisti, dall’altro il costo della formazione dei soggetti in ingresso (prima integralmente a carico dei privati) viene scaricato sulla collettività.
Stage e tirocini si delineano, quindi, come ulteriore ricatto per i lavoratori, in una fase in cui aumenta giorno dopo giorno il numero dei disoccupati, dei cassa-integrati e dei licenziati e in cui peggiorano visibilmente le condizioni di lavoro dello stesso personale nelle scuole e nelle università: si pensi all'esternalizzazione dei servizi, delle mense, delle biblioteche, che vengono affidate a imprese appaltatrici o subappaltatrici le quali non applicano ai lavoratori nemmeno le poche tutele tradizionali, e su cui il pubblico non ha più alcun controllo (con conseguente aumento del costo dei servizi e diminuzione della qualità).

Alla questione della mercificazione dei saperi è strettamente legato il modo in cui si configurano la didattica ed i suoi tempi nelle nostre aule: il voto, la lezione frontale, i ritmi serrati delle lezioni, sono strumenti che non permettono la fruizione di una cultura che possa realmente formare soggetti critici, ma contribuiscono a riprodurre l’ideologia dominante di cui l’università si fa portatrice. È per questo che non ci si può richiamare a cuor leggero al Trattato di Lisbona o alla Carta europea della Ricerca: questi sono piani per la costruzione di una ricerca funzionale allo sviluppo capitalistico ed a essa subordinata, non certo per lo sviluppo di un sapere libero.

Da questo punto di vista è importante ribadire come per “ricerca pubblica” non si intenda una ricerca genericamente finanziata dallo Stato e non dai privati, ma una ricerca che sia a beneficio della società. Una tale ricerca implica un cambiamento radicale della nostra società, della sua organizzazione politica e sociale. Oggi, anche laddove i fondi sono pubblici, la ricerca ha preso strade che devono assolutamente essere contestate. Sono infatti pesanti le responsabilità del mondo accademico nel prestarsi a fornitore di servizi per l'industria bellica, finendo per essere un utile strumento al servizio delle politiche imperialiste di guerra. E ancora, didattica e ricerca vengono oggi finalizzate allo sviluppo di prodotti farmaceutici, chimici, informatici, che saranno poi brevettati da quelle stesse aziende che ne ricaveranno profitti. Nel campo delle scienze umane questo vuol dire sviluppare sistemi di analisi e controllo, tecniche di promozione pubblicitaria, funzionali all'integrazione, alla spettacolarizzazione, al disciplinamento di vasti settori sociali potenzialmente conflittuali. Nel campo storico-letterario i condizionamenti dei fondi nazionali ed europei permettono una riscrittura della storia e della cultura a vantaggio delle esigenze attuali della classe dominante.

Per quanto riguarda il ruolo nella lotta dei dottorandi e dei ricercatori, soggetti chiamati in causa in prima persona in questo processo di ristrutturazione dell’Università e dello stato sociale, è per loro naturale, o dovrebbe esserlo, trovarsi alleati agli studenti. Come questi ultimi, essi subiscono una selezione di classe, che lascia a pochi la possibilità di andare avanti negli studi e di permettersi lunghe “attese”; per di più essi soffrono anche quei meccanismi di cooptazione e baronato che limitano la libertà della ricerca, ancor più minata dall’ingresso dei privati, con la possibilità (non remota e già presente in alcune facoltà scientifiche) che si ricerchi direttamente su commissione.
È per questo complesso di motivi che non si può parlare di “centralità del capitale cognitivo” o di funzione trainante dell'Università all'interno delle lotte. Non bisogna lasciarsi ingannare da formule demagogiche: da un lato bisogna riconoscere che il lavoro cosiddetto manuale non ha avuto né il tempo né l’agio di sviluppare teorie sulla sua centralità, anzi, è stato fatto sparire dall'informazione e dal dibattito culturale, con la complicità proprio delle elucubrazioni postfordiste; d'altro canto bisogna riconoscere che esso ha sempre di più assorbito funzioni intellettuali (cfr. il problem solving nei processi produttivi, a cui gli operai partecipano quotidianamente), mentre il lavoro “cognitivo” è spesso basato su precise funzioni materiali (cfr. le mansioni amministrative svolte da molti dottorandi e ricercatori). Nel rispetto delle specificità e delle condizioni concrete di vita, bisogna notare che le figure lavorative sono quindi inserite nello stesso ciclo produttivo: entrambe concorrono alla valorizzazione delle merci, entrambe sono esposte a processi di precarizzazione, entrambe vengono private di contratti collettivi nazionali e dei diritti sociali (quali quelli alla casa, alla pensione etc). Le risposte che il capitale ha dato alla sua crisi trentennale hanno tentato in ogni modo di frammentare la classe, opponendo artificialmente il lavoro “cognitivo” al lavoro “manuale”, offuscando i confini spesso molto labili che circoscrivono i due ambiti, e cooptando il primo con privilegi di casta e fornendogli un certo status. Per questo, anche se nel mondo della ricerca ci sono alcuni soggetti in attesa di “inserimento”, o che potranno sempre trovare un remunerato impiego nelle aziende, bisogna rilanciare una larga lotta unitaria fra i tanti che di questa proletarizzazione e scomposizione di classe patiscono le conseguenze.

Si è così giunti a una riflessione più larga sulla connessione che bisogna instaurare fra i diversi ambiti del conflitto sociale. La presenza di esponenti dei movimenti territoriali è stata fondamentale per trovare il legame con le lotte contro la devastazione ambientale e lo scempio territoriale. Non è un caso che nella stessa legge 133/08 sono contenuti, oltre ai tagli all’università, anche le misure di privatizzazione dell’acqua e i finanziamenti per l’energia nucleare. È lampante il nesso che lega lo smantellamento dell’istruzione e dello stato sociale all’attacco all’ambiente e ai territori, soprattutto se si considera, ancora una volta, il ruolo che la ricerca svolge (per volontà del pubblico o del privato) nella devastazione e nello sfruttamento ambientale, e la funzione assolta dai partiti e dai sindacati confederali (in continuità con i ben noti meccanismi clientelari, e spesso persino in collusione con mafie e camorre) nel portare avanti logiche di profitto.

Di fronte alla crisi e al massacro che sta producendo, lavorare sulle contraddizioni, iniziando a fare un discorso che miri dalle nostre università a costruire un lavoro politico che non sia studentista o corporativo, ma abbia la forza di collegarsi alle lotte di tutti gli altri settori che pagano questa organizzazione economico-sociale è dunque una necessità. L’obiettivo di tutti i partecipanti all'assemblea è dunque quello di lavorare nella prospettiva di un confronto stabile tra lavoratori e studenti (che sono lavoratori in formazione, lavoratori di oggi e di domani), assolutamente svincolato dalle pratiche concertative di alcuni sindacati e partiti. Per questo motivo, è stato ritenuto fondamentale proporre la costruzione di assemblee con altre realtà autorganizzate non studentesche per provare a generalizzare realmente le lotte e tendere col tempo ad allargare sempre di più i nodi del conflitto.

In conseguenza di ciò, partendo dalle nostre specificità locali, abbiamo deciso di creare una rete di realtà studentesche che abbia un respiro nazionale, ma che guardi anche alle proteste che si sviluppano, contro le medesime riforme e attacchi, su un piano internazionale. Intendiamo così coordinare in modo efficace le nostre lotte e dare uno sbocco politico alle analisi condivise, dotandoci degli strumenti più opportuni ed efficaci. Tra questi, abbiamo individuato un sito internet, che funzioni come portale di collegamento nonché come mezzo di comunicazione politica, punto di riferimento per quanti, quotidianamente, lottano nella nostra stessa prospettiva. L’autorganizzazione, in questo senso, è stata argomento centrale ed è emersa come caratteristica fondamentale per costruire una struttura orizzontale che riesca a porre nell’agenda politica una pratica realmente conflittuale e di classe. Per aprire da ora, e nei prossimi anni, un lungo ciclo di lotte sociali. Per osare combattere, e osare vincere.

Roma, 14 dicembre 2008

 

 

Partigiani e deportati come le truppe di Salò

di Gemma Contin

su Liberazione del 08/01/2009

Un progetto di legge, numero 1360, e un colpo di mano che metterà il Parlamento di fronte alla scelta di equiparare i partigiani che combatterono contro il fascismo e il nazismo, contro la guerra praticata da Benito Mussolini a fianco di Adolf Hitler, per la liberazione dell'Italia da un'infame dittatura interna ed esterna, con i miliziani della Repubblica di Salò, le truppe irriducibili che volevano continuare a tenere il Paese a ferro e fuoco, quelli che consegnarono migliaia di ragazzi italiani nelle mani dei rastrellatori tedeschi e gli ebrei del ghetto di Roma, di Venezia, di Torino, di Milano, nelle mani dei loro torturatori e di chi li avrebbe avviati ai lager e ai forni crematori.
Il progetto di legge - firmato in sostanza da parlamentari del "Popolo delle libertà" come Nicola Cristaldi, ex presidente dell'Assemblea regionale siciliana, o dal vicesindaco di Milano Riccardo De Corato, noti eredi del Fuan, del Movimento sociale italiano e di Alleanza nazionale, ma anche da qualche esponente (che poi ha ritirato la firma) del Partito democratico di dubbia memoria storica come Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, che pure ha scritto il libro Da Salò a Piazza della Loggia ed è stato presidente del suo gruppo in Commissione Stragi - è in discussione ora, al rientro dalle vacanze natalizie, al primo punto dei lavori in corso alla Commissione Difesa della Camera dei deputati, il cui presidente Edmondo Cirielli (sì, proprio lui, anch'egli proveniente dai vertici irpini di An, nonché dall'alta formazione militare dell'Accademia della Nunziatella) ne è anche il relatore. Tanto per dire quale rilievo e importanza venga attribuito a una tale proposta dal centrodestra, più precisamente dall'"ala nera" del centrodestra, suscitando peraltro molti dubbi e distinguo, espressi in Commissione, tra le file della Lega.
Si tratta infatti di un nuovo capitolo di quel processo di omologazione (tutti ugualmente buoni oggi, tutti ugualmente cattivi ieri, o tutti eroi posti sullo stesso altarino), di ricostruzione di una verginità ideologica e di "revisionismo storico", ovvero di riscrittura della realtà storica per come quelli di noi che hanno un po' più di sessant'anni hanno vissuto e ricordano assai bene e con molto dolore, cui hanno contribuito non poco le prese di posizione, in nome di una presunta "memoria condivisa" e declamata "riconciliazione nazionale", molti rappresentanti "al di sopra di ogni sospetto" del centrosinistra, come l'ex presidente della Camera Luciano Violante, ma anche il lavoro di ricerca e riedizione (o di pentimento e confessione, sulla via di una laicità trascesa al misticismo in nome della "verità" ex post) di esponenti dell'intellighenzia che si è sempre detta vicina al centrosinistra: prima al Psi di Craxi, poi al Pci di Berlinguer, adesso al Pd di Veltroni.
Sta di fatto che l'Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi) e le altre organizzazioni che rappresentano gli ex internati (Anei), gli ex deportati (Aned), i perseguitati politici (Anppia) e l'Associazione nazionale famiglie italiane martiri caduti per la libertà della patria (Anfim), sono in forte allarme. Innanzitutto perché il primo firmatario del progetto di legge numero 1360 è quell'onorevole Lucio Barrani, ex sindaco di Aulla e di Villafranca in Lunigiana, che ha fatto erigere nella piazza principale di Aulla la statua a grandezza naturale di Bettino Craxi in marmo bianco di Carrara e ha apposto a Villafranca una lapide commemorativa che dice: «In ricordo di Benito Mussolini, ospite in questo borgo nel triste gennaio 1945, quando reduce dalle retrovie della linea gotica s'avviava al tragico epilogo della sua vita avventurosa».
Si tratta dello stesso sindaco che, dopo aver dichiarato il suo comune "dedipietrizzato" ai tempi di Tangentopoli, ha deliberato la posa in opera in tutto il territorio municipale di cartelli stradali che indicano e impongono il "divieto di prostituzione".
Ma l'allarme vero delle associazioni partigiane, raccolto da alcuni parlamentari, storici e giuristi, che martedì prossimo ne discuteranno nella Sala del Cenacolo di Vicolo Valdina a Roma, in un confronto su «Totalismo e democrazia» presieduto da Armando Cossutta, riguarda proprio il contenuto della proposta di legge che, partendo da un antefatto "nobile" quale la costituzione dell'Ordine di Vittorio Veneto, che prevede il riconoscimento dei meriti e dei diritti dei combattenti e reduci impegnati sui due fronti della Grande Guerra, vorrebbe adesso istituire in parallelo il cosiddetto "Ordine del Tricolore" (e il nome è già un primo indizio) nonché il conseguente «adeguamento dei trattamenti pensionistici di guerra» (secondo indizio ben preciso e mirato).
Il senatore Cossutta ci ha detto che «già nelle ultime legislature era stata avanzata analoga proposta. Siamo però sempre riusciti a impedirglielo. Ma adesso si prepara un vero e proprio colpo di mano, inaccettabile sotto il profilo morale e politico, oltre che da un punto di vista giuridico e storico, che equipara quelli che facevano i rastrellamenti per conto dei tedeschi a chi è stato internato nei campi di concentramento e a chi ha fatto la Resistenza».
Assieme a lui ne discuteranno lo storico Claudio Pavone, il vicepresidente vicario dell'Anpi Raimondo Ricci, la deputata del Partito democratico Marina Sereni, il presidente emerito della Corte costituzionale Giuliano Vassalli, «per cercare di avviare un campagna di informazione e di chiarificazione», perché i proponenti, nella presentazione della proposta di legge, scrivono: «L'istituzione dell'Ordine del Tricolore deve essere considerata un atto dovuto verso tutti coloro che impugnarono le armi e operarono una scelta di schieramento convinti della "bontà" (sic, con tanto di virgolette!) della loro lotta per la rinascita della Patria».
L'articolo 2 prevede che tale onorificenza (e quello che ne consegue) sia conferita: «A coloro che hanno prestato servizio militare per almeno sei mesi, anche a più riprese, in zona di operazioni, nelle Forze armate italiane durante la guerra 1940-1945 e che siano invalidi; a coloro che hanno fatto parte delle formazioni armate partigiane o gappiste, regolarmente inquadrate nelle formazioni dipendenti dal Corpo volontari della libertà, oppure delle formazioni che facevano riferimento alla Repubblica sociale italiana; ai combattenti della guerra 1940-1945; ai mutilati e invalidi della guerra 1940-1945 che fruiscono di pensioni di guerra; agli ex prigionieri o internati nei campi di concentramenti o di prigionia, nonché ai combattenti nelle formazioni dell'esercito nazionale repubblicano durante il biennio 1943-1945». Che poi sarebbero quelli che dopo l'8 settembre 1943 fecero la guerra ai partigiani, all'esercito di liberazione, ai militari agli ordini del generale Badoglio, alle forze armate alleate sbarcate in Sicilia e ad Anzio e alle truppe che combatterono contro l'esercito tedesco in ritirata. Insomma, quelli che fino all'ultimo furono i fiancheggiatori dei nazisti e i torturatori delle popolazioni civili che resistettero alle Squadre Speciali in fuga.
E per essere sicuri che le benemerenze siano "equamente" assegnate e ripartire, l'articolo 4 che definisce la composizione dell'Ordine del Tricolore precisa: «Il Capo dell'Ordine è il Presidente della Repubblica. L'Ordine è retto da un Consiglio composto da un tenente generale o ufficiale di grado corrispondente che lo presiede, da due generali, di cui uno dell'Aeronautica militare, e da un ammiraglio, in rappresentanza delle Forze armate; dal presidente dell'Associazione nazionale combattenti della guerra di liberazione inquadrati nei reparti regolari delle Forze armate italiane che hanno partecipato alla querra di liberazione; dal presidente dell'Associazione nazionale combattenti e reduci; dal presidente dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia e dal presidente dell'Istituto storico della Repubblica sociale italiana, nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del ministro della Difesa».
Si prevedono, tra le altre cose, «200 milioni di euro l'anno, a decorrere dal 2009», di «adeguamento pensionistico», compreso quello per l'«assegno supplementare spettante alle vedove». E siccome tali risorse non erano previste né nel dispositivo di bilancio di quest'anno né nella legge finanziaria triennale che resterà in vigore fino al 2011, si dà mandato al ministro dell'Economia e delle Finanze di «apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio».
Ci assale un forte dolore al centro dello sterno, non solo per tutte quelle creature "passate per il camino" che sarebbe bene continuare a elencare una per una in nome di quella pretesa "memoria condivisa", ma per un ricordo preciso: quello di 31 ragazzi tra gli 11 e i 25 anni impiccati agli alberi del corso centrale di Bassano del Grappa il 26 settembre 1944. I responsabili, tedeschi e italiani, non sono mai stati processati.
L'immagine è tra le più raccapriccianti nella storia degli eccidi compiuti in Italia non solo dai nazisti ma anche da italiani contro italiani, al comando del vicebrigadiere delle SS Karl Franz Tausch, il boia di Cornaiano.
Trentuno corpi di giovani senza vita che penzolano dagli alberi del lungo viale di Bassano. Un impiccato per ogni albero, con i piedi che strisciano a pochi centimetri dal suolo, le mani legate dietro alla schiena, sul petto un cartello con la scritta "bandito". Lasciati lì, appesi per un giorno intero, senza diritto alla sepoltura, impedendo la riconsegna dei corpi martoriati alle famiglie, in segno di spregio e per terrorizzare la popolazione.
Amen per tutte le anime morte, colpevoli e innocenti.

Business da 3 miliardi sulla pelle degli animali

le schifezze Zoomafia 2008: le schifezze degli "umani" sui non "umani"

Gemma Contin
E' un film degli orrori questo Rapporto Zoomafia 2008 pubblicato dalla Lav ed elaborato da Ciro Troiano, responsabile dell'Osservatorio nazionale sui reati contro gli animali della Lega AntiVivisezione.
Il testo, esatto e impietoso, e i numeri dello "scannatoio" che si compie ogni anno in Italia, la dicono lunga sulla bestialità degli "umani" contro gli altri esseri viventi "non umani".
Nel nome del business, non importa quanto illegale o quanto legittimato dalla "domanda del mercato", si compiono infatti pratiche di sfruttamento, di violenza, di tortura, con un sovrappiù di cattiveria o di indifferenza, nei confronti di bestie e bestiole troppo spesso indifese e in balìa dell'incultura, dell'inciviltà e consentite dall'assenza di leggi abbastanza punitive da rappresentare deterrenti efficaci all'accanimento che si va perpetrando su ogni tipo di creatura.
Ad opera prima di tutto della criminalità organizzata, che proprio nelle pieghe dei traffici illeciti riesce a trarre, sulla pelle degli animali, è il caso di dire, e infliggendo loro il massimo di efferatezza e di sofferenza, i suoi sporchi sanguinari guadagni.
I dati forniti dalla Lav vanno riportati così come sono, perché parlano più di tante parole che possono essere spese sull'argomento.
Scrive Ciro Troiano: «Le corse clandestine di cavalli e le infiltrazioni criminali nel settore dell'ippica si confermano i campi in cui la criminalità organizzata sembra concentrare sempre più il suo interesse: un "settore" che da solo produce un business stimato in circa un miliardo di euro. Nel 2007 sono state bloccate dalle forze di polizia otto corse illegali, sequestrati 114 cavalli, denunciate 231 persone e 30 arrestate. Le inchieste hanno portato anche al sequestro di un ippodromo, un maneggio, due stalle e oltre mille confezioni di farmaci e sostanze vietate usate per dopare gli animali coinvolti, drogati e costretti a correre su improvvisati e pericolosi circuiti stradali urbani.
«Nelle corse clandestine e nelle illegalità legate al mondo dell'ippica in genere, sono coinvolti clan di spessore criminale di primo livello, come i Casalesi, i Labate, i Santapaola, il clan mafioso del rione Giostra di Messina, i Nuvoletta, il clan Spartà della provincia di Messina, i Parisi, i Capriati e gli Strisciuglio di Bari, i Ferrera di Catania. 
«Grande preoccupazione desta il fenomeno della cosiddetta "Cupola del bestiame" e dei reati ad essa connessi, che vanno dalle truffe ai danni dell'erario della UE e dello Stato, al traffico illegale di medicinali; dal furto di animali da allevamento, alla falsificazione di documenti sanitari; fino al gravissimo reato di diffusione di malattie infettive, attraverso la commercializzazione di carni e derivati provenienti da animali malati.
«Un business con un fatturato annuo di almeno 400 milioni di euro, che in alcune regioni gestisce un vero e proprio mercato parallelo di carni e prodotti derivati, con la complicità di venditori disonesti e veterinari collusi. Solo nel 2007 sono stati circa 20 i veterinari denunciati e 11 arrestati nel corso di varie inchieste. Parallelo ma contiguo al mercato clandestino di carne è il fenomeno dell'abigeato, il furto di animali da allevamento, che in due anni ha interessato circa 200mila capi.
«Altro interesse della "Cupola" sono le sofisticazioni alimentari: dalle mozzarelle ottenute con cagliate importate dall'estero, alle fiorentine di falsa chianina; dai suini infetti, alle pecore alla diossina, al latte contaminato, ai falsi prosciutti di Parma, agli animali trattati con anabolizzanti e antibiotici. Casi emblematici: la Guardia di Finanza ha stroncato un traffico di prosciutti con marchi contraffatti e ha trovato tonnellate di prodotti agroalimentari "rigenerati" alla scadenza.
«Ci sono poi le accuse mosse a una banda di allevatori e veterinari collusi: vanno dalla somministrazione agli animali di medicinali guasti e di sostanze alimentari nocive o proibite, all'adulterazione contraffazione e commercio di sostanze alimentari; all'esercizio abusivo di professione sanitaria, falso ideologico, truffa aggravata, abuso d'ufficio. Macellavano animali ammalati di brucellosi, ovini e caprini soprattutto, falsificando i documenti di rintracciabilità degli animali: una delle attività della cosca Iamonte di Melito Porto Salvo.
«Tra i beni sequestrati al clan Labate di Reggio Calabria, invece, compaiono salumerie, macellerie, ingrossi di distribuzione di prodotti lattiero-caseari. Altri aspetti riguardano gli interessi che la criminalità organizzata manifesta nel ciclo di produzione della mozzarella di bufala, sul quale si impernia un sistema economico di rilevante valore. Si tratta di un fenomeno che vede l'interesse di clan camorristici, tra i quali il più tristemente noto è quello dei Casalesi, che esercita il controllo di tutta la filiera: dall'approvvigionamento dei foraggi alla produzione del latte; dall'attività casearia alla distribuzione ed esportazione del prodotto finito; all'imposizione di acquisto a punti vendita e ristoranti. E alle malefatte interne si associano quelle d'importazione, come le recenti inchieste sui prodotti alimentari di origine cinese hanno dimostrato.
«Assume sempre più i connotati dell'attività criminale organizzata il fenomeno del bracconaggio, che coinvolge non solo i bracconieri ma anche i trafficanti di armi modificate, coloro che affittano postazioni di caccia e coloro che commerciano gli animali, sia morti che vivi. Nei mercati abusivi di fauna selvatica, come quello di Ballarò a Palermo e di via Brecce a Sant'Erasmo a Napoli, ogni settimana sono venduti centinaia di uccelli, con un introito di circa 250.000 euro l'anno.
«Molto fiorente il traffico illecito di fauna esotica protetta, che interessa circa un terzo di quello legale, con un business quantificabile in circa 500 milioni di euro l'anno: avorio, pappagalli, tartarughe, ma anche caviale e farmaci cinesi contenenti sostanze derivanti da animali protetti.
«Questo è quel che è saltato fuori da bagagli intercettati dalla Guardia di Finanza alla dogana dell'aeroporto di Fiumicino appartenenti a immigrati provenienti soprattutto da paesi come Nigeria, Cina, Pakistan, Eritrea ed Etiopia.
«Ci sono poi nuove minacce alle specie rare provenienti dai traffici illeciti via internet, spediti direttamente a casa. Coralli variopinti, belli e costosi: un corallo di dieci centimetri si vende a 3-400 euro. In un sola operazione la Forestale ha sequestrato a Linate più di 100 chili di corallo proveniente dalla Germania e diretto nel napoletano. E' questo l'ultimo grido in fatto di commercio illegale, oltre ai rettili, fra le circa 30mila specie tutelate. Tra dicembre 2007 e gennaio 2008 il Corpo Forestale ha sequestrato due tonnellate e mezza di coralli vivi.
«Inoltre, in una sola operazione, ha sequestrato due caimani, 21 varani, 40 scorpioni giganti, due boa, un pitone albino, una ventina di tartarughe e una dozzina di ragni velenosi, parte del bottino di una banda di trafficanti di rettili colta con le mani nel sacco. Invece, oltre 400 borse e portafogli in pitone e coccodrillo, 10 pelli di pitone e 34 statuette di avorio di elefante provenienti da Senegal e Costa d'Avorio, sono stati intercettati nel porto di Genova dalla Dogana e dalla Guardia di Finanza.
«Il sequestro di oltre 800 cerotti contenenti ingredienti a base di leopardo e di musco (un piccolo cerbiatto che vive nelle zone montane del Nepal e del Pakistan), impiegati nella medicina tradizionale cinese, è il risultato di un'altra operazione. Oltre 160 chili di caviale sequestrato in tutta Italia per un valore di un milione di euro; 65 persone denunciate e 350 esercizi commerciali controllati. E' questo il bilancio della "Operazione Beluga" condotta dal Servizio Cites. Ma ci sono anche situazioni "particolari": nella vasca c'era un caimano dagli occhiali, lungo più di un metro, considerato tra le specie più pericolose. Sul balcone c'erano anche un gheppio e altri uccelli protetti: quattro cardellini, verdoni, verzellini e un fringuello. Il tutto in un'abitazione nel cuore del centro storico di Napoli, scoperto da un'operazione condotta dal Corpo Forestale dello Stato e dalle guardie volontarie della Lipu.
«Cresce il traffico di cani importati dai paesi dell'Est: circa 500 mila cuccioli importati illegalmente ogni anno in Italia. Stabile ma sempre allarmante il business legato alla gestione di canili "lager", strutture spesso sovraffollate e inadeguate sotto l'aspetto igienico sanitario e strutturale, e il business sui randagi, che garantisce agli sfruttatori di questi animali introiti stimati intorno ai 500 milioni di euro l'anno, grazie a convenzioni con le amministrazioni locali per la gestione dei canili.
«Rispetto ad alcuni anni fa il fenomeno della cinomachia (combattimenti tra cani) sembra ridimensionato, almeno per quanto riguarda le denunce presentate e le operazioni di polizia effettuate, dato che troverebbe conferma anche dalla diminuzione delle segnalazioni giunte alla Lav: meno di 15 (e di scarso rilievo investigativo) quelle ricevute nel 2007. Di contro, si sono registrate segnalazioni in zone nuove, nelle quali non si aveva notizia di simili casi. Non mancano aspetti peculiari, come un boss che combatte con un pitbull per dimostrare il suo valore.
«Infine, il mare, saccheggiato dalle organizzazioni criminali, muove un giro di affari annuo di circa 300 milioni di euro: dal traffico di datteri di mare o di ricci destinato al mercato clandestino di ristoratori compiacenti, all'uso delle "spadare" (reti lunghe anche 20 chilometri, al bando dal 2002, che fanno strage di pescespada e di specie protette come delfini, tartarughe, capodogli, usate ancora a centinaia). Nel 2007 sono state sequestrate più di 800 chilometri di queste reti, pari alla distanza tra Milano e Napoli.


29/01/2009

 

Balene uccise per gioco alle isole Feroe

Non sono commestibili, ma il massacro continua

Roberta Marino
Da alcune settimane sulle pagine di internet e via mail dilaga un appello-protesta che recita: "Vergogna in Danimarca: stop alla strage di balene". In realtà è doverosa una precisazione: non si tratta di Danimarca, bensì delle isole Fær Oer, arcipelago danese a sud dell'Islanda, dotate di un proprio governo (sono diventate una regione autonoma del Regno di Danimarca dal 1948) che stabilisce indipendentemente le regole della caccia.
La Danimarca, dal canto suo, non sostiene apertamente la caccia commerciale delle balene, ma la consente nelle isole Feroe e nella Groenlandia, sostenendo che parte del Regno danese non fa parte dell'Unione europea. Inoltre non si parla di balene in senso stretto ma di balene-delfino o meglio "balene-pilota" (cetacei della specie Globicephala melas, Famiglia Delphinidae) note anche come globicefali, che raggiungono la lunghezza di 5-7 metri e un peso di oltre due tonnellate.
Detto questo, su tutto il resto nulla da eccepire: si tratta di una vera e propria mattanza. E senza una reale ragione (non che una ragione possa renderla più giustificabile): la carne di questi cetacei, inquinata da tossine e metalli pesanti, non è conforme agli standard dell'Unione sugli alimenti per il consumo umano e quindi non commerciabile. Si tratta quindi di puro "divertimento": una strage che si perpetua ormai dal lontano 1709, nell'indifferenza e il silenzio generale.
La denuncia è arrivata dalla Sea Shepherd Conservation Society la società fondata nel 1977 dal Capitano Paul Watson, cofondatore anche di Greenpeace.
La macellazione - testimonia l'associazione - avviene a colpi di ascia, martelli e uncini trasformando le terse acque della costa in un mare di sangue. Gli animali, per natura miti e socievoli, si muovono in branchi numerosi solitamente composti da femmine con i piccoli. Attirati dai motoscafi che tendono a disorientarli si avvicinano alle baie in cerca di cibo e, una volta arenati a riva, vengono brutalmente uccisi dagli abitanti sotto gli occhi incuriositi perfino dei bambini che per l'occasione restano anche a casa da scuola e poi saltano, divertiti, sulle carcasse. Migliaia i cetacei uccisi (se ne contano almeno 2000 ogni anno) che gridano e si lamentano per le ferite mortali.
Nonostante le balene del Nord Atlantico siano considerate specie protetta dalla "Convention on the Conservation of European Wildlife and Natural Habitats", le Fær Oer hanno un proprio governo che stabilisce indipendentemente le regole della caccia: e che quindi consente questo orribile massacro.
Una strage che ricorda quello che avviene ogni anno al largo di Taiji in Giappone dove vengono uccisi circa 20.000 delfini destinati alle industrie alimentari e ai ristoranti o (i più "fortunati") ai delfinari e ai circhi acquatici.
Proprio il Giappone è tra i Paesi dove ancora continua la caccia alla balena, in barba al bando mondiale per scopi commerciali sancito nel 1986 con una moratoria dall'IWC, la Commissione Baleniera Internazionale. Con la scusa della caccia a fini "scientifici" la Norvegia, l'Islanda (dal 2006) e il Giappone uccidono (illegalmente) ogni anno almeno circa 1400 balene. Che finiscono poi nei piatti dei ristoranti.
Sono almeno due milioni le balene uccise nell'ultimo secolo: l'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura nel suo rapporto ha identificato 13 (delle 80 esistenti) specie di cetacei a rischio di estinzione, mentre di altre 39 non si hanno dati certi.
La cattura e l'uccisione avvengono in modo violento: l'arpione viene sparato da un cannone ed entra nel corpo della balena a una profondità di 30 centimetri per poi esplodere. L'arpione però non riesce sempre a uccidere la balena all'istante ma solo dopo mezzora o anche un'ora di lenta e atroce agonia.

Liberazione 08/01/2009

 

L'Europa autorizza gli hacker di Stato

 

Le polizie potranno «perquisire» i pc da remoto

 

Neanche il tempo di leggere sulle pubblicazioni ufficiali la nuova normativa, che subito, Germania e Inghilterra si erano già adeguate. Lasciando intuire così, che cosa potrà capitare da qui a breve nel vecchio continente.
Si parla di libertà, di diritto alla privacy. Si parla del diritto degli utenti della rete di continuare a fare quello che hanno sempre fatto senza essere spiati. Di più: senza il rischio che qualcuno distrugga le loro «difese», lasciandoli nelle mani di chiunque voglia rubare i loro dati, i loro numeri riservati.
Fantascienza? In realtà è più o meno questo ciò che ha deciso l'ultimo consiglio dei ministri europeo. Il vertice dei governi ha dato il «via libera» ad una serie di norme che consentono l' hacking di Stato , come già l'hanno chiamato. Che consente alle polizie di fare ciò che viene vietato ai pirati informatici.
D'ora in poi - anche se per essere precisi la normativa deve essere tradotta in ogni singolo stato in una legge che la recepisca -, d'ora in poi, si diceva, le polizie non dovranno più attendere l'autorizzazione dei giudici per poter «entrare» nei computer degli utenti. Basterà che dopo - ma solo dopo - spieghino ai magistrati di avere avuto fondati sospetti che quel computer fosse utilizzato per qualche crimine. Per fare un paragone (a proporlo è Liberty, una delle tante associazioni per la difesa della libertà in rete che è insorta contro questo provvedimento): è come se la polizia sospettasse che un automobilista fosse passato al casello autostradale senza pagare il pedaggio e decidesse, senza chiedere il permesso a nessuno, di sfondare la porta del suo garage, far saltare il lucchetto dell'auto e compiere una perquisizione fra i sedili. Di più: in quel caso, l'automobilista non potrebbe non accorgersi di essere nel mirino degli agenti. Nel caso di un computer invece no: l'utente sarebbe osservato, spiato, «perquisito» senza neanche avere il minimo sospetto.
Senza contare un problema ancora più rilevante. Come sa chiunque abbia avuto a che fare anche solo una volta con un pc, il controllo a distanza di un sistema operativo - controllo da remoto - non può avvenire senza l'autorizzazione di chi possiede le password. O meglio: normalmente può avvenire solo con il consenso del proprietario. Ma in realtà il controllo da remoto di un computer, senza che l'utente se ne accorga, è esattamente quel che fanno i pirati informatici. Che introducono un trojan nel pc, un virus dall'apparenza innocuo - esattamente come il cavallo dell'epopea omerica - che, magari nascosto dentro una e-mail, si installa sul computer. In una partizione nascosta, irraggiungibile. E da lì si attiva. Così, tramite questo trojan, qualcuno - da lontano - può controllare il computer.
Senza l'autorizzazione del proprietario, non esiste altro mezzo per «entrare» e prendere possesso di un pc. Dunque, tutto fa pensare che la polizia ricorrerà ai virus, ai trojan, per perquisire questi ambienti virtuali. Magari lo farà spedendo posta elettronica che nel titolo racconta tutto un altro tema.
Qualcuno, in queste ore, si è già sbizzarito pensando alle grandi case produttrici di software antivirus che spesso lavorano a stretto contatto di gomito con le polizie specializzate. Scambiandosi informazioni, dati e conoscenze. Ora invece probabilmente comincerà una «gara» a superarsi, in cui perderà solo l'ignaro utente.
Tutto questo avverrà, avverrà in Europa. E' solo questione di tempo. Anzi, in due paesi - come si è detto - non c'è più neanche tempo. Germania e Inghilterra, infatti, si sono subito - ben volentieri - adeguati alla nuova direttive. Hanno insomma già predisposto, o stanno predisponendo gli strumenti legislativi per varare l'hackeraggio di Stato. Al punto che il ministero degli Interni di Londra si è subito affrettato a spiegare che comunque saranno posti dei limiti, la polizia non avrà il potere assoluto e che, in ogni caso, ci sarà qualche forma di controllo. Nessuno comunque s'è sentito garantito da queste affermazioni. E così la rete sta studiando le forme possibili di mobilitazione. Si deciderà a giorni.
s.b.


Liberazione 08/01/2009

 

Pubblichiamo il documento contro l'aumento dell'età pensionabile per le donne sottoscritto da donne della sinistra

lunedì 12 gennaio 2009

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Ci opporremo in ogni modo all’innalzamento dell’età pensionabile per le donne. Una misura che non è affatto obbligata dalla recente sentenza della Corte europea di giustizia, a cui pure si è arrivati per gravissima responsabilità del II e III governo Berlusconi, che hanno risposto con omissioni o non hanno risposto affatto alle richieste di chiarimenti sulla legislazione vigente nel nostro paese.
L’innalzamento dell’età pensionabile per le donne sarebbe una scelta profondamente ingiusta nei confronti delle donne e regressiva per l’intera società. Inaccettabile rispetto alla situazione esistente, inaccettabile rispetto al futuro che vogliamo costruire.

 

https://home.rifondazione.it/xisttest/images/pensione_donne.gif

Ci opponiamo perché:

1. Tutto il dibattito pubblico è viziato dall’occultamento voluto di un dato che, se fatto valere, avrebbe determinato con ogni probabilità un esito diverso anche del contenzioso con la Corte di Giustizia. Le donne nel nostro paese, infatti, non sono “costrette” dalla normativa esistente a andare in pensione a 60 anni. Possono farlo se lo scelgono. Secondo l’articolo 4 della legge 903/77, una legge che esiste da ben 31 anni “Le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative”.

Non si può configurare dunque nessuna discriminazione, ma solo una possibilità, un’opportunità positiva. Che le colpevoli omissioni dei governi Berlusconi producano come esito, l’obbligo di andare in pensione più tardi, questo sì, sarebbe punitivo e discriminatorio. Che il ministro Brunetta rilasci interviste pubbliche che falsificano i dati di realtà, questo sì, è politicamente e moralmente inaccettabile.

2. “Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” diceva Don Milani. Questa considerazione tanto elementare quanto decisiva, non serve per perpetuare l’esistente, come strumentalmente viene sostenuto da molti. Serve all’opposto per obbligare a riconoscere le disuguaglianze e a fare scelte che non le aggravino ma all’opposto operino positivamente per rimuoverle. La vita delle donne nel nostro paese è gravemente segnata dal persistente assetto patriarcale dello stato sociale. L’asimmetria tra i generi è tra le più aspre su scala europea. L’Italia è penultima in Europa per occupazione femminile, la precarietà colpisce in maniera accentuata le donne, il differenziale retributivo medio rispetto agli uomini è del 23%. Concorrono a questa situazione più motivi: l’inadeguatezza e il sottofinanziamento complessivo dello stato sociale, insieme a un contesto culturale e simbolico che, più che altrove, perpetua l’inferiorizzazione delle donne dentro la tradizionale divisione di ruoli nella famiglia. L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro è avvenuto senza che la società nel suo complesso abbia messo in discussione la divisione sessuata tra la sfera della produzione e la sfera della riproduzione biologica, domestica e sociale. Senza che si sia operato dunque né per la necessaria redistribuzione del lavoro, della responsabilità e del tempo della cura nè per l’altrettanto necessario sviluppo della rete dei servizi. Le conseguenze sono pesantissime. Il lavoro, il reddito, i percorsi contribuitivi delle donne restano accessori e supplementari. Il 20% delle donne lascia il lavoro alla nascita di un figlio, il 60% nella fascia di età tra i 35 e i 44 anni è costretta a ridursi l’orario di lavoro per prendersi cura dei figli minori. Il 77% del lavoro domestico e di cura è a carico delle donne. Una divisione di ruoli particolarmente rigida, rimasta pressoché invariata negli ultimi vent’anni. Secondo l’Istat, il tempo dedicato dagli uomini al lavoro familiare è cresciuto di 16 minuti in 14 anni. In questa situazione l’innalzamento dell’età pensionabile, non farebbe altro che rendere ancora più insostenibile la vita di tante donne.

3. A questa situazione si può porre rimedio solo con la riqualificazione e l’espansione dello stato sociale, portando la spesa sociale complessiva al livello della media europea e con la ripresa di una stagione di lotte per i diritti, la libertà e l’autodeterminazione delle donne, come fondamento di un diverso modello sociale più giusto e solidale.

Il governo Berlusconi dal suo insediamento ha messo in atto politiche opposte, segnate dall’ulteriore erosione delle protezioni e dei diritti civili e sociali, mercatiste e familiste al tempo stesso. Ha abolito la legge 188 che eliminava la pratica dei licenziamenti mascherati da dimissioni e ha precarizzato ulteriormente il lavoro. Ha tolto risorse ai centri antiviolenza. Ha eliminato le misure di contrasto a evasione e  elusione fiscale, la cui entità nel nostro paese è la vera ragione del sottofinanziamento dello stato sociale. Ha programmato per il triennio 2009-2011 tagli pesantissimi per la sanità, per i comuni e le regioni, per l’istruzione. Ha tagliato il fondo per le politiche sociali, abbandonato il disegno di legge sulla non autosufficienza e previsto per il 2010 l’azzeramento del fondo relativo. Ha attaccato il lavoro pubblico.


L’obiettivo dichiarato nel Libro verde del ministro Sacconi è quello di privatizzare sanità, assistenza, formazione. Quello stesso Libro verde in cui sta scritto che si dovrà valutare “la necessità di promuovere un ulteriore innalzamento dell’età di pensione” anche per gli uomini. E in cui si chiede alla famiglia, cioè alle donne, di diventare un “soggetto virtuoso”.

La volontà di aumentare l’età pensionabile per le donne non è la conseguenza della sentenza della Corte di Giustizia, è parte integrante di un disegno sessista e classista, della volontà di fare regredire gravemente la qualità della vita e delle relazioni di donne e uomini, i livelli di civiltà guadagnati e ancora da guadagnare dalla soggettività politica e dalle lotte delle donne.

Per adesioni: donnescelgono@libero.it Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Lidia Menapace, Luciana Castellina, Roberta Fantozzi, Daniela Alfonzi, Imma Barbarossa, Sabina Bigazzi, Rosa Calderazzi, Lidia Campagnano, Maria Grazia Campari, Giovanna Capelli, Elena Casagrande, Eleonora Cirant, Eliana Como, Elena Del Grosso, Rossana Dettori, Titti Di Salvo, Angela Di Tommaso, Erminia Emprin, Maria Paola Fiorensoli, Eleonora Forenza, Haidi Giuliani, Rita Guglielmetti, Donata Ingrillì, Betty Leone, Donatella Linguiti, Monica Lanfranco, Lia Losa, Graziella Mascia, Manuela Palermi, Franca Peroni, Rosangela Pesenti, Barbara Pettine, Sabina Petrucci, Silvana Pisa, Marilde Provera, Patrizia Quartieri, Franca Rame, Rosi Rinaldi, Angela Ronga, Alessandra Salvato, Linda Santilli, Anita Sonego, Gabriella Stramaccioni, Marina Toschi, Katia Zanotti.

Emmanuel, caso (quasi) chiuso. Pestaggio razzista, ecco la foto

 

 

di Beatrice Macchia

su Liberazione del 16/01/2009

Parma, quattro vigili ai domiciliari. Il pm: il Comune non ha collaborato

Quattro vigili urbani ai domiciliari, dieci sospesi dal servizio, una macabra foto-ricordo che mostra il ventiduenne ghanese Emmanuel Bonsu, l'occhio pesto e l'espressione umiliata, obbligato a posare accanto ad uno dei suoi aguzzini, nella stanza del comando dei vigili urbani di Parma.
Appaiono chiarissime le responsabilità dei vigili parmensi indagati per aver picchiato e sottoposto a sevizie il giovane Emmanuel, scambiato per un pusher il 29 settembre scorso mentre camminava in un parco e dunque trascinato al comando dove venne sottoposto ad un violento interrogatorio, che incluse frasi razziste del tipo: "Sei solo un negro" e "Scimmia confessa". Al rilascio, i vigili gli consegnarono una cartellina con i documenti che lo riguardavano e una scritta "Emmanuel negro".
Per timore di inquinamento delle prove, da martedì si trovano agli arresti domiciliari quattro degli indagati: Mirko Cremonini, Pasquale Fratantuono, Marcello Frattini e Ferdinando Villani. Gli altri sei colleghi - tra i quali l'ispettrice Stefania Spotti e il commissario Simona Fabbri -rimangono a piede libero, ma sono sospettati di depistaggio: appena il sindaco Pietro Vignali ha saputo degli arresti imminenti, martedì pomeriggio, ha sospeso tutti gli agenti.
Si avvicina la chiusura degli indagini e la naturale richiesta di rinvio a giudizio, che verrà formulata dalla pm Roberta Licci. Pesantissime le accuse: sequestro di persona, percosse aggravate, calunnia, ingiuria, falso ideologico e materiale, violazione dei doveri d'ufficio e abuso di potere. Al terribile "carnet" si aggiunge anche l'aggravante di discriminazione razziale. Il procuratore capo Gerardo Laguardia denuncia un clima di sostanziale omertà all'interno del corpo di sicurezza urbana di Parma: nessuno degli agenti ha mai voluto rendere una dichiarazione, mentre lo stesso Laguardia ammette che il Comune non ha collaborato attivamente alle indagini. La vicenda assume contorni spiccatamente politici: la minoranza, composta da Pd, Italia dei Valori, Prc e Altra Politica, torna a chiedere con insistenza le dimissioni dell'assessore alla sicurezza Costantino Monteverdi: «La vicenda di Emmanuel Bonsu non costituisce semplicemente uno sviluppo dell'indagine penale. Rappresenta, al contrario, un evento di indiscutibile rilievo politico, perchè conferma l'oggettiva gravità dell'episodio anche sotto il profilo delle responsabilità amministrative e politico- amministrative» scrive l'opposizione in una nota che suggerisce con forza anche una riforma del corpo di Polizia Municipale.
Tra le carte della Procura spunta inoltre una denuncia presentata da uno dei vigili urbani implicati nel pestaggio razzista, nei confronti del padre del ragazzo, Alex Osei Bonsu, che il giorno dopo l'arresto di Emmanuel si era recato al comando per chiedere spiegazioni sull'occhio nero. Secondo Alex, in caserma i vigili lo maltrattarono verbalmente consigliandogli di andarsene senza fare troppe domande e lui, esasperato, si era allontanato urlando "Ve la faccio pagare". Questa frase ha spinto uno dei vigili a sporgere denuncia per calunnia e ingiuria.
Per mesi il comando dei vigili urbani aveva minimizzato la vicenda di Emmanuel. Soltanto il 24 dicembre scorso il sindaco Vignali aveva ritenuto opportuno fare visita al ragazzo e alla sua famiglia. I Bonsu vivono a Parmi da molti anni: il padre è operaio, la madre fa le pulizie. Emmanuel è iscritto all'istituto tecnico e fino a qualche tempo fa prestava servizio come volontario in una comunità antidroga. La storia del pestaggio ha indignato la società civile di Parma, già scossa dal processo Tanzi. Ora non è soltanto Antonio Mattioli, segretario nazionale Flai Cgil, a chiedere che il primo cittadino parmense chieda pubblicamente scusa al ragazzo.

Per Liberazione

di Dino Greco

Mi accingo con salutare preoccupazione a dirigere questo giornale. Lo farò con tutto lo scrupolo, la passione, la dedizione che sono dovuti. A maggior ragione di fronte alle difficoltà politiche, economiche, ambientali dentro cui si consuma il passaggio di responsabilità. Per chiarezza verso i lettori e per il rispetto nei confronti di quanti hanno fortemente contrastato questo esito, voglio subito rendere esplicito ciò che penso. Non ha alcun fondamento il timore che il giornale si trasformi in una sorta di instrumentum regni del partito, gestito con furore censorio da un commissario, custode dell'ortodossia. Se questo fosse stato mai il criterio che ha ispirato la proposta, la scelta del sottoscritto non avrebbe potuto essere più inadatta.

Non è questo che mi è stato chiesto e non è certo con questo spirito che ho accettato. Una cosa non potrà aver luogo: che il giornale persegua con metodo lo scioglimento del suo editore perché con tutta evidenza questo genererebbe un cortocircuito letale. Una cosa è la dialettica, la polemica ruvida; una cosa è la difesa della libertà di espressione di cui si nutre ogni vitale processo creativo, un'altra è l'attacco frontale alla stessa ragione di esistenza del partito, dipinto come un'accolita di nostalgici adoratori di icone ideologiche, orfani di pensiero critico, «orticello avvizzito» che fa strame del «grande sogno di Rifondazione Cominista».
C'è una pessima abitudine, a sinistra: quella di indicare in coloro che ti sono più prossimi i colpevoli di ogni disastro e, contemporaneamente, di assolvere se stessi da ogni responsabilità ritenendosi in ogni stagione depositari esclusivi del giusto e del bene.
Dubito che questa compulsiva propensione a forgiare la caricatura dell'altro per infilzarne meglio il fantoccio abbia mai prodotto alcunché di positivo. Essa ha semmai alimentato smarrimento, senso di frustrazione, abbandono. La prima cosa da fare è interrompere la circolazione dei veleni, finirla con la reiterazione di una querelle introflessa, del tutto priva di produttività politica. Per invece seguire, sostenere, offrire visibilità ai luoghi, alle esperienze di lotta sociale, alle pratiche di riorganizzazione della democrazia dal basso.
C'è un tema di fondo, da prendere di petto: è la sciagurata rimozione del lavoro dalla stessa cultura della sinistra, vale a dire del terreno dove si gioca, si vince o si perde la battaglia decisiva. Una sinistra che non ricostruisca lì le proprie radici dà per persa la questione di una rappresentanza politica del lavoro e la sostituisce con un confuso, proteiforme opinionismo che ha per luogo di elezione la ribalta mediatica, droga dispensatrice di illusioni e di gratificazioni narcisistiche. Quando subisci la seduzione di queste sirene puoi chiamarti (oppure no) comunista, ma è certo che di quella ispirazione rimane solo una messa cantata.
Smarrita ogni capacità di lettura dei processi, si finisce per approdare ad un confuso eclettismo, dove tutto si compone e si scompone a piacere, dove ogni piano della realtà è disordinatamente sovrapposto all'altro: "modernamente" ci occupiamo di tutto, senza capire (e senza cambiare) niente. Occorre stare dentro le contraddizioni sociali, comprenderne le dinamiche, la materialità. Farlo con competenza, attraverso un sistematico lavoro di inchiesta, per immersione. E rimettere radici nel territorio, spazio pubblico di potenziale saldatura fra le lotte del lavoro e quelle per i diritti di cittadinanza, fra sindacale e sociale, fra economico e politico. O lo facciamo - e su queste rinvigorite gambe costruiamo una pratica ed una proposta - oppure saranno Berlusconi e la Confindustria a dettare le vie d'uscita dalla crisi, in alto a destra, vale a dire con più ingiustizia e con un definitivo tracollo democratico.
Inoltre, ci occuperemo dell'ecatombe ecologica generata dal modo di produzione capitalistico, per costruire una critica del modello di sviluppo: metteremo a tema "il come e il quanto produrre", quale senso restituire al lavoro sociale. Ci mobiliteremo senza soste contro la guerra, per la pace, per il disimpegno dell'Italia dalle missioni militari, per una politica di disarmo e di riconversione dell'industria bellica. Ci batteremo su altri due fronti: contro l'omofobia e il patriarcato, la forma più antica e perdurante di oppressione, quella di genere, e contro ogni discriminazione. Da quella legata alle propensioni sessuali, al verminaio razzista che ha contaminato in profondità gli strati popolari trovando a sinistra un debolissimo contrasto. Uguaglianza e libertà, indissolubilmente legate, formeranno l'ispirazione della nostra ricerca e del nostro lavoro.
E' questo un programma politico? Si, è un programma politico. E' compito di un giornale farsene carico? Di questo giornale lo è. Si esaurisce qui ogni campo di ingaggio, proposta, impegno culturale? No. Questo non è tutto, ma ne è il centro. Oggi Liberazione vende circa 6.000 copie al giorno. Proprio poche. Non è certo solo per responsabilità proprie, ma è chiaro che - a dispetto dell'impegno di chi lo produce - l'impatto del giornale sulla società è del tutto modesto. Ed è piuttosto difficile sostenere che alla residualità del gradimento sociale corrisponda un grande lievito culturale e politico. Capita talvolta che quando il divario fra le ambizioni e la realtà è grande si provi a colmarlo con un diluvio di parole. Ma è un'operazione consolatoria e lascia il tempo che trova.
Dobbiamo uscire dalla nicchia in cui ristagnamo e fare un giornale che entri in risonanza con la nostra gente, un giornale di cui i lavoratori, le lavoratrici, gli sfruttati, i poveri, le persone umiliate dalla discriminazione e dalla sopraffazione avvertano l'utilità e in cui possano trovare una sponda sicura per uscire dalla solitudine e per organizzare il proprio riscatto.

  

La mia Liberazione senza Grandi Fratelli

di Daniela Preziosi

su Il Manifesto del 16/01/2009

Parla Greco, neodirettore del giornale Prc: devo triplicare le copie

Ci ha pensato venti volte prima di accettare. Sa che la sua strada è solo salita. Bresciano, ex segretario della camera del lavoro, 56 anni, non giornalista. Iscritto Prc da dopo il congresso di Chianciano, con una lettera al segretario: «Ora che non ci sono più posti da spartire vengo con voi». Invece Paolo Ferrero un posto a Dino Greco l'ha trovato. Un posto che nessuno vuole: da oggi firma la Liberazione del post-Sansonetti. Con i sacchetti di sabbia in redazione, i giornalisti «strettamente» attenuti al contratto e che rispondono al vicedirettore, Fulvio Fania, giornalista professionista. «Eh no», replica lui: «Ho una lettera dell'Ordine dei giornalisti, dice che sono iscritto all'albo provvisorio e posso fare il direttore responsabile. Poi certo, avevo bisogno di uno bravo che conoscesse la macchina del giornale, come Fulvio».


I tuoi redattori ti considerano un commissario politico.

Spero di convincerli che il modo migliore per difendere il giornale e chi ci lavora è far uscire un giornale forte, che entri in risonanza con la nostra gente. Un giornale che si autoindebolisce in una lotta fratricida è più facile che finisca per estinguersi. L'ho detto al comitato di redazione, e al di là dello spartito che debbono suonare mi pare che ci siamo capiti: Liberazione non sarà un bollettino di partito, gestito con furore censorio da un commissario custode dell'ortodossia. Tutta la mia vita, che nessuno ha il dovere di conoscere per carità, è stata all'opposto. Se il Prc cercava un commissario, la scelta non poteva essere più sbagliata. E non mi è stato chiesto questo.


Cosa ti è stato chiesto?

Una cosa, che condivido: il giornale non persegua lo scioglimento del suo editore.


È quello che Ferrero ha contestato a Piero Sansonetti. Lo pensi anche tu?

Una cosa è la dialettica, la polemica ruvida, la difesa della libertà di espressione di cui si nutre ogni vitale processo creativo. Altro è l'attacco frontale al partito. Da lettore, penso che il giornale abbia parteggiato molto per una parte. Mi fermo qui, non sono il giudice del lavoro di Sansonetti.


Sansonetti dice di aver fatto un giornale «strano», aperto alle tante e diverse culture. Tu continuerai a farlo strano?

Liberazione vende 6mila copie. A dispetto dell'impegno di chi lo produce, l'impatto è modesto, ed è difficile sostenere che alla residualità sociale corrisponda un grande lievito culturale e politico. Quando il divario fra le ambizioni e la realtà è grande, si prova a colmarlo con un diluvio di parole. Ma è autoconsolazione. Dobbiamo uscire dalla nicchia in cui si ristagna. Facendo un giornale in cui i lavoratori, le lavoratrici, gli sfruttati, i poveri, le persone umiliate dalla discriminazione, costrette alla solitudine avvertano l'utilità e possano trovare una sponda per il loro riscatto e per la loro autorganizzazione. Non è il partito che lo chiede, semmai è il giornale che vuole riaccendere questa connessione sentimentale per sviluppare la sua missione autonoma e rendersi utile a un processo di trasformazione e cambiamento. Per me c'è un tema da prendere di petto: la rimozione del lavoro dalla cultura della sinistra ha determinato contagi insospettabili. Quello del lavoro è il terreno in cui la sinistra vince, o perde, la battaglia decisiva. E una sinistra che non ricostruisce lì le sue radici, dà per persa la rappresentanza politica del lavoro. Quando questo avviene, la sostituzione è con un confuso proteiforme opinionismo che ha per luogo di elezione la ribalta mediatica, il teatrino, il talk show, dove pensi di stare al centro del mondo e invece sei al centro di niente. Una droga dispensatrice di illusioni e gratificazioni narcisistiche.


Traduco: non avresti fatto scrivere che la vittoria di Luxuria all'isola dei famosi è paragonabile a quella di Obama.

No. Ma non facciamo macchiette. Io sto parlando di un giornale utile ed efficace.


Luxuria vi ha detto addio. Le firme dell'inserto Queer resteranno?

Nessun obbligo e nessun ostracismo. Arriveranno le voci delle pratiche sociali e dei movimenti, che non valgono meno. E poi ci sarà un gruppo consistente e qualificato di intellettuali. Queer si è autochiuso. Ma la questione è: se smarrisce la capacità di lettura unitaria dei processi, non univoca, finisci in un confuso eclettismo dove tutto si compone e scompone a piacere. Modernamente, ci si occupa di tutto senza capire né cambiare niente.


Potresti avere presto un editore che rappresenta una di queste culture che ha attraversato la Rifondazione, la psichiatria del professor Fagioli.

Ho chiarito all'editore che non accetterò di compilare qualche foglio all'interno di un involucro confezionato da altri. Nessuno spacchettamento, il giornale non avrà pezzi autonomi.


Accetteresti un articolo che dice, o suppone, che l'unica sessualità 'normale' è quella fra un uomo e una donna?

Assolutamente no. Saremo il giornale che farà la lotta contro l'omofobia e contro il patriarcato, la forma più antica e perdurante di oppressione, quella di genere.


Farai una ristrutturazione lacrime e sangue come l'editore chiede?

La condizione che ho messo all'editore è di essere coinvolto sui futuri sviluppi dell'assetto proprietario. Sono anch'io, ora, un dipendente del giornale. E non mi dimentico di essere stato un sindacalista. Certo, abbiamo un problemino di tre milioni di euro, e i conti vanno fatti quadrare. Non puoi chiedere che un partito muoia per far vivere un giornale. Ma la migliore risposta è fare un buon piano editoriale e industriale per triplicare le copie. Se non ce la facciamo, tutto il resto, come dicono i miei compagni emiliani, sono pugnette.

Avanti i meritevoli, ecco il modello azienda

di Tonino Bucci

su Liberazione del 18/01/2009

A colloquio con Edoardo Sanguineti

Addio ugualitarismo, viva la meritocrazia. Questo sarebbe lo slogan più efficace per riassumere il condensato filosofico di un inserto pubblicato sul giornale di Confindustria, Il Sole 24 Ore. «Appare tramontata un'idea egualitaristica sul lavoro: nei suoi confronti primeggia nettamente un orientamento volto a garantire pari opportunità a tutti in fase di partenza, poi però ciascuno deve darsi da fare autonomamente. Gli fa eco un atteggiamento meritocratico, mentre una visione egualitarista sul lavoro raccoglie poco più della metà dei consensi». Queste righe accompagnavano a titolo di commento i risultati di un sondaggio sui lavoratori dipendenti e sulla rappresentazione che questi hanno della loro professione (rapporto nazionale della Fondazione Nord Est). E, accanto all'essaltazione del merito e alla rottura delle tutele, non poteva mancare un attacco alla rappresentanza sindacale, dipinta come uno degli aspetti più vischiosi al cambiamento. Ci sono, in questi rapidi cenni, i capisaldi di una filosofia aziendalista, l'unica che le classi dirigenti mostrano d'avere dinanzi alla crisi economica. Si può riassumere così: dal collasso dell'economia reale si esce soltanto smantellando il sistema di regole e tutele universali dei lavoratori, a partire dal contratto nazionale. Come se una volta eliminata l'uguaglianza dei diritti potessero liberarsi i meriti personali. D'incanto si sprigionerebbe la creatività dei lavoratori e la produttività schizzerebbe in alto. "Meritocrazia" è una brutta bestia. E' la parola magica che ha accompagnato tutte le controriforme degli ultimi anni. Non a caso, anche la cosiddetta "riforma" della scuola trova la giustificazione ideologica nel voler smantellare un'università che non "premia i migliori". E quale sarebbe una scuola meritocratica? Una scuola dove per uno che passa, un altro non ce la fa. Una scuola improntata, per l'appunto, al modello azienda e a uno schema di competizione che si risolve in un gioco a somma zero: io vinco se tu perdi. La meritocrazia - che sia riferita al mondo del lavoro o a quello scolastico è lo stesso - è tutta ripiegata sulla dimensione individuale dove la misura del proprio successo è determinato dalla sconfitta altrui e viceversa. E' il contrario della cooperazione, tanto del sapere come impresa collettiva quanto del lavoro come opera sociale. Sta di fatto che negli ultimi anni la parola "meritocrazia" ha scavato nell'immaginario ed è entrata nel senso comune come l'unica ricetta possibile a un paese come l'Italia notoriamente afflitto da clientelismi e corporazioni. A Edoardo Sanguineti, scrittore, critico letterario e intellettuale storico della sinistra italiana, abbiamo chiesto di tracciare un percorso tra i termini della questioni, a partire dalla crisi economica e dall'invisibilità del lavoro per arrivare alla trasformazione delle università in fondazioni private.

Ogni volta che spunta una controriforma - si tratti dello smantellamento della scuola o delle tutele contrattuali del lavoro - salta fuori la filosofia della meritocrazia. E anche nel senso comune è passata l'idea che l'ugualitarismo, cioè la garanzia di diritti universali, sia sinonimo di piattume e depressione. Ma è proprio questa la via d'uscita alla crisi economica?
E' un vecchio problema. Il diritto formale borghese è fondato su questo principio: la legge sia uguale per tutti e poi vinca il migliore. Se vivessimo nel paese della cuccagna o in uno Stato dove non ci fossero distinzioni di classi, potremmo anche starci. Ma il guaio del diritto formale è proprio quello di prescindere dalle divisioni sociali ed economiche che in ultima istanza decidono delle nostre esistenze concrete. Se davvero tutti partissero alla pari la legge funzionerebbe splendidamente. Ma se invece c'è una parte della società che può permettersi di mandare i figli a frequentare l'università all'estero e un'altra no, se una parte può curarsi nelle migliori cliniche e all'altra questa possibilità è preclusa e via così di esempio in esempio, è evidente che c'è una condizione di ingiustizia. Sarebbe molto bello, per restare in tema di università, se tutti gli atenei funzionassero sul modello della Normale di Pisa. Lì si accede per concorso, quindi in base al merito. La Normale è un vero campus, si ha diritto a vitto e alloggio e si ha la possibilità di frequentare con agio tutti i corsi. Ma altra cosa è la trasformazione degli atenei in fondazioni private in concorrenza tra loro - che mi pare il principio ispiratore della riforma universitaria. La libertà di uno studente di scegliere l'università migliore è una libertà solo formale, sulla carta. Non tutti possono permettersi di andare a studiare in un'altra città e di sostenere il costo di una stanza vista la speculazione degli affitti nelle città universitarie. Si può filosofeggiare quanto si vuole sul merito e sulla bellezza delle fondazioni private, ma se non hai una famiglia che ti sostenga alle spalle non c'è nessuna libertà di scegliere l'università migliore.

Questa meritocrazia assomiglia molto alla competitività modello aziendale. Qualcuno vince perché c'è un altro che perde. E' la ricetta confindustriale: mettere i lavoratori in guerra tra loro. Non è così?
Abbiamo una Costituzione fondata sul lavoro che tutela chi produce. Ci stiamo allontanando da quella Carta. Si capisce che Confindustria invochi in nome degli interessi imprenditoriali il criterio del merito ma questo non è possibile in una situazione di ineguaglianze sociali. In questa società cominciano a essere in dubbio persino i diritti fondamentali a partire da quello della casa. Per anni le banche hanno comprato pezzi intere di città e hanno prestato denaro con molta disinvoltura fino al punto di strangolare le persone con l'innalzamento dei tassi dei mutui. Il risultato è la concentrazione della ricchezza nelle mani delle banche. Si può dire, senza forzature, che tutta la nazione sia ormai improntata al modello aziendale. L'azienda-Italia, per l'appunto. Ma la meritocrazia che sta al fondo di questa mitologia della produttività è il contrario della concorrenzialità. E', piuttosto, la via maestra al monopolio e alla concentrazione. Da un lato, calano gli investimenti e chiudono le fabbriche, dall'altro, aumentano gli sportelli bancari.

La crisi non è solo finanziaria ma colpisce anche l'economia reale. Scomparirà la decantata società dei ceti medi?
Sarà che sono un vecchio materialista storico ma mi pare che si restringe la base sociale della piccola borghesia. Il conflitto si restringe fra una élite di iperricchi e una massa di sventurati in difficoltà. La globalizzazione ha esportato in tutti i paesi precariato e instabilità dell'esistenza. Tutto il resto è mitologia. Tra questi due poli la piccola borghesia è schiacciata ed è destinata a sparire assieme a tutte le fantasie su una ipotetica terza forza. Non dimentichiamo che da questo gruppo sociale sono venuti in gran parte gli insegnanti delle scuole, di quelle elementari e medie soprattutto. La crisi della scuola è legata anche alla crisi d'identità di ceti medi e piccola borghesia. Anche quelli che una volta si chiamavano colletti bianchi non possono chiamarsi fuori dall'insicurezza generale. Anche un direttore di banca può essere spedito da un momento all'altro a dirigere una filiale in un'altra città abbandonando patria e famiglia. E se non accetta entra in esubero.

Nel senso comune è passata l'idea che l'uguaglianza opprime la libertà e impedisce a chi è creativo di emergere. Basta con le tutele per tutti i lavoratori e basta con la scuola uguale per tutti. Non è questo il messaggio predominante?
Continuo a fare riferimento alla Costituzione. L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. A me piace dire che il lavoro è la condizione centrale nella vita di ognuno. Fin da bambini compiamo un lavoro gigantesco per passare dalla condizione "naturale" a una condizione sociale che è la premessa per l'integrazione nella vita produttiva. Oggi l'etica del lavoro e l'universalismo dei diritti sono messi a dura prova. Quel che accade nella scuola è sintomatico. Pensiamo alla spinta del Vaticano perché lo Stato finanzi scuole private cattoliche. E' una filosofia che contraddice il principio costituzionale di una una scuola pubblica per tutti indipendentemente da provenienze sociali e culturali. E' come se proponessimo scuole elementari comuniste o rivendicassimo la presenza di insegnanti comunisti. Sempre per rimanere sul terreno dell'istruzione, un altro elemento che smantella il sistema dell'ugualitarismo è il conflitto tra dimensione nazionale e istanza regionalistica. D'accordo che le scuole abbiano l'autonomia di decidere il calendario di apertura e chiusura in base a esigenze locali, ma altra cosa è modificare i programmi nazionali. C'è una parcellizzazione dell'insegnamento, una regressione alle storie locali, si inventano genealogie che risalgono all'età della pietra. A tutto questo si aggiunge la precarizzazione degli insegnanti.

Da un lato c'è l'esaltazione dell'inglese, dall'altro andiamo verso una scuola chiusa sul localismo e le piccole patrie. Nella circolare Gelmini che sta per arrivare negli istituti scopriamo che scompare la seconda lingua comunitaria.Come sarà la scuola del futuro?
Mio dio, dove troveremmo tutti questi insegnanti per l'inglese? E poi quale inglese, quello che si parla in Australia o in Canada? Abbiamo già tante difficoltà per stabilire qual è l'italiano, se sia quello della televisione o degli sms o che altro. C'è poi questa visione utopica che sarebbero le famiglie a dover scegliere l'orario e se vogliono l'insegnante unico o no. Ma la verità è che le loro richieste non potranno essere garantite perché gli istituti non hanno né personale né risorse a sufficienza. A prevalere, al di là dei principi dichiarati, saranno i tagli. La crisi economica comincia a far sentire gli effetti anche a partire dalla scuola. E nella società si scatenerà una corsa al lavoro, quale che sia, non importa quanto bassa sarà la retribuzione. Questo significa che non vengono privilegiati i lavori qualificati o creativi, come ci raccontano. Un laureato, quando va bene, si accontenta di fare il custode in un museo. Magari in attesa di vincere un dottorato di ricerca. In questa situazione si sceglie di disinvestire e smantellare scuole e università. Questo sistema economico non ha bisogno di formare laureati. Il peggio è che queste politiche si ammantano del termine "riforma" che un tempo era una parola di sinistra. I conservatori oggi si presentano come innovatori.

Sulla canea di destra e di sinistra contro Santoro

Da www.ripensaremarx.plinder.com, 17 gennaio 2009

La canea di destra e di sinistra che si sta sollevando su Santoro è senza dubbio di gravità da non sottovalutare. Soprattutto speriamo elimini i dubbi di chi storce il naso quando si parla di lobbies assai pericolose. E se il termine lobbies non piace, si può usare quello di “gruppi di pressione”, accreditato “scientificamente” in qualsiasi manuale di sociologia e di scienza della politica, dei partiti, ecc.

Vorremmo per un attimo riandare ad un fatto di qualche tempo fa. Un presidente della Repubblica, Ministro degli interni, politico eminente della prima Repubblica – sto parlando di Cossiga – scrisse una lettera aperta pubblicata con enorme evidenza in ben tre pagine di Libero. In essa vi erano molte rivelazioni – e altre ne ha fatte Cossiga sia prima che dopo l’episodio che sto citando – ma riporteremo solo la seguente:

“Quando terroristi palestinesi tentarono – con missili terra-aria piazzati nei dintorni all'Aeroporto di Fiumicino – di abbattere un aeromobile civile israeliano dell'El-Al e furono arrestati, Moro intervenne personalmente sul presidente del tribunale, con la cortesia e la fermezza che gli erano proprie, e fece concedere ai terroristi la libertà provvisoria. All’uscita dal carcere vi erano agenti dell’allora Sid che prelevarono i terroristi appena scarcerati, li portarono in un aeroporto militare, li imbarcarono su un aeromobile DC 3 dello stormo dello Stato Maggiore, sigla ‘Argo’, quello di cui normalmente si serve la V Divisione e cioè ‘Gladio’ (mamma mia, ‘Gladio!’) e li spedì a Malta, da dove raggiunsero la Palestina. Arafat ringraziò. Fortunatamente Lei, dottor Spataro, era impegnato in un girotondo! Gli israeliani anni dopo ci risposero e fecero saltare in aria l’Argo: pari e patta”.

Ricordiamo anche che cosa fu il fatto dell’Argo:

“Il 23 novembre del 1973, alle sette del mattino, un aereo C47 Dakota dell’aeronautica Militare si schianta al suolo dopo essere decollato dall’aeroporto di Venezia. Il disastro provoca quattro morti, tra cui il Comandante Borreo, un pilota di grande esperienza, pluridecorato durante la Seconda Guerra Mondiale. Il nome in codice di quell’aereo è Argo 16, così chiamato in riferimento al gigante mitologico ‘Argo che tutto vede’. Il velivolo, infatti, svolgeva missioni speciali per il Servizio Segreto italiano interno alle forze armate ed effettuava le misure elettroniche nell’Adriatico contro la rete radar jugoslava”.

Si dirà che si tratta di “normali” operazioni nell’ambito della guerra tra servizi segreti. Se però qualcuno rivelasse i retroscena veri dell’assassinio di qualche Presidente della Repubblica o altro alto dirigente di Stato in giro per il mondo (mettiamo Kennedy o anche Sadat o la Benazir Bhutto, ecc.), non crediamo si leverebbe un silenzio di tomba. Invece è stato così per le rivelazioni di Cossiga. Su due-tre giornali si sono letti, per un giorno, trafiletti sulla richiesta rivolta dai familiari delle vittime dell’Argo alla Magistratura per una riapertura del processo, almeno ai fini di un risarcimento. Poi più niente; e di riapertura del processo neanche parlarne. Se invece che dal Mossad, l’atto criminale (spero si possa definire tale o siamo “faziosi” come Santoro?), di pura ritorsione contro lo Stato italiano, fosse stato compiuto da qualche gruppo arabo, figuriamoci che cosa si sarebbe scatenato! Il gruppo in questione sarebbe stato definito “terroristico” e ci si sarebbe lanciati in mille supposizioni, presentate come certezze, circa i mandanti: ovviamente un qualche “Stato canaglia”, come viene definito da chi compie atti canaglieschi del genere di quello citato e che è solo la punta di un iceberg gigantesco.

Chi ha viso il film Münich – non bello, ma certo interessante – ha ben imparato come questo Mossad si muova in modo molto inquietante. E se ha la libertà di fare quello che fa, è evidente che in vari paesi del mondo le autorità preposte alla protezione dei propri cittadini sono quanto meno assai poco vigili (oppure, ad esempio, i militari uccisi nell’abbattimento dell’Argo non erano considerati nostri concittadini?). Per spirito “laico”, dobbiamo considerare l’impunità di cui godono certi servizi segreti un puro effetto “di struttura”? O ci è consentito di parlare di una rete di lobbies (“gruppi di pressione”) che si diramano da un centro di irradiazione che si chiama Israele, e che gode del pieno appoggio del 99% (o preferite il 95%?) di un intero popolo (non solo degli abitanti in quel paese)?

Un commentatore di questo blog ha scritto che sente puzza di regime. Ci dispiace, sbaglia. Coloro che parlano di regime – sottinteso sempre berlusconiano, in quanto nuova versione del fascismo – li abbiamo visti, con le loro facce da debosciati, nella foto di Dagospia mentre manifestavano, mi sembra davanti a Montecitorio, in favore degli israeliani massacratori dei palestinesi di Gaza. Non c’è nessun regime berlusconiano in vista. Proprio Annozero ha mille volte aggredito, anche con accuse puramente personali e infamanti (nient’affatto dimostrate), l’attuale premier. Il quale ha protestato e ululato, ma prendendosi mille sberleffi da comici vari, sputacchi (metaforici) di ogni genere, mentre la sinistra difendeva a spada tratta Santoro e gridava all’attentato alla libertà di stampa e di opinione (come se gli insulti e le calunnie potessero essere considerati semplici opinioni).

Viene adesso illustrata in quella trasmissione non una sedicente ruberia o malversazione del Premier, ma un’aggressione vile e tale da fare ormai 1200 morti circa (e migliaia di feriti, dei quali molti moriranno) – un terzo dei quali bambini – contro 3 morti israeliani e poco più di una decina di feriti. Si è capaci di istituire un confronto con la rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine (dove non c’erano bambini a quanto ricordiamo)? Eppure si è scatenata una vera corsa al linciaggio di Santoro. Ci piace allora ricordare un’altra cosa. Quando, negli anni ’30, i nazisti compivano le loro malefatte, la maggioranza dei governi europei li condannava (almeno a parole), la maggior parte delle forze politiche europee si schierava contro di loro, la maggior parte dei giornali e radio li criticava. Israele compie invece i suoi misfatti con il più totale appoggio dei governi e delle opposizioni di tutto l’occidente, con l’orwelliana campagna di tutti i media occidentali che li compiangono in quanto aggrediti dai cattivi arabi. La situazione è decisamente peggiore che negli anni trenta nei confronti del nazismo.

Non si può criticare Israele perché si è subito antisemiti e complici dell’Olocausto avvenuto settant’anni fa. Intanto, ci permettiamo di notare un paio di cosette. Innanzitutto, la ridicolaggine dell’accusa di antisemitismo; oggi è antisemita chi fa subire l’Olocausto ai palestinesi che sono arabi (e gli arabi sono forse “puri ariani”?). Inoltre, noi siamo molto timidi e parliamo sempre dei crimini di Israele o al massimo del sionismo. Questi “signori”, appena li critichiamo, tirano in ballo l’Olocausto, che è stato subito dal popolo ebraico. Allora seguiamoli in questa loro precisazione: oggi è il popolo ebraico (“semita”) che sta opprimendo e facendo sterminio del popolo palestinese (altri “semiti”). Dobbiamo aspettare settant’anni prima di avere il diritto di protestare contro questo nuovo spirito di genocidio che pervade coloro che l’hanno dovuto sopportare sulla loro pelle appunto settant’anni fa?

Non è in effetti per nulla “storicamente strano” che i massacrati di ieri diventino i massacratori odierni. Quando ciò accade, non capiamo però perché si debba tacere e “abbozzare”. Eppure, non appena una qualche critica viene rivolta a Israele, apriti cielo! La Chiesa stessa e il Papa vengono presi a pesci in faccia. Non parliamo di D’Alema – di cui comunque non scorderemo mai il ruolo giocato nel 1999 – quando accenna al fatto che la reazione di Israele è “sproporzionata”. Violenti attacchi non solo da destra, ma dal suo stesso compagno di partito Fassino, che considera inaccettabili le dichiarazioni dalemiane, eguali del resto a quelle del segretario dell’Onu, anche lui redarguito.

E torniamo allora alla trasmissione Annozero. Quando Santoro e Travaglio – che stavolta ci si dice essersi schierato in senso nettamente filoisraeliano, e questa è una bella lezione per Santoro e per tutti i sinistri che inneggiavano a questo giornalista scandalistico e pettegolo in puro stile antiberlusconiano – attaccavano appunto il Premier in modo becero e volgare, si sono avute proteste da destra, ma non è successo nulla di particolarmente forte. Soprattutto, tutte le richieste di portare il caso davanti al Cda della Rai sono finite in nulla. Ecco perché riteniamo ridicolo parlare di regime; un regime va per le spicce, avrebbe già chiuso la trasmissione e mandato in galera o al confino autori e conduttori! Il presunto regime non ha fatto nulla di tutto ciò.

In quest’ultima occasione, invece, tutti d’accordo, da destra a sinistra. Interviene Fini – che si guarda bene dal difendere il Premier dagli attacchi; e possono andare a mangiare la spigola insieme finché vogliono, ma se capiterà l’occasione, “quattro pugnalate” al Berlusca non gliele cava nessuno – dichiarando che è un’indecenza e sollecitando bruscamente il “sinistro” Petruccioli, il quale risponde che è ancor più che un’indecenza e che convocherà d’urgenza il Cda per sanzioni contro questo vergognoso comportamento santoriano. Si scatena l’Ambasciatore israeliano e, come si fa con i bambini cattivi, dichiara: “che non si ripeta mai più”. E la sesta – anzi oggi quinta perché avremmo ri-superato la Gran Bretagna – potenza del mondo non ha nulla da dire, si comporta appunto come il bambino cattivo che china gli occhi e ubbidisce.

Qui non siamo in pericolo di regime, cari miei, ma di qualcosa di ben peggiore: sono in molti a rischiare la fine degli abbattuti con l’Argo, dei nemici eliminati con le tecniche che abbiamo visto nel film Münich; senza alcuna protezione da parte dei nostri organi di sicurezza. E allora chiediamo ancora: siamo in presenza si o no di una rete di lobbies o gruppi di pressione che promanano da uno Stato, il quale è il punto di concentrazione di praticamente tutto un popolo sparso nel mondo? Abbiate il coraggio di rispondere a questa domanda, cari i miei “comunisti” o “critici critici” del capitalismo, visto come un mostro onnicomprensivo e tutto eguale, che si tratti degli Usa (con il loro sicario Israele) o della Russia o della Cina, ecc. A questo punto diciamo con molta chiarezza che, in questo periodo storico, ci accontenteremmo della presenza, nel nostro paese, di una forza (ma appunto forte) di carattere apertamente nazionale, capace di difendere i suoi cittadini dalla rete di gravissime connivenze – di cui la reazione alla trasmissione di Santoro è un semplice “brufolino” – con chi compie azioni “illegali” (eufemismo) in ogni parte del mondo. Chi vuole il tutto – tra cento o mille anni – è complice di chi si vende allo straniero, di chi permette che qualcun altro comandi in casa nostra, abbatta aerei nei cieli italiani e magari, fra un po’, tolga di mezzo – direttamente od organizzando un “incidente” – quelli che non sono allineati con lui.

Diciamo allora altrettanto apertamente che, non solo non temiamo un regime di Berlusconi, ma rileviamo che costui non ha detto una parola su Israele-Gaza; e, in tal caso, non vale il detto “chi tace acconsente”. Semplicemente, c’è molta paura di fare una brutta fine. Però il “tipo” ha parlato chiaramente su Russia-Georgia, sulla non ammissione di Georgia e Ucraina nella UE, ecc. Il “tipo” sta appoggiando l’azione dell’Eni, che è diventata la chiave di volta – come già in altra epoca storica – di una nostra maggiore autonomia; non per economicismo, ma perché l’eventuale, e già previsto, accordo stretto tra Eni-Gazprom-Noc (libica) e magari Sonatrach (algerina) ha una valenza fortemente politica, di protezione di date sfere di influenza; e di difesa di una propria minima autonomia. Per queste azioni, il Premier si è preso attacchi non velati dalla “sua parte” (in specie dai postfascisti di An, i reazionari più disgustosi e pericolosi di tutti, vero tentacolo della piovra americo-israeliana in Italia) e dalla sinistra (quasi al completo) che lo ha accoppiato, nell’“infamia”, a Putin (mentre per noi è un onore essere appaiati a tale personaggio).

Poche balle, cari amicucci dalle idee “poche ma confuse”. Non è Berlusconi “il peggior di tutti i mali”; non è lui la principale longa manus delle lobbies e gruppi di pressione americo-israeliani. Questi si trovano nei posti più impensati, anche nella sinistra, anche nella gauche caviar, anche nei giustizialisti; oltre che in An, nella Lega ossessionata dall’Islam, in settori di forsennati forzaitalioti. E vogliamo adesso vedere quanti blog o siti citeranno questo nostro scritto; anche fra quelli che sono “tanto pietosi” per le sorti dei poveri palestinesi uccisi (soprattutto i bambini). Di buona fede ce n’è poca. E c’è molto da diffidare, anche dei più “virtuosi amici dei popoli”. Le lobbies (o gruppi di pressione) pagano bene e sono ultraminacciose.

PS Malgrado il battage pubblicitario – facilitato dal fatto che nessun giornalista può avvicinarsi alla Striscia di Gaza – non sembra proprio che Israele abbia raggiunto i suoi obiettivi. La Striscia è lunga 40 Km.; in 22 giorni si è realizzato soltanto un massacro di civili (un terzo dei quali bambini), ma non si è riusciti nemmeno a percorrere questa distanza minima, malgrado uno spiegamento di potenza di fuoco da “guerra mondiale”. Gli aggressori sostengono di aver colpito 2000 (duemila!) obiettivi strategici (strategici). Alla faccia!! In 40 Km., 2000 obiettivi del genere. Non ci si rende nemmeno conto di coprirsi di ridicolo oltre che del sangue di migliaia di morti e feriti. La sospensione “unilaterale” dell’aggressione copre il fatto che non è probabilmente stata affatto una passeggiata, e le perdite debbono essere state non proprio indifferenti così come ufficialmente dichiarato. Inoltre, perfino il segretario dell’Onu non si è potuto esimere dall’affermare che adesso occorre un preciso piano per il ritiro delle truppe occupanti; in barba agli accordi intervenuti tra le due donne di ferro (Livni e Rice). E dopo l’ennesima scuola dell’Onu bombardata con altri bambini morti, l’organizzazione internazionale ammette che simili azioni “potrebbero” configurarsi come “crimini di guerra”. Potrebbero? Lo sono, non siate così timidi o inutili organismi di “pura facciata”. Adesso, comunque, speriamo che la mattanza di civili – fatta passare per obiettivi strategici di Hamas distrutti – non riprenda. Perché l’importante è che non muoia altra gente.

 

Contro il malcostume nelle università non serve sparare nel mucchio

lunedì 19 gennaio 2009


di Fabio De Nardis
Responsabile Nazionale Università e Ricerca Prc-Se

Su “Panorama” del 15 gennaio, cogliendo l’occasione dell’uscita del libro di Davide Carlucci e Antonio Castaldo dal titolo “Un paese di baroni”, vengono pubblicati gli stralci di una discussione (tutt’oggi online) a cui partecipai lo scorso marzo sul blog della Rete Nazionale dei Ricercatori Precari in cui dibattemmo in maniera anche animata del malcostume imperante nelle università italiane. Fu una discussione molto intensa in cui ebbi modo di confrontarmi con la rabbia e la frustrazione dei nostri migliori cervelli ancora esclusi da un sistema inquinato. In quella circostanza si parlò anche della mia condizione di ricercatore “figlio d’arte” e quindi potenzialmente parte di quel sistema che a parole diciamo tutti di voler combattere.
Naturalmente “Panorama” pubblica una selezione ben congeniata di quella discussione per cercare di screditare, attraverso me, quel partito che oggi stiamo cercando faticosamente di ricostruire. Colpire un soggetto collettivo cercando di delegittimare la dignità di chi vi partecipa è un vecchio metodo fascista a cui i giornali della destra italiana sono piuttosto avvezzi. Mi riempiono dunque di gioia le decine di email di solidarietà ricevute proprio da parte di quei precari che allora parteciparono alla discussione e che oggi sono disgustati dalla strumentalizzazione di cui essi stessi si sentono vittime.

Dal giornale di Belpietro non mi sarei aspettato di meglio; mi spiace invece che due giornalisti bravi e di cultura democratica scelgano di pubblicare parte di quel dibattito assolutamente pubblico (dunque lo scoop dell’acqua calda) a conclusione di un libro che parla di altro e cioè dei tanti casi di truffa, abusi di potere e criminalità organizzata che si verificano negli atenei italiani. In questo senso il lavoro di Carlucci e Castaldo sarebbe in parte meritorio anche se crediamo che una battaglia contro certi casi di malcostume non si possa realizzare sparando nel mucchio, mostrando una triste subalternità alla cultura giustizialista e scandalistica oggi imperante nella società italiana.
La questione degli accessi all’università è un problema serio che va affrontato nell’ambito di una battaglia di sistema che sia in primo luogo battaglia culturale oltre che politica. Per questa ragione, nell’Onda, ci siamo battuti e ci battiamo contro le finte riforme della Gelmini che per nulla ledono certi abusi e anzi ne sollecitano la proliferazione. Io stesso avrei potuto tirarmi indietro da quel dibattito, come avrebbe fatto qualsiasi politico più prudente. Ma decisi di parteciparvi, trasferendolo anche sul mio blog personale, proprio per denunciare certe dinamiche. All’università tutti hanno un padre e una madre a prescindere dal cognome che portano. Poi per fortuna esiste anche una comunità scientifica (meglio se internazionale) che valuta i tuoi lavori in maniera spesso anonima e allora il merito (o demerito) di ognuno può emergere.
Dire che essere cresciuto in una casa di intellettuali mi abbia favorito in termini di conoscenze e competenze è quasi un’ovvietà. Per questo lottiamo per l’eguaglianza e ci spaventa chi parla a sproposito non di merito (che va sempre valorizzato) ma di meritocrazia, che presuppone la logica di un sistema competitivo in cui si trascurano le disuguaglianze di partenza di cui sopra; un sistema dunque in cui io, figlio di professore, o amico di professore, o protetto da professore, posso diventare professore, mentre altri sono destinati quasi per diritto naturale a rimanere fuori. Sono innamorato del mio mestiere almeno quanto lo sono della lotta per una società di eguali, l’uno e l’altra compongono la mia identità. Rivendicherò sempre la mia scelta politica, intellettuale e professionale che intrapresi in autonomia di giudizio. Ecco il grande privilegio di essere nato in quel contesto. A quindici anni avevo già gli strumenti per stabilire le mie aspirazioni. In fondo a tredici cominciai a fare politica tra i giovani del partito comunista.
Per questa ragione continuerò a lottare con le unghie e con i denti per una università di massa e di qualità fino a quando le mie compagne e i miei compagni, che sono la famiglia che ho scelto, riterranno opportuno che io possa e debba farlo. Per una università dove chiunque possa essere messo nelle condizioni di accedere alla conoscenza per riprodurre conoscenza. Perché così cresce una società democratica. Combatterò al fianco di studenti, ricercatori e docenti per una università dove nessuno sia pregiudizialmente escluso, né il figlio di professore, che non può essere privato della possibilità di fare lo stesso mestiere del padre o della madre per qualche strano vizio genetico, né il figlio dell’operaio a cui non deve essere negato il diritto all’emancipazione sociale. Sono certo che, con Rifondazione Comunista e attraverso la vitalità espressa dai movimenti, questo disegno utopico diventa una possibilità

Potremo scaricare legalmente? Forse, ma di certo non gratis

L'industria del Disco sembra cambiare rotta. Ma mancano alcuni passi e restano le perplessità

 

Sandro Podda


C'è una certa consonanza tra l'Industria Discografica e il Vaticano (e gerontocrazie simili). Entrambi, con le dovute proporzioni tra decenni e secoli, recepiscono i cambiamenti culturali e sociali alla stessa velocità di un simpatico bradipo che sale o scende su un albero. In questi giorni i Torquemada degli scaricatori dall'Internet, la RIIA (Recording Industry Association of America) e la Ifpi (la Federazione Internazionale dell'Industria Fonografica, federazione che tenne la sua prima conferenza a Roma nel 1933 sotto gli auspici dell'allora Confederazione Generale Fascista dell'Industria Italiana) hanno visto - sostengono - la Luce. O almeno così hanno annunciato negli Stati Uniti e in Europa: «Basta, non serve denunciare, è ora di aprirsi alla realtà del downloading dalla Rete». Questo più o meno il succo delle altisonanti dichiarazioni fatte negli Stati Uniti dalla Riia ed in Europa dalla Ifpi con le parole del suo presidentissimo John Kennedy (naturalmente non il redivivo JFK, ma l'avvocato che ha passato mezza vita a dirigere le più grandi major del mercato). Basta denunciare chi scarica musica dall'Internet, perseguitare con cause legali da migliaia di dollari ragazzini brufolosi, e non, che si scambiano brani, è ora di aprirsi a ciò che è già accaduto. Da tanto.
Circa 35.000 persone denunciate dalla sola Riia negli Usa, giudici federali che hanno bloccato molte di queste azioni legali, artisti che hanno sbattuto la porta delle major e scelto la Rete e soprattutto i numeri, ovvero il 95% della musica on-line scaricata da siti "illegali" di file-sharing, hanno instillato qualche dubbio finalmente nelle menti dell'Industria del Disco e una domanda: non è che ci potremmo guadagnare invece di svanire? Niente male come ammissione per chi quasi dieci anni fa si scagliò contro Napster ottenendo il solo effetto di farne migrare gli utenti su altri programmi. Il problema dell'Industria Discografica (nelle sue varie espressioni) è stato finora come guadagnarci e come continuare a legare a sé gli artisti quando il digitale ha reso agli stessi accessibile "in proprio" dal punto di vista artistico, economico e promozionale i maggiori passaggi della produzione e distribuzione di un disco, compresa la promozione. Le ultime fughe eccellenti (Radiohead da tempo, U2, l'annunciata di Prince per citarne alcune) sembrano infine avere incrinato l'atteggiamento persecutorio che la logica e il buon senso non erano riusciti a scalfire. O così sembra almeno.
Quello che Riia e Ifpi hanno gridato a mezzo mondo è infatti di aver trovato un accordo con gli Isp (gli Internet Service Provider, ovvero i fornitori di accesso alla Rete) su una sorta di tassa all'origine. Il calcolo è semplice da fare. Solamente ottenere un euro al mese da ogni persona che si fa un account fa circa 26 miliardi di euro l'anno. Semplice e lucroso, no? Mica tanto, visto che sentiti da Wired , gli Isp negano che un simile accordo sia stato firmato o, addirittura, ancora discusso. Il problema sembra essere innanzitutto che Riaa e Ifpi, che decisamente non sono attività caritatevoli, non si accontenterebbero affatto di un dollaro o un euro al mese per permettere alle persone di scambiarsi ciò che credono in Rete. Ostacolo non da poco se dovessero richiedere questa tassa all'origine a prescindere dal fatto che gli utenti scarichino o meno dalla Rete file protetti da copyright (attività, giusto ricordarlo, che accompagna l'umanità da ben prima dell'avvento del digitale). Questo inatteso, ma anche inevitabile, cambio di rotta porta con sé un po' di sollievo, ma anche delle perplessità. Si sarebbe preferito vedere scomparire realtà utili in gran parte semplicemente a perpetrare un establishment di dinosauri (molti dei quali già estinti come per metà i Beatles ma ancora oggi a pieno prezzo) e a propinare "novità" di qualità infima con la potenza del marketing. Ma è proprio qui che il giochetto si rompe. I passaparola e lo scambio sull'Internet sono ormai più virali della promozione per forza di cose generalista che può permettersi una major. E fortunatamente non strizzano molto l'occhio ai prodotti del mainstream. Per i quali, alla fine, potremmo essere costretti a pagare tutti una tassa in più sul nostro abbonamento.


Liberazione 21/01/2009

 

RIFONDAZIONE COMUINSTA, IL BUON INVESTIMENTO


Parte la due giorni straordinaria del tesseramento 2009. Un impegno grande per rilanciare il PRC, per una sinistra di classe e non genericamente tale


 

Investiamo tutti sul rilancio di Rifondazione comunista

di Claudio Grassi *

su Liberazione del 22/01/2009

Quando abbiamo deciso, il cinque dicembre scorso, di lanciare la campagna del tesseramento il 24 e 25 gennaio, non potevamo certo sapere che, in contemporanea, si sarebbe consumata l'ennesima scissione da Rifondazione Comunista.
Purtroppo, invece, è quanto avverrà. A Chianciano, infatti, una parte di quella che è stata la seconda mozione congressuale, deciderà di uscire dal nostro partito.
Credo sia una scelta profondamente sbagliata poiché, in nome della parola d'ordine di unire la sinistra e di fare un partito più grande, in realtà si divide la sinistra dando vita a un partito più piccolo di Rifondazione. Una scelta sbagliata, che rompe con il percorso di Rifondazione Comunista, determinando uno sbocco "moderato". Essa, infatti, ben lungi dall'essere sollecitata da movimenti o istanze di lotta, si incrocia a livello nazionale con un pezzo di Sinistra Democratica - quindi con compagni che fino allo scorso anno hanno militato nei Ds - e a livello europeo con il Partito Socialista.
Io rispetto i compagni e le compagne che faranno questa scelta, ma, oltre a non condividerla, vorrei anche dire loro che potevano essere più sinceri nel condurre la battaglia politica.
Il progetto politico sul quale si impegnano uscendo da Rifondazione è quello di costruire un partito di sinistra non comunista. Non credo che questo convincimento lo abbiano maturato negli ultimi quindici giorni. Perché allora è stato reiteratamente negato nel dibattito congressuale? Perché, quando in un qualche congresso qualcuno di noi diceva che volevano superare Rifondazione Comunista, si replicava che era una calunnia? E perché hanno sempre dichiarato che quale fosse stato l'esito del congresso sarebbero rimasti comunque nel Partito e invece oggi fanno una scissione?
Non era più onesto dirlo chiaramente a tutti gli iscritti che partecipavano ai congressi, prima di chiedere il loro voto?
La verità è che tutto questo non è stato fatto poiché la stragrande maggioranza delle iscritte e degli iscritti di Rifondazione Comunista, non condividendo lo scioglimento del Prc né, tanto meno, una scissione, non avrebbero mai votato un documento che lo proponeva.
Infatti, come si vede anche dai diversi appelli pubblicati in questi giorni su Liberazione , sono sempre più numerosi i compagni e le compagne che, pur avendo votato il secondo documento e pur continuando a condividere il progetto politico in esso contenuto, hanno deciso di rimanere nel Partito. Le notizie che abbiamo è che questo fenomeno più si scende verso il basso - arrivando nelle federazioni e nei circoli - e più è diffuso. La nostra opinione è che vada incoraggiato. Anzi vorrei qui avanzare un vero e proprio appello: rimanete nel Partito! Quale che sia la vostra posizione politica, c'è posto per tutti. La nostra gente è stanca di scissioni e di divisioni. E non si può inventare un partito ogni due anni. A sinistra del Pd c'è principalmente Rifondazione che, pur con tutti i suoi limiti, ha saputo, con fortune altalenanti in questi 18 anni, essere punto di riferimento di una sinistra di classe e anticapitalista. Perché non investiamo tutti sul suo rilancio? Certo, stiamo attraversando un momento difficile, ma si può ripartire. E' stata capace di farlo la Lega che negli anni passati è uscita da una crisi gravissima puntando con forza su identità e radicamento territoriale, perché non dovremmo riuscirci noi?
In questo contesto le due giornate di apertura del tesseramento che terremo il prossimo fine settimana assumono un particolare significato.
Le notizie che abbiamo sono incoraggianti. Saranno centinaia le assemblee che sabato e domenica si terranno in tutta Italia. Da quando abbiamo aperto il tesseramento numerosi compagni e compagne hanno chiesto l'iscrizione online attraverso il nostro sito. Sono significative anche le richieste di reiscrizione di chi si era allontanato dal Partito negli anni passati.
Ma perché oggi iscriversi ad un partito politico, e che per di più si chiama Rifondazione Comunista?
Il concetto è molto semplice: perché senza una forza politica organizzata non si riesce a sostenere e dare continuità ed efficacia ad alcun progetto politico e perché senza una connotazione nettamente anticapitalista, quindi comunista, è inevitabile il risucchio nell'alternanza bipolare.
Chiediamo quindi alle federazioni e ai circoli che non lo hanno ancora fatto, di organizzare nelle prossime giornate, un'iniziativa per il tesseramento. I compagni e le compagne della Direzione nazionale sono a disposizione per parteciparvi. Vi chiediamo di organizzarle con il massimo di apertura, coinvolgendo il più ampio numero di persone possibile, prestando una particolare attenzione ai migranti.
Nel fare tutto questo non dobbiamo dimenticarci di Liberazione . Il nostro quotidiano sta attraversando un momento delicato, ma non possiamo farne a meno. E' uno strumento fondamentale, dobbiamo sostenerlo e aiutare la nuova Direzione che sta facendo tutto il possibile per rilanciarlo. Lo possiamo fare concretamente comprando il giornale, facendo in modo che ogni circolo sottoscriva un abbonamento, riprendendo la diffusione militante. Cominciamo da questo fine settimana.

*Segreteria nazionale, responsabile organizzazione

Io artigliere ho usato fosforo bianco

di Simcha Leventhal

su Il Manifesto del 22/01/2009

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Ho servito come artigliere nella divisione M109 dell'esercito israeliano dal 2000 al 2003 e sono stato addestrato a utilizzare le armi che Israele sta usando a Gaza. So per certo che le morti di civili palestinesi non sono una sfortunata disgrazia ma una conseguenza calcolata. Le bombe che l'esercito israeliano ha usato a Gaza uccidono chiunque si trovi in un raggio di 50 metri dall'esplosione e feriscono con ogni probabilità chiunque si trovi a 200 metri. Consapevoli dell'impatto di queste armi, le gerarchie militari impediscono il loro uso, anche in combattimento, a meno di 350 metri di distanza dai propri soldati (250 metri, se questi soldati si trovano in veicoli corazzati).
Testimonianze e fotografie da Gaza non lasciano spazio a dubbi: l'esercito israeliano ha usato in questa operazione bombe al fosforo bianco, che facevano parte dell'arsenale quando anche io servivo nell'esercito. Il diritto internazionale proibisce il loro uso in aree urbane densamente popolate a causa delle violente bruciature che provocano: la bomba esplode alcune decine di metri prima di toccare il suolo, in modo da aumentarne gli effetti, e manda 116 schegge infiammate di fosforo in un'area di più di 250 metri. Durante il nostro addestramento, i comandanti ci hanno detto di non chiamare queste armi «fosforo bianco», ma «fumo esplosivo» perché il diritto internazionale ne vietava l'uso.
Dall'inizio dell'incursione, ho guardato le notizie con rabbia e sgomento. Sono sconvolto dal fatto che soldati del mio paese sparino artiglieria pesante su una città densamente popolata, e che usino munizioni al fosforo bianco. Forse i nostri grandi scrittori non sanno come funzionano queste armi, ma sicuramente lo sanno le nostre gerarchie militari. 1300 palestinesi sono morti dall'inizio dell'attacco e più di 5000 sono rimasti feriti. Secondo le stime più ottimiste, più della metà dei palestinesi uccisi erano civili presi tra il fuoco incrociato, e centinaia di loro erano bambini. I nostri dirigenti, consapevoli delle conseguenze della strategia di guerra da loro adottata, sostengono cinicamente che ognuna di quelle morti è stata un disgraziato incidente.
Voglio essere chiaro: non c'è stato alcun incidente. Coloro che decidono di usare artiglieria pesante e fosforo bianco in una delle aree urbane più densamente popolate del mondo sanno perfettamente, come anche io sapevo, che molte persone innocenti sono destinate a morire. Poiché conoscevano in anticipo i prevedibili risultati della loro strategia di guerra, le morti civili a Gaza di questo mese non possono essere definite onestamente un disgraziato incidente.
Questo mese, ho assistito all'ulteriore erosione della statura morale del mio esercito e della mia società. Una condotta morale richiede che non solo si annunci la propria volontà di non colpire i civili, ma che si adotti una strategia di combattimento conseguente. Usare artiglieria pesante e fosforo bianco in un'area urbana densamente popolata e sostenere poi che i civili sono stati uccisi per errore è oltraggioso e immorale.

L'autore è un veterano dei corpi di artiglieria dell'esercito israeliano e membro fondatore di Breaking the Silence

Maroni, attacco alla libertà

di Pietro Adami *

su Liberazione del 23/01/2009

Da quanto si è appreso, il Ministro Maroni sarebbe intenzionato a limitare profondamente la libertà di riunione e manifestazione. Secondo quanto ha dichiarato, si appresterebbe a introdurre una disciplina che definisce un generale divieto di manifestare davanti ai luoghi di culto, e addirittura davanti a supermercati e centri commerciali, monumenti e siti di interesse pubblico. «Ho preparato una direttiva che verrà inviata a tutti i Prefetti affinché fatti come quelli avvenuti davanti al Duomo di Milano non abbiano a ripetersi» ha dichiarato, aggiungendo che sarà possibile chiedere una cauzione agli organizzatori delle manifestazioni, che non verrebbe restituita in caso di danni commessi durante i cortei. Naturalmente, «non si tratta di regole ferree», ma si valuterà caso per caso.
Conclude affermando che «non si vuole dare una risposta repressiva, ma bisogna dare piena attuazione sia al diritto di manifestare sia al diritto di chi non manifesta di vivere la propria città». Il ministro afferma che non si tratta di un provvedimento repressivo. In merito a tale affermazione lascio giudicare chi legge.
Ciò che posso senz'altro affermare è che si tratterebbe di una rivoluzione culturale e giuridica in materia di libertà personali, e di un provvedimento illegittimo e incostituzionale. Ed aggiungo che un consulto del Ministro con i suoi esperti giuridici gliene darà conferma.
La Costituzione Italiana all'art. 17 prevede che «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Le manifestazioni sono riunioni in luogo pubblico. Quindi, in primo luogo le manifestazioni non hanno bisogno di essere autorizzate. Occorre solo una comunicazione (art.18 Tulps) e solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica, possono essere vietate.
La Costituzione italiana, come noto, è un'attenta composizione di interessi, diritti, aspettative. I diritti, anche quelli fondamentali incontrano un solo limite, negli altri diritti degli altri cittadini. Ciò non significa che tutti i diritti siano sullo stesso piano. Parafrasando Orwell: alcuni diritti sono più fondamentali degli altri. Vista l'esperienza del ventennio precedente all'emenazione della Costituzione, al centro del tessuto di questa coperta a scacchi dei diritti, vi è un diritto: la libertà, che con il suo filo interseca e cuce tutti gli altri. Libertà, ed in particolare la libertà politica di opinione e manifestazione del pensiero.
Mai più, pensò l'Assemblea costituente, il cittadino dovrà esserne privato, almeno finché dura questo testo.
Per cui, con grande fermezza, scolpì negli articoli del Titolo I della Parte I, le libertà fondamentali. Dalla libertà di domicilio a quella di stampa, dalla libertà religiosa a quella di manifestare il pensiero.
Il Costituente dovette inserire anche dei limiti, a queste libertà, perché l'esercizio privo di regole di una libertà può rappresentare una violazione di altre libertà. Per dirla con la Corte Costituzionale «in modo che l'attività di un individuo rivolta al perseguimento dei propri fini si concili con il perseguimento dei fini degli altri» (sent.1/56).
Ma qui il costituente fu attento. Comprese che i limiti dovevano essere tassativi. Quelli e non altri. E soprattutto che al futuro governo bisognava lasciare, invece, il minimo margine di discrezionalità possibile, nella limitazione delle libertà.
Quindi, il costituente ha deliberato di chiarire con estrema attenzione le ragioni per cui i diversi diritti potevano essere limitati, e soprattutto ha evitato di scrivere che i diritti fondamentali potevano essere limitati per "ragioni di ordine pubblico". E' chiaro: tutto può rientrare nel concetto di "ordine". Io posso ritenere ordinata una società in cui non vi siano pensieri diversi dal mio.
Ci si faccia caso, il concetto di ordine non è mai posto, nella Costituzione, a limite e come contrapposto ad una libertà. Le libertà prevalgono sempre sul generico "ordine".
Ed ecco, quindi, l'art.17 Cost: «Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica».
La sicurezza e l'incolumità non devono essere messe in pericolo dalla libertà di manifestare. Quando c'è il rischio che qualcuno si faccia male, subentra il diritto della persona alla incolumità fisica. E' un diritto, l'unico diritto, considerato superiore, rispetto alla libertà politica di manifestare.
E' solo in questo quadro che, negli anni scorsi, si è ritenuto legittimo che fosse impedito che le manifestazioni passassero davanti ai luoghi "istituzionali". Si temeva (nella gran parte dei casi a torto), che i manifestanti avrebbero potuto assalire questi luoghi. E quindi che qualcuno potesse farsi male. Non per una tutela "sacrale" del luogo istituzionale.
Ed ecco la rivoluzione culturale del Ministro. Che cosa è accaduto davanti al Duomo di Milano? Vi sono stati rischi per l'incolumità di qualcuno? Non sembra.
Può piacere la preghiera collettiva, può non piacere, ma non mi pare che abbia posto in pericolo l'incolumità di alcuno.
Il ministro introduce un rovesciamento di prospettiva. Il diritto della cittadinanza da tutelare non è più l'incolumità: è il fastidio che si prova a vedere manifestata un'idea o una fede diversa dalla nostra.
Il ministro non sostiene che vi sia un generale pericolo che i manifestanti diano l'assalto alle chiese. Il ministro ritiene che possa dare fastidio, a chi passa davanti ad una chiesa, trovarvi davanti qualcuno di una religione diversa che prega, o che manifesta contro gli aumenti della frutta.
Non solo. Viene ritenuto prevalente il "diritto di chi non manifesta di vivere la propria città". Il diritto al parcheggio nello spazio pubblico, anteposto ad una libertà costituzionale.
Siamo ad un punto di svolta: il fastidio per la diversità riceve riconoscimento e tutela giuridica.
Ad oggi, con questa Costituzione, una simile norma è destinata a cadere in breve tempo.
Aggiungo due elementi di illegittimità ulteriori.
In primo luogo quello della cauzione, che consentirebbe di manifestare solo a chi ha le risorse economiche per versarla. La Costituzione è chiara: nessun limite se non c'è pericolo per la salute. Salute fisica, non salute morale, altrimenti dovrebbe essere vietato anche il rito dell'ampolla alle sorgenti del Po. Porre un elemento economico alla base di una manifestazione rappresenterebbe una evidente compressione della libertà costituzionale. E, si aggiunge, è proprio la motivazione posta a base della scelta dal ministro ad essere erronea (ovvero che in tal modo gli organizzatori sarebbero indotti a svolgere funzioni di ‘ordine pubblico' interno). Chi organizza le manifestazioni, attività meritoria e non certo facile, non ha certo questo compito, né ha i mezzi. E' compito delle forze dell'ordine tutelare i pacifici manifestanti da atti violenti, e fare in modo che chi li compie ne risponda, civilmente e penalmente, se ve ne sono gli estremi. La responsabilità penale e civile conseguente agli atti vandalici è personale.
Gli organizzatori delle manifestazioni non sono società di calcio, con fini di lucro. Inoltre, come noto, è prassi comune che alle manifestazioni partecipino gruppi non invitati, spesso proprio con la funzione di provocatori, che a questo punto avrebbero ancor più interesse ad agire, sapendo che, oltre al danno politico, si aggiunge un danno economico.
Rappresenta, infine, un ulteriore elemento di illegittimità la circostanza che «non si tratta di regole ferree» e che si valuterà caso per caso.
L'inverso puro di quanto voleva il costituente: regole certe, valide per tutti, non "a disposizione" del governo in carica.

* Giuristi Democratici

Caro Nichi, non ho proprio capito perché dovrei lasciare Rifondazione comunista

di Romano Ferretti

su Liberazione del 23/01/2009

Care compagne e cari compagni che vi siete dati convegno a Chianciano, chi si rivolge a voi con questa lettera, è un compagno che al congresso ha votato per la mozione Vendola e che ora vede disatteso l'impegno che tutti coloro che avevano sostenuto tale mozione avevano pubblicamente affermato, respingendo con sdegno le accuse di quanti andavano dicendo che i sostenitori di quella mozione si proponevano di lasciare il Prc. Ora molti compagni, a pochi mesi dalla conclusione del congresso, hanno dichiarato di considerare superata l'esperienza del partito nel quale hanno militato anche con ruoli di direzione politica. A questo punto, come debbo considerare il vostro atteggiamento? A questa domanda io cerco di non rispondere con quello che di primo acchito mi viene in mente, però chiedo a voi: potrei ancora fidarmi di simili dirigenti? Direi proprio di no. Ora mi pongo un'altra domanda: per quale motivazioni politiche dovrei partecipare ad affossare una esperienza politica nella quale ho militato per 20 anni? Vi è un'alternativa valida per un militante di sinistra? Ho partecipato a molte assemblee indette a Reggio Emilia da coloro che parlano di una nuova sinistra, a queste sono stati chiamati vari compagni di livello nazionale per tenere relazioni che avrebbero dovuto chiarire i fondamenti sui quali si dovrebbe costruire una sinistra, che loro chiamano moderna: debbo dire che da queste riunioni uscivo ogni volta sempre più dubbioso. Ora, chiederei che perlomeno mi si chiarissero alcuni motivi per i quali io dovrei abbandonare il Prc, motivi seri per favore, che vadano oltre l'accusa di essere tra coloro che si ritengono guardiani di un simbolismo fuori dal tempo, anche perché, ad uno che era uscito dal vecchio Pci nel 1973 sotto la spinta dell'esperienza dil Manifesto, questa accusa pare almeno anacronistica. Il Prc, in questi anni ha avuto, pur isolato, la capacità di criticare questa società, che vedeva nell'attacco alla condizione dei lavoratori l'unico strumento per salvare la competitività del sistema Italia. Siamo stati gli unici che si sono opposti al cosiddetto pensiero unico… I comunisti sono stati dentro la Cgil, seppure in minoranza, per tentare di costruire un argine ad un riformismo che era solo restaurazione; siamo stati l'unico partito che si è opposto alla guerra alla Jugoslavia; abbiamo partecipato in modo significativo alla nascita del movimento no-global. Abbiamo sicuramente fatto anche errori, altrimenti la sinistra non si troverebbe nelle condizioni in cui si trova oggi, errori e ritardi sui quali anche coloro che oggi si mettono in cattedra dovrebbero riflettere. Ecco perché trovo anacronistico e sbagliato lasciare ora il Prc, anche se si è in minoranza. Se è stata tenuta aperta una possibilità per la sinistra è soprattutto perché vi è stata, e vi è Rifondazione comunista. Superiamo i limiti che abbiamo dimostrato, anche di democrazia interna, ma va salvaguardato l'impegno di migliaia di compagni e compagne durato 20 anni, che tanto hanno dato, senza chiedere ami niente e che credono che la soluzione per superare anche queste difficoltà sia in un rinnovato impegno militante in Rifondazione comunista. Un invito ai compagni che vogliono lasciare il Prc: restate nel partito, e battiamoci per cambiare le cose che non vanno. Dimostriamo di accettare democraticamente l'esito del congresso, cerchiamo di essere compagni consapevoli che una forza comunista ha ancora un compito importante da svolgere e che un suo indebolimento non serve a nessuno, sarebbe un altro colpo inferto a tutti coloro che vogliono cambiarlo questo paese…

Vendola, scissione a metà e con rissa

di Matteo Bartocci

su Il Manifesto del 27/01/2009

Andare dove? Con chi? E per fare cosa? «A questa domanda io non saprei rispondere». Augusto Rocchi , responsabile economia del Prc, è ormai un «vendoliano» pentito. Più correttamente, è uno dei quasi cinquanta dirigenti nazionali sostenitori della mozione Vendola per l'unità a sinistra che non ha scelto la scissione ma di restare «a dare battaglia» dentro Rifondazione e di restare nel suo comitato politico nazionale.
L'uscita del governatore pugliese e di molti «pezzi da novanta bertinottiani» (tra gli altri, Alfonso Gianni, Gennaro Migliore, Elettra Deiana e chi più ne ha più ne metta) dal Prc esce a pezzi dall'assemblea di due giorni di Chianciano. Con una quasi rissa sul documento conclusivo e perfino sulla denominazione d'origine («Rifondazione per la sinistra» era il nome della mozione congressuale che, in parte, resta nel Prc e dunque non può essere avocato in toto da Vendola e gli «scissionisti» che si chiameranno, d'ora in poi «movimento per la sinistra»). Un grande classico. A cui seguirà inesorabile la querelle su «sedi, soldi e soldati».
La cronaca del fine settimana nel senese si fa assai confusa. Riferiscono i «vendoliani dissidenti» che sabato sera, negli incontri a margine nella città termale, circolava un documento stilato da Alfonso Gianni e Gennaro Migliore a favore dell'uscita dal Prc senza se e senza ma. L'ipotesi era, fatti gli emendamenti del caso, di sottoscriverlo subito individualmente senza porlo in votazione in assemblea. Ma le perplessità diffuse nell'area, più nella base che nei suoi vertici, hanno dissuaso dal proseguire a spada tratta nell'uscita dal partito.
La conclusione, quasi grottesca, è che ci sarà un documento, di cui peraltro allo stato non v'è traccia né orale né scritta, che sarà sottoposto a breve al voto del «territorio». Dove, come e da chi, visto che l'area Vendola non ha al momento né sede nazionale né una struttura locale omogenea è difficile sapere. Logico pensare che saranno i gazebo nelle piazze (a fine febbraio sono già previste le «primarie delle idee» con Sd) a consentire di esprimersi sul documento programmatico dell'ultima particella nata a sinistra.
Un risultato tangibile Chianciano l'ha dato. Sempre provvisorio per carità, ma su scheda libera e a voto segreto è stato eletto un coordinamento nazionale del nuovo movimento. Cinque uomini e cinque donne: Celeste Costantino, Titti De Simone, Elettra Deiana, Daniele Farina, Nicola Fratoianni, Alfonso Gianni, Beatrice Giavazzi, Gennaro Migliore, Betta Piccolotti e Alì Rashid. A parte un'esclusione eccellente come quella dell'ex segretario Franco Giordano (come di Vendola, del resto) si registra un giallo sulla possibile elezione di Fausto Bertinotti. Secondo le voci di corridoio registrate dall'Ansa, infatti, l'ex presidente della camera sarebbe risultato il più votato sul foglio bianco consegnato ai delegati. Esito subito smentito dai «vendoliani». Una verifica diretta è ormai impossibile, tuttavia il senso politico è chiaro. Bertinotti ha fatto sapere in lungo e in largo di sostenere la necessità del «big bang a sinistra» e l'insufficienza della sola Rifondazione ma avrebbe preferito semmai una scissione più lontana nel tempo, calibrata oltre la strettoia delle europee. In ogni caso, comunica un po' inusualmente lo stesso «movimento per la sinistra», non rinnoverà la tessera 2009 di Rifondazione comunista.
Molto diverse, almeno per ora, le scelte nella «sua» base. Se nel Lazio (regione e provincia di Roma) dall'oggi al domani Rifondazione sparisce e non ha più né assessori né consiglieri, a La Spezia su 18 membri del consiglio federale «vendoliani» 16 restano nel partito. Senza contare che perfino in Puglia, tra «scissionisti» e non, si registrerà il paradosso di assessori usciti da Rifondazione sostenuti, almeno per ora, da consiglieri fedelissimi al presidente ma rimasti dentro Rifondazione. Non tutti, insomma, seguono il governatore fuori dal partito. Un caos a macchia di leopardo. Sarà possibile, forse, fare un punto della situazione generale nei famosi «territori» solo sabato prossimo, in un'assemblea nazionale convocata a Roma dei «bertinottiani» che hanno deciso di restare.
Grande è la confusione sotto il cielo. Ma la materialità della politica non lascia molti margini di manovra. Alle europee, giocoforza, l'esito più realistico (cfr. il manifesto del 23 gennaio) è la nascita di una «bicicletta» Sinistra (Sd+ex Prc)-Verdi.
A meno che la soglia di sbarramento in discussione tra Pd e Pdl non rimetta tutto in discussione, perfino, c'è chi scommette, a una sorta di Arcobaleno cartello elettorale per la rappresentanza che raccolga tutta la diaspora di sinistra del centrosinistra.

Se i bimbi giocano con le bombe al fosforo

di Vittorio Arrigoni

su Il Manifesto del 23/01/2009

Ho varcato la soglia di casa, dinnanzi al porto di Gaza City, dopo parecchi giorni. Tutto è rimasto come l'avevo lasciato, la bombola del gas continua a soffrire di anoressia, la corrente elettrica è ancora tagliata da una cesoia straniera. Laddove c'era la stazione dei pompieri, a venti metri dal mio uscio, c'è un enorme cratere in cui dei bimbi bighellono come per esorcizzare il terrore dei genitori.
Il richiamo alla preghiera del pomeriggio non ha più il conforto del salmodiare del muezzin a cui ero abituato. Chissà dove è finito, se è riuscito a sopravvivere nella sommità di uno dei pochi minareti rimasti in piedi. L'ultima volta che lo avevo ascoltato, questo muezzin anonimo era stato costretto a interrompere la liturgia del suo canto per una tosse catarrosa. Una tosse che conosco bene anche io, i gas delle bombe a Gaza non hanno risparmiato nessuno. Sotto una porta-finestre che dà su un piccolo balcone ho trovato un messaggio come fosse stato infilato da una mano amica. Di questi stessi volantini il giardino e la strada erano ricoperti. Lasciati cadere dagli aerei israeliani intimano la popolazione palestinese a rimanere allerta, a prendere coscienza dei muri che hanno occhi e orecchi. «Al minimo atto offensivo contro Israele torneremo a invadere la striscia di Gaza, quello che avete vissuto in questi giorni non è nulla a confronto di ciò che vi aspetta».
Per strada alcuni ragazzi avevano raccolto questi volantini e ripiegati per farne aeroplanini di carta, cercavano di rimandare il messaggio al mittente. Ahmed al telefono invece mi ha raccontato di un altro gioco degli adolescenti di Gaza, fino a qualche giorno fa si divertivano a riattizzare incendi calciando i frammenti delle bombe al fosforo bianco, di cui tutta la Striscia è stata disseminata. I residui di questi ordigni ad alto potenziale chimico pare abbiano facoltà incendiarie imperiture: raccolti dopo diversi giorni dalla loro detonazione e agitati, riescono ancora a infiammarsi. I paramedici dell'ospedale Al Quds raccontano come hanno rinunciato subito a cercare di spegnere gli incendi provocati da queste bombe proibite, le fiamme parevano alimentarsi al contatto con l'acqua. «Il frutto di tutta la merda che ci hanno tirato addosso in queste tre settimane, lo raccoglieremo nel prossimo futuro in tumori e neonati deformati», mi ha detto Munir, medico dell'ospedale Al Shifa.
A Sderot come ad Aschkelon, i cittadini israeliani hanno formalmente richiesto al loro governo delucidazioni circa le armi utilizzate per massacrare: è evidente che l'uranio impoverito e il fosforo bianco sparso in maniera criminale sul fazzoletto di terra di Gaza non farà distinzione nel causare malattie genetiche fra ebrei e musulmani.
Dovremmo essere in piena tregua in corso, fatto sta che oggi nel mio letto mi ha destato dal sonno il boato sordo del cannoneggiare di navi da guerra, esattamente come qualche giorno fa. Alcuni pescatori palestinesi stavano provando a lasciare il porto muniti di reti su barchette minuscole. La marina israeliana li ha respinti indietro. Ormai l'unico pesce di cui ci si può cibare a Gaza sono le scatolette di tonno egiziano passate per i tunnel.
Sul tetto della casa di Naema il confine israele palestinese è mai stato così rimarcato. Da una parte le colline verdeggianti costantemente irrigate dei Kibbutz israeliani, dall'altra l'arsura di una terra saccheggiata di sorgenti e pascoli. Naema mi ha raccontato i suoi ultimi giorni, una testimianza olfattiva, tattile e uditiva del massacro, non oculare perché Naema è non vedente. I soldati hanno intimato l'evacuazione del suo villaggio solo una manciata di minuti prima dell'incursione. Gli uomini si sono coricati sulle spalle i bambini piccoli e con le donne sono fuggiti via. Noema a scelto di restare per non rallentare la loro fuga, si è rifugiata nella sua casa credendosi al sicuro, ed ha accolto con sè i suoi vicini di casa che non sapevano dove andare: tre donne, un'anziana, e un vecchio paralitico. Tank e bulldozer hanno sconfinato e iniziato a seminare morte, divorandosi ettaro per ettaro, sino ad arrestarsi dinnanzi all'abitazione di Noema: l'edificio in cui vive è il più alto del villaggio perché posto sopra una collinetta, i soldati di Tsahal ritenendolo strategicamente posizionato, sono entrati e lo hanno occupato per due settimane. «Durante tutto questo tempo solo due volte ci hanno portato da bere, e il cibo era rappresentato dall'avanzo del rancio dei soldati. Non ci hanno mai consentito di andare in bagno e abbiamo dovuto fare i bisogni in un angolo della stanza. Non ci consentivano di parlare, e venivano a malmenarci quando la notte in cerchio cercavamo di pregare».
Al termine dell'undicesimo giorno di prigionia la Croce rossa internaziale è finalmente riuscita ad arrivare sul luogo e a trarre in libertà i sei palestinesi dai loro carcerieri. «Non ci hanno permesso di raccogliere niente, a me neanche gli occhiali da sole», conclude il suo racconto Noema, aggiungendo che una volta tornati a riprendere possesso della loro abitazione, si sono resi conto del furto dei soldati: si sono portati via tutto il loro oro e i soldi nascosti, dopo avere distrutto i pochi beni, due televisori, una radio, un frigorifero, i pannelli solari sul tetto. Ho visto lacrimare gli occhi di quella donna nascosti sotto i suoi nuovi occhiali scuri e mi sono parsi i più vividi che abbia mai veduto. In realtà Noema ha visto coi suoi occhi spenti molte più cose che una giovane della sua età avrà mai l'occasione di vedere, se non ha la cattiva sorte di nascere in questa terra martoriata. Restiamo umani.

 

La destra "fa società" con la paura. La sinistra non c'è

di Massimo Ilardi

su Liberazione del 24/01/2009

«Saremo inflessibili nei confronti di chi non rispetta le regole»: lo hanno gridato continuamente sia Rutelli che Alemanno duranta la campagna elettorale dello scorso anno per l'elezione del nuovo sindaco di Roma. Su questo l'inciucio è stato perfetto. E seguita ad esserlo. Divieti, controlli, ossessione sulla sicurezza, demonizzazione del conflitto: oggi è solo così che si tenta di ricreare quei legami sociali spezzati da una società del consumo e da un paese diviso atavicamente in fazioni e che ha nel suo Dna l'assenza di senso dello Stato. Eppure il vecchio sistema dei partiti e la sua classe dirigente, nati dentro una guerra civile, avevano trovato gli antidoti per combattere la frantumazione sociale: producevano politica, organizzavano opposizioni reali, sapevano rappresentare il conflitto.
Il fatto è che all'avvento del primato del mercato non ha corrisposto una generazione politica all'altezza della prova: mantenere la politica al suo posto di comando. Qui e solo qui sta il declino italiano. Il "fare società" attraverso la scorciatoia del proibizionismo delle norme, che si pretende tra l'altro di erigere a comportamento morale, è l'ultimo ritrovato di una classe politica che ha drammaticamente fallito nel suo compito di governare il paese perché non possiede né autorità, né prestigio. Da qui il primato dell'economia e del diritto sulla politica che tende a scomparire: dove tutto è normalizzabile tutto è governabile. E così mentre, a livello nazionale, si cerca il modo di tornare a proibire o a ridimensionare la legalità dell'aborto, a fare ancora qualche pensierino sulla cancellazione del divorzio, a ripristinare nelle scuole il primato del voto di condotta, a prendere le impronte digitali alla popolazione Rom, a organizzare ronde militari per la città e a vietare di fumare, andare liberamente allo stadio, farsi gli spinelli, prendere la residenza senza un lavoro, praticare il nomadismo e il commercio di strada; a Roma, oltre a tutto questo, si impedisce agli immigrati di lavare i vetri delle macchina, si nega di vendere la sera alcolici da asporto, si propone di mettere telecamere nelle scuole e sui mezzi pubblici, si studia come organizzare una centrale di vigilanza e di controllo su tutta la città.
E' una apoteosi di regole, norme, balzelli, tributi, pedaggi, controlli di ogni genere che neanche nei secoli bui del Medioevo ne troviamo così tanti. Ma qualcuno di questi nuovi sceriffi metropolitani dovrà pur spiegarci prima o poi perché la casa e la famiglia siano diventati i luoghi di massimo pericolo proprio nel momento in cui consentono di mettere all'opera gli strumenti per costruire il massimo di sicurezza. J. G. Ballard, ad esempio, ne dà una ragione: scrive che la comunità sicura e protetta e una famiglia chiusa e normale, dove i ruoli siano rispettati scrupolosamente, come vorrebbero gli amministratori severi dei nostri corpi e delle nostre anime, inchiodano i loro abitanti a un mondo sempre uguale e senza eventi trasformando quei luoghi che riteniamo più sicuri in socialmente più pericolosi proprio perché nella vita di uomini e donne sicurezza e libertà non vanno d'accordo. In un universo che vuole essere perfetto, in una famiglia che vuole essere totalmente sana, l'unica libertà per coloro che si sentono imprigionati diventa allora la devianza. Molto spesso la follia.
A livello politico, la verità è che senza più una teoria di governo e un pensiero forte che la produce, la elabora, la trasforma in guida per l'azione è solo l'idea di ordine che muove questo pensiero angoscioso del controllo e della sicurezza che diventa così pura articolazione della macchina istituzionale e del suo potere. Se non si stabilisce un ordine non c'è potere che tenga: ma il potere solo come ordine diventa amministrazione, burocrazia che si organizza in macchina autoritaria che percorre il territorio e pretende di strutturarlo.
Eppure, sembra incredibile, ma i dati del Viminale, nel raffronto tra il 2006 e il 2007, evidenziano in Italia una diminuzione degli omicidi e degli stupri e confermano Roma come una delle città più sicure del nostro paese. Non solo. Nel secondo semestre del 2007 rispetto al primo diminuiscono nella città omicidi, violenze sessuali e rapine. Ora se è vero che la sicurezza è soprattutto una questione di percezione più che di statistiche, è anche vero che questa percezione viene ancora di più sollecitata e ingigantita dai mezzi di comunicazione che non perdono occasione per creare un clima di paura e di allarme sociale. Ed è proprio sullo sfruttamento di questo panico che ha fatto perno a Roma la campagna elettorale sia del centrodestra che del centrosinistra. Ma mentre la destra non faceva che nuotare nel suo mare fatto da sempre di tolleranza zero e di esclusione del diverso, la sinistra, quella moderata, che proviene da una cultura dove invece rimane centrale la Dichiarazione dei diritti universali della persona, nel momento in cui l'abiura per meschini calcoli elettorali non può che risultare alla fine meno credibile del suo avversario. Invece di contrapporsi alla falsità di questa emergenza che la stessa Chiesa ha negato e che serve solo a un ceto politico incapace di governare altrimenti, si è messa a rimorchio della destra; invece di produrre con decisione un immaginario e un simbolico diverso da quello costruito dagli spettri della paura con una proposta politica fortemente alternativa a quella della semplice militarizzazione del territorio, partorisce i soliti e beceri luoghi comuni sulla sicurezza. Forse avrebbe perso lo stesso ma almeno la sua sbandierata diversità sarebbe risultata meno opaca.
Che si combatta, ad esempio, con tutti i mezzi legali a disposizione e si punisca la violenza dei bulli, degli aggressori e degli stupratori è ovviamente cosa sacrosanta. Ma altrettanto cosa sacrosanta è avere il coraggio di dire con forza che non tutti gli immigrati sono aggressori e stupratori. Che si ribadisca in tutte le sedi che la lotta politica va situata dentro la democrazia, è anch'essa cosa sacrosanta. Ma altrettanto cosa sacrosanta è saper indicare finalmente un "nemico" per organizzarsi come "parte", per restituire forza, orgoglio e rispetto a chi si sente diverso dal razzismo rozzo e superstizioso della casalinga frustrata, del bottegaio ingordo, del piccolo borghese ottuso, e da chi non frequenta quei terrificanti salotti televisivi, dove tra veline, gnomi e ballerine la conoscenza si ferma al pettegolezzo, al piagnisteo o a qualche culetto svolazzante. Ma, come ha scritto Enzo Scandurra su questo giornale, con spot pubblicitari come "I care" e "We can" al massimo ci puoi dirigere un supermercato non organizzare un'opposizione.
Il dramma della sinistra, soprattutto di quella moderata, è che non riesce più a prendere terra, a produrre conoscenza del territorio, delle culture e delle mentalità che lo attraversano, a fare analisi dei movimenti, a individuare nei mutamenti della stratificazione sociale il livello a cui dovrebbe far riferimento. Una carenza di una gravità inaudita soprattutto in una società del consumo che produce appartenenze e differenze proiettandole direttamente sul territorio che diventa così un contenitore esplosivo di particolarismi in continua lotta tra loro. E' il territorio e non la nuda vita a entrare a pieno titolo nel campo della decisione politica. E mentre scompare una pur sia minima pratica di intervento nei conflitti sociali, torna prepotentemente alla superficie il vecchio e mai sopito vizio statalista della sua cultura che vede tutto ciò che fuoriesce dalle istituzioni come qualcosa di perverso e di diabolico e di conseguenza la porta a non riuscire mai a sintonizzarsi con la irregolarità delle forme di lotta e con la collera sociale anti-sistema che le fomenta. Anzi, proprio perché non le conosce, ne ha paura e le criminalizza.

 

La memoria dello sciopero e l'orrore di Auschwitz

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di Castalda Musacchio

su Liberazione del 28/01/2009

«Nessuno di noi potrà mai restare indifferente a ciò che abbiamo visto». E' già notte quando il treno della memoria lascia la stazione di Cracovia, lascia i campi di Auschwitz. Si torna a casa, ognuno con qualcosa d'"altro" dentro. Un'esperienza che lascia il segno. Lo ha già lasciato. E non si fa altro che parlare di questo.
Di quelle emozioni che abbiamo vissuto dopo aver sentito dentro quel freddo gelido nelle vene di Birkenau, e al rientro in hotel prima della partenza, il caldo ci ha riportato indietro a quei luoghi, a quelle baracche dove si dormiva senza coperte in tre o quattro in giacigli di paglia, come animali, lì dove il freddo raggiunge i 25 gradi sotto zero d'inverno, lì dove si poteva andare in bagno solo due volte al giorno e tutti insieme in latrine di pietra, lì serrati dietro fossati gelidi recintati da fili che rilasciavano scosse elettriche da tremila volt, e pensare che qualcuno ci si buttava addosso di proposito, perché era più semplice morire.
Così il treno riparte. Il primo appuntamento è nel vagone ristorante diventato sala assemblee e riunioni.
In mattinata, di fronte a un enorme schermo dove scorrevano le immagini di scioperi e di proteste promossi dai sindacati dei lavoratori, una conferenza internazionale ed in una delle più antiche università d'Europa, la "Jagellonica university of Cracow", ha invitato a riflettere sull'iniziativa promossa dalla Cgil e dalla Cisl lombarda sul significato dello sciopero «contro la fame e la guerra». Un tema tutt'altro che marginale rispetto alla memoria di Aushwitz, anche perché ad essere deportati dal 1943 al 1944 furono anche quei lavoratori che aderirono ad una massiccia ondata di proteste, in particolare - ricorda Lorena Pasquini direttrice dell' Archivio storico della Camera del lavoro di Brescia - lo sciopero indetto a Sesto San Giovanni nel 1943. «Quella - ricorda un giovanissimo studente, Roberto Villa dell'istituto superiore Lorenzo Lotto di Trescore Balneario in provincia di Bergamo - fu la prima vera azione di disobbedienza contro il regime fascista». E furono 350mila, operai, studenti e giovani, che aderirono a quest'ondata di manifestazioni represse con la violenza e con la deportazione. Dei 43mila deportati italiani sopravvissero solo in 4.400 alla ferocia nazista. E vennero deportati per diventare schiavi nelle industrie del Reich. Uno dei veri motivi di consenso al nazismo da parte della Grande industria fu proprio quel patto tra Industria e Regime sul lavoro. Vale a dire: garantire manodopera gratuita al "capitale".
Nella conferenza di Cracovia si fa anche il punto sull'attuale situazione di crisi, economica e sociale, internazionale. Ancora una volta sono infatti i più deboli a pagare le conseguenze di scelte sbagliate. Lo sottolinea Bruno Bersani della Cisl lombarda parlando degli effetti della globalizzazione, per esempio in Africa. Lo sottolineano le cifre indicate dalla professoressa Ivana Pais dell'Università di Brescia: sono 2 milioni e mezzo i bambini sfruttati nei paesi occidentali, ben 18 in tutto il mondo. E che vivono in condizioni di schiavitù.
Come non riflettere dunque sul significato del lavoro quando quella cinica scritta sul cancello di Auschwitz dice che "Il lavoro rende liberi"? Così, ancora, il professore Andrzej Swiatkowski dell'università di Cracovia spiega l'importanza nelle legislazioni internazionali del significato del diritto allo sciopero, volutamente negato ancora in alcuni paesi e represso con la violenza in molti altri. E proprio sul ruolo «del mondo operaio nella costruzione della pace» ha invitato a riflettere Fabio Ghelfi della Cgil lombarda.
Così, l'invito lanciato alle organizzazioni sindacali da Jean-Michel Gelati, segretario della Cgt Rhones Alpes, è proprio all'unità, per combattere la deriva che può facilmente nascere nella società quando le condizioni di vita si fanno critiche, come sta accadendo oggi. La povertà di massa, la disoccupazione e la crisi sociale di oggi possono far pensare all'Europa degli anni Venti e Trenta in cui sorse il veleno del fascismo?
Intanto il treno della memoria è lì, pronto per ripartire. Sono stati davvero tre giorni di intense emozioni che nessuno potrà mai dimenticare. La memoria di quell'orrore non si potrà cancellare. Mai più.

 

 

«Verso i rom l'Italia è sempre più razzista»

di Alberto D'Argenzio

su Il Manifesto del 22/01/2009

In Italia si riscontra una deriva xenofoba, con «un aumento degli episodi di razzismo» contro i Rom, «alcuni contraddistinti da una violenza senza precedenti», il tutto mentre il dibattito politico ed anche i media «esasperano, anziché placare, le tensioni esistenti nella società». E quanto al pacchetto sicurezza, si tratta di «un impianto giuridico tanto complesso» quanto «difficile da comprendere» e la «sua comunicazione al pubblico ed agli organi di stampa sembra essere stata semplicistica e incorretta». Questo è il giudizio contenuto nel rapporto redatto da Gerard Deprez, eurodeputato liberale belga, sulla missione del Parlamento europeo che il 18 e 19 settembre è accorsa in Italia per valutare i contorni dell'emergenza Rom e soprattutto il pacchetto di misure approntate dal governo per farvi fronte.
Il giudizio, approvato ieri dalla Commissione libertà civili dell'eurocamera, di cui Deprez è presidente, chiama in causa il governo sia per come ha gestito gli eventi che hanno portato al deterioramento del clima sociale quanto per come ha cercato di porvi rimedio. Su quest'ultimo aspetto, la relazione - sostenuta da socialisti, liberali, comunisti, parte dei verdi e dei popolari - sottolinea come pressato dall'Europa il ministro Maroni si fosse impegnato a emendare e chiarire i tre decreti del pacchetto sicurezza in modo da renderli compatibili con il diritto comunitario, in particolare sugli aspetti riguardanti la direttiva sulla libera circolazione delle persone e sull'aggravante di clandestinità, che non può essere applicata ai cittadini comunitari. Un intervento, quello europeo, che ha avuto il suo successo, visto che l'aggravante è stata chiarita mentre è stato ritirato il decreto di recepimento delle direttiva sulla libera circolazione, chiaramente non conforme con le norme Ue.
«Esprimo soddisfazione - il commento di Giusto Catania di Rifondazione comunista - perché il Parlamento Europeo, a grande maggioranza, si è espresso in modo critico sul pacchetto sicurezza che continua ad alimentare un clima da caccia alle streghe». Di parere opposto i rappresentanti di Forza Italia, che hanno votato contro, e ancor più Roberta Angelilli di An e Mauro Borghezio della Lega che hanno presentato un parere di minoranza per sottolineare come, secondo loro, il rapporto «contenga numerose imprecisioni giuridiche e legislative ed alcune significative omissioni». Ha votato contro anche Viktoria Mohacsi, eurodeputata liberale ungherese di etnia Rom, ma «per protestare - spiega il suo assistente - per come si è sviluppato il voto, non per il testo in sé».

 

Il governo spinge la crisi ad aumentare le disuguaglianze tra le persone

di Lidia Menapace

su Liberazione del 22/01/2009

Il ministro Sacconi ha detto che bisogna "lavorare meno per lavorare tutti" (e tutte?), il ministro Brunetta dice che il lavoro del pubblico impiego è già fatto di fannulloni e non si può ridurre, anzi che "per la parità" bisogna allungare l'età lavorativa delle donne, posizione recentemente assunta da tutto il governo. Le due cose - la riduzione dell'orario di lavoro e l'innalzamento dell'età pensionabile per le donne - non stanno insieme e sono indicative dell'incapacità del governo Berlusconi di prospettare una via d'uscita civile e progressiva alla crisi in atto.
Naturalmente Sacconi ha evitato di dire che la soluzione da lui ora proposta era già stata oggetto di lotte per la riduzione dell'orario di lavoro fin dal primo governo Prodi (e ne determinò la caduta, allora ritenuta miopemente un errore fatale da parte del Prc) e che è in atto in Germania, in Francia ecc. La Fiom fece un convegno insieme all' IGmetall (cioè al sindacato dei metalmeccanici tedeschi) organizzato da Sandro Bianchi, proprio sulla riduzione dell'orario di lavoro, per non licenziare dalla Volkswagen: il risultato fu di sapere che la Volkswagen che proponeva l'orario ridotto e redistribuito è una azienda a prevalente capitale pubblico (azionista la regione -il Land nell'ordinamento federale tedesco- e il sindacato), che i metalmeccanici tedeschi si rifiutavano di chiamare "esuberi" delle persone che rischiano di perdere il posto di lavoro, e che gli "esuberi" erano per lo più operai italiani emigrati e quindi di minore anzianità lavorativa: dunque per proporre la misura redistributiva bisognava far passare in Germania l'idea che la condizione di lavoratore/trice dipendente era più significativa dell'appartenenza nazionale (si chiamava "internazionalismo"?). E che la definizione di "lavoro dipendente" non aveva solo una valenza economicistica: ad esempio in Italia è il fondamento della Repubblica.
Si tratta di importantissime nozioni che conviene ricordare, perchè la riduzione e redistribuzione del lavoro e l'orario ridotto sono condizioni necessarie da quando le tecnologie abbassano la quota di lavoro necessario erogato dai singoli e singole lavoratrici per produrre la stessa quantità di merci, e tutto ciò impone una profonda trasformazione sociale, non misure contingenti e disarticolate che "sostengono" il continuo bruciamento di risorse finanziarie erogate alle Borse e alle Banche, e in parte minima e non per diritto e fatte diventare meschine misure assistenziali, alle "famiglie": bensì misure strutturali per assolvere ai diritti sociali e al mutamento della produzione (di processo e di prodotto) in vista di produzioni ambientalmente corrette e rispettose delle differenze di genere.
La crisi insidia l'eguaglianza e la riduce di continuo e lo si vede da alcuni indicatori che considero fortemente simbolici: durante le feste le vetrine più rutilanti e sfacciate sono state quelle delle gioiellerie; è stata lanciata l' Alta velocità, una "riforma" che uccide il servizio pubblico del trasporto un tempo più popolare, cioè il treno e costruisce le caste.
La crisi gestita capitalisticamente dissemina ineguaglianza e prospetta un futuro di sottomissione del lavoro e delle persone che lavorano, usate come merci, sottoposte a licenziamenti, prolungamenti di orario, pensionamenti protratti: non si può davvero accettare, anche perchè, invece di far uscire dalla crisi (si potrebbe anche stringere la cinghia per un po' in vista del suo superamento) la aggravano e non solo dal punto di vista economico, ma proprio della civiltà. Con le "riforme" proposte dal governo si sottrae alle persone tempo per fare politica, per svolgere attività sociali volontarie, cultura, divertimento, riposo, insomma fondamentali diritti di cittadinanza.
A tutto ciò Brunetta aggiunge un mirabile tocco patriarcale: lui pensa che parità significhi che le donne prendano comunque il modello maschile come meta (si chiama emancipazione imitativa, in gergo emancipazione delle scimmiette). Invece i generi non solo hanno spesso interessi e propensioni differenziate, ma anche può essere che l'uno o l'altro di essi e non sempre e solo il maschile, ottengano mete significative: sicchè si dovrebbe generalizzare il modello femminile per tutti a proposito di lavoro notturno ed età di pensionamento, e il modo della "cura" in tutti i lavori della riproduzione ecc. Nessuno può cavarsela con una battuta o con superficiali allineamenti. Se si mette insieme capitalismo e patriarcato si vede subito che quasi tutto è da trasformare in profondo. Sennò la barbarie seguita ad avanzare. Come abbiamo scritto nel documento contro l'innalzamento dell'età pensionabile per le donne.

La rivoluzione a/sessuale

Klaus Mondrian


Perché Luca non è più gay? L'Italia intera attende la profezia di tale Povia, autore della canzone sanremese "Luca era gay" e tutti si chiedono se Luca era gay perché ora è guarito da un morbo oppure se ha semplicemente cambiato preferenze, punto e basta. Dalle prime indiscrezioni apparse su "Repubblica" il testo parlerebbe di omosessualità come "errore educativo" che si potrebbe "correggere" e, nella fattispecie, l'errore sarebbe stato determinato dagli abusi pedofili su Luca. Ora, dire errore non è che sia molto differente dal dire malattia; legare poi questo errore alla pedofilia è una follia pretestuosa binettiana detestabile e voltastomaco oltre che propaganda  antistorica e antiscientifica. Un gay non deve guarire proprio da nulla non essendo malato di niente; né deve correggere nessun errore dato che non esiste nella sessualità la "cosa giusta", e meno male.
Perciò, se il testo parla di questo, la Rai non si faccia veicolo in una occasione simbolica così popolare di una tesi così sconfortante e grottesca che non ha riscontri né in ambito medico, né in ambito psicologico, né ovviamente nella storia emozionale delle tantissime persone che vivono la propria condizione con serenità e non col senso di colpa e il rimorso di non essere nel giusto.
Diverso sarebbe, molto diverso, se questo Luca invece non fosse più gay semplicemente perché il suo orientamento sessuale ed emotivo un giorno prendessero un'altra direzione; in questo caso  non potremmo censurare questa scelta perché se lo facessimo daremmo  per scontato che l'omosessualità, come l'eterosessualità, siano condizioni eterne, fisse, stabilite una volta per tutte. Dogmi indiscutibili poggiati sull'idea che è solo la natura a fornirci le basi per le emozioni e guidare l'orientamento sessuale.
In questo senso non possiamo continuare a usare parole come "transgenderismo" solo per il gusto di modernizzare il linguaggio e poi non capire che il senso anarcoide di questo concetto è proprio nella fine delle classi sessuali per come sono andate cristallizzandosi, la fine delle divisioni basate sull'orientamento sessuale etero/omo, la fine delle categorie che da sessuali sono diventate socioeconomiche, sociopprimenti.
Dunque perché mai qualcuno non potrebbe diventare etero? O trans? O transomosessuale, come molte trans che diventano poi lesbiche?
Se questo qualcun* (uso l'asterisco perché le molteplicità emozionali/fisiche sono infinite) non guarisce da una malattia che non esiste ma cambia orientamento o genere (e che dire poi dei tantissimi che non hanno nessuna preferenza sessuale, né etero né omo) per una consapevole e felicissima determinazione delle proprie sensazioni e del proprio corpo allora perché non ammettere che anche un gay può diventare etero?
Perché insomma continuiamo a difendere solo il diritto sessuale per nascita, come dio comanda, e non ammettiamo che la vita, la storia e le suggestioni vanno ben oltre il duopolio sessuale? Se ci avvitiamo solo su questa certezza commettiamo lo stesso errore della canzonetta, finiamo per dire che la biologia è l'unica fonte di felicità umana e che le relazioni invece non contano un cavolo.
Nessuno qui vuole difendere l'indifendibile, chi sostiene che i gay siano malati, ma non possiamo sottrarci all'idea che la sessualità è qualcosa di complesso, meravigliosamente complesso, troppo complesso per ridursi a soltanto due categorie, diventate categorie del marketing umano, del marchio umano. E non si può del resto ridurre la sessualità solo a preferenza sessuale. Perché allora non pensare ad un mondo senza generi (non senza differenze), una società "no gender" che rivoluzioni e ripensi l'idea stessa di etero ed omosessualità. Siamo davvero felici dentro le maglie di queste due megacontenitori che discriminano di fatto le persone in queste anguste case chiuse della sessualità? Chiediamoci non per gusto del paradosso intellettuale ma per la convinzione di poter e dover cambiare le cose del mondo: è possibile una liberazione a/sessuale, cioè che si concentri sulle persone e non sulle categorie cui appartengono?
Per l'operaio la lotta di classe è necessaria; i gay invece non possono voler entrare in una contrattazione collettiva. I loro diritti sono diritti universali umani, di tutti, non di una categoria. E vanno rivendicati come tali, non come diritti di nicchia. Come tanti uomini illuminati si sono uniti alla lotte femministe pur non essendo donne ma capendo che i diritti delle donne erano diritti di tutta l'umanità.
Siamo tutti froci e siamo tutti etero! Questa sarebbe la nuova rivoluzione. Il rifiuto di dirci omo o etero condizionati. Un rifiuto non della propria condizione ma del marchio di fabbrica che è diventata nella società dello spettacolo, anche per la miopia di molte organizzazioni gblt che hanno avuto manie separatiste. Chi se ne frega di quello che sono. E se non me ne frego io perché devi fregartene tu, della mia vita? A chi, a cosa serve sapere che sono frocio o sapere che non lo sono? All'industria delle mutande? A quella di Sanremo? Alle aziende che ti possono licenziare meglio inducendoti a vergognarti del tuo stato? Pensare a una società in senso comunista significa anche superare questo tipo di classificazioni. Interrompere i meccanismi di potere e  di controllo che da sempre generano. Liberare i sogni e i bisogni umani. Continuare a vedere le cose o bianche o nere, anche nella sessualità, significa accomodarsi nel salotto buono dell'immutabilità della condizione umana. Rinunciare al marchio omo/etero non significa rinnegare la propria condizione, non essere più orgogliosi di essere quello che si è. Ma  immaginare che un altro mondo emotivo è possibile, e sapere che la dicotomia omo/etero è spesso un freno alle nostre felicità perché finiamo per fare quello che  la nostra  classe sessuale ci chiede più o meno chiaramente.
Un pensiero transgender radicale dice che le persone non sono un gay, un etero, una trans. Non sono un target. Ma sono finalmente Mario, Maria, Mari, Mar, Ma, M. E se anche fossero tutte queste cose insieme, la società rinunci a dargli un nome, in nome della libertà. Riprendiamocela, questa libertà.

p.s. Detto questo ognuno è libero di chiamarsi e farsi chiamare etero o gay. Io personalmente da anni non accetto che qualcuno metta accanto al mio nome il mio presunto nome sessuale.


Liberazione 28/01/2009

 

Accordo del 22 gennaio: un patto contro il lavoro

 

Ugo Boghetta*


Prima ancora che separato, l'accordo sottoscritto il 22 gennaio è da considerarsi sciagurato, irresponsabile. Il protocollo infatti ripropone e aggrava l'impostazione economica e sociale che sta alla base della crisi in atto: bassi salari, diseguaglianze. Si prevede, in effetti, la diminuzione strutturale del potere d'acquisto attraverso l'allungamento della validità contrattuale a tre anni e un indice europeo per l'inflazione decurtato, guarda caso, di quell'energia che è più costosa per le famiglie italiane del 45% . Ciò a fronte di salari diventati in otto anni ultimi fra i paesi occidentali. Un paese, l'Italia, che per altro ha visto un travaso dai salari ai profitti ed alle rendite di oltre il 10% del Pil: caso unico, e dove ci sono i più poveri d'Europa ma anche i più ricchi.
In secondo luogo, anche là dove, ci sarà la fantomatica contrattazione di secondo livello, l'oggetto della medesima consiste in aumenti salariali legati a più sfruttamento, più orario, più precariato. In questo caso invece gli italiani sono in testa per ore lavorate, per flessibilità e insicurezza.
Nella contrattazione di secondo livello, inoltre, norme generali possono essere derogate in peggio per difficoltà aziendali; cioè sempre. Gli aumenti per i lavoratori pubblici sono legati invece ai vincoli della finanza al contrario degli incentivi alle imprese. Così le disparità, altro fattore di crisi, fra settori, aziende, territori, singoli lavoratori sono destinate ad aumentare. Le aziende invece non sono impegnate in nulla salvo continuare a prendere incentivi fiscali che altro non sono che tasse pagate dai lavoratori.
In buona sostanza il lavoro è subordinato totalmente all'impresa, al mercato, alla finanza: un accessorio. L'occupazione e lo sviluppo economico dipendono da più sfruttamento. La dinamica salariale non è un fattore importante per quanto riguarda le scelte economiche. Si vuole dunque continuare a stare nella crisi della globalizzazzione con salari e diritti ancora più bassi. Ma quanto possono diventare bassi i bassi salari e i pochi diritti?!
Viene qui a compimento un capovolgimento dell'approccio al tema del lavoro iniziato con la strategia dell'Eur: «il salario non è una variabile indipendente» e la politica dell'Eur; proseguito con il taglio dei quattro punti di scala mobile di Craxi. Poi c'è stata la sequela degli accordi concertativi: tutti "separati" dagli interessi dei lavoratori. Per arrivare, passo indietro dopo passo indietro, ad oggi.
Non poco del degrado politico, sociale, morale del paese, e soprattutto della sinistra, dipende dall'involuzione dell'approccio alla questione del lavoro.
Ovviamente l'evento sottintende una questione importante: il modello sindacale. Con la firma sul protocollo Cisl e Uil hanno rinunciato ad una funzione storica di tutela, anche moderata magari, di interessi collettivi autonomi rispetto a quello dei padroni. Non si è più nemmeno "avvocati". Sindacato "complice" dice il Libro Verde di Sacconi. Sindacato "giallo" si diceva un tempo per definire i sindacati creati dai padroni.
Bene ha fatto dunque la Cgil a non firmare e a reggere a pressioni e sirene. Ai sindacati di base non è stato concesso nemmeno di poter dire no. Il nostro appoggio alla lotte che si svilupperanno nelle prossime settimane, a partire dalla richiesta di referendum, sarà pertanto totale.
Non si può sfuggire, tuttavia, alle questioni politiche di fondo che l'accordo e la fase pongono.
La concertazione è morta perché governo, Confindustria non la vogliono e Cisl e Uil l'hanno rinnegata. E' morta anche perché è stata negativa per i lavoratori ed inefficace per quanto riguarda l'evoluzione del sistema economico e sociale.
Si tratta, dunque, di mettere anche in discussione un modello di politica sindacale che non c'è più ed ha fallito. La fase di lotta che si apre non può essere perciò finalizzata a riconquistare un tavolo, un diritto di veto come in parte è accaduto in passato. E la ricerca dell'unità sindacale non può essere una priorità della fase. Il tema riguarda la riconquista di una centralità sociale, politica del lavoro, il prospettare obiettivi di cambiamento radicale del paese non più basato sulla negazione del lavoro stesso, dei diritti e dei temi ambientali, il ripensare al ruolo del pubblico come programmazione ma anche come gestione per un economia stabile, sicura, pulita.
Al contrario, tanto a destra come nel Pd, ci si interroga sulla durata della crisi facendo riferimento al Pil e alla finanza come se nulla fosse accaduto. E' un parlare senza senso. E' la domanda stessa ad essere sbagliata: rappresenta il concetto di "passare la nottata".
E in questa riflessione incrociamo un Veltroni che ha aperto la strada all'accordo e avanzato la proposta dell'ennesimo taglio alle pensioni ed all'articolo 18. Letta addirittura ha dichiarato che i contenuti dell'accordo sono quelli del Pd e che avrà effetti positivi quando sarà passata la crisi, come se il modo con cui uscirne fosse indifferente. E lo stesso D'Alema, pur contrario, non va molto oltre l'inopportunità dell'accordo separato.
Ma l'accordo avrà anche altre conseguenze. Il Patto per l'Italia del 2002 fu accompagnato dalla legge 30. Questo accordo porta già con sé un intensa attività legislativa per favorire gli enti bilaterali, aumentare il ruolo della certificazione e dei contratti individuali dove tutti i diritti sono oggetto di mercanteggiamento e ricatto, desertificare il processo del lavoro.
L'accordo affronta anche la questione delicata della rappresentanza e mette di fatto in crisi il concetto di sindacati maggiormente rappresentativi. Non si comprende, tuttavia, se nei prossimi mesi la discussione di queste regole riguardi i soli sottoscrittori dell'accordo e se il modello della rappresentanza sia quello (Cisl) dei soli iscritti ai sindacati (certificati dall'Inps). E' invece chiaro l'obiettivo per cui durante le trattative non si sciopera e che solo i "sindacati separati" possono farlo "alla fine della tregua sindacale predefinita". Pazzesco! Prima si stabilisce una tregua durante la trattativa, cioè nel momento in cui è di buon senso metter in campo il massimo della vertenzialità, poi si potrà fare sciopero. Ma quale sciopero faranno mai dei sindacati complici?!
Tutto l'accordo in realtà pone il tema della democrazia. Ed è dalla democrazia che si può e si deve ricostruire un opposizione ed un nuovo progetto di classe per il lavoratori e per il paese.

*responsabile nazionale Lavoro Prc


28/01/2009

 

Legge elettorale, inciucio Pd-Pdl:c'è l'accordo sullo sbarramento

 

Le "consultazioni" del ministro Vito: soglia al 4%, ecco la Grande Riforma per tenere fuori la sinistra. Il Prc: atto mai visto

 

Enrico Colorni


Sembrava non ci fossero i tempi. Sembrava non ci fosse l'accordo. Sembrava che il Pd fosse contrario. Sembrava, appunto. Come i ladri di Pisa, i vertici di maggioranza di centrodestra e di centrosinistra hanno pensato bene di aspettare l'ultimo minuto utile, per mettersi d'accordo. E per cambiare la legge elettorale delle prossime elezioni europee a meno di quattro mesi dal loro svolgimento. Trattasi di golpe in piena regola, ma questa volta protesta forte solo la sinistra, Rifondazione in testa. L'Udc, per ora, tace. O meglio, come dice Buttiglione, "riflette". Eh sì, perché l'unico cambiamento in gioco sta appunto nell'alzare - di molto - la soglia di sbarramento, portandola dallo 0,7-0,8% "pratico" di oggi (formalmente non c'è nessuno sbarramento, in pratica tanto serve per conquistare almeno un seggio) al 4% tondo tondo, una soglia molto alta e molto vicina ai "desiderata" del Pdl, che era partita chiedendo il 5%. Ma le preferenze non sarebbero toccate, nemmeno con marchingegni "alla svedese" o "alla belga", come pure avevano proposto quei geni di costituzionalisti del Pd, e come in qualche modo voleva anche il Pdl (Forza Italia, più che An). L'Udc, dunque, potrebbe cantar vittoria. La sinistra solo il suo de profundis.
Ma vediamo cosa è accaduto nella cronaca politica della giornata di ieri. La "consultazione" tra le forze politiche - o, più propriamente, tra i gruppi parlamentari, visto che dell'opinione di quelli fuori dal Parlamento (centristi di Mastella compresi) nessuno s'interessa - è stata riaperta dal ministro Elio Vito, che già oggi dovrebbe riferire sull'esito dell'iniziativa alla Conferenza dei capigruppo della Camera, convocata per le 15.
Come prima cosa, l'ineffabile Vito ha cercato di assicurarsi la posta grossa, e cioè il via libera del Pd. E c'è praticamente riuscito. Ieri pomeriggio, infatti, il ministro ha incontrato una delegazione del Pd composta ai massimi livelli, e cioè dal capogruppo Antonello Soro e dai suoi due vice Marina Sereni e Gianclaudio Bressa ottenendo un importante via libera sul nodo principale, quello dello sbarramento. Da alzare al 4%. L'ipotesi viene presentata come una "mediazione" tra la proposta iniziale del Pdl (il 5%) e quella del Pd, che teoricamente si era sempre fermata al 3%, ma è chiaro che il Pd non vedeva l'ora di "mollare", sul punto. L'altro punto - grottesco, se non fosse drammatico - è che dalle ricostruzioni che circolavano ieri a Montecitorio la "Grande Riforma" della legge elettorale per le europee potrebbe sostanzialmente finire qui. Dopo l'introduzione della soglia di sbarramento, infatti, tutto resterebbe inalterato, sia per quanto riguarda il mantenimento delle preferenze sia per il numero delle circoscrizioni elettorali, che resterebbero cinque. E dei grandi propositi di riforma della legge avanzati dal relatore Calderisi (Pdl-Fi) in commissione Affari costituzionali (abolizione delle preferenze e introduzione della preferenza unica, ridisegno delle circoscrizioni, che dovevano diventare molte di più, tra 10 e 12, soglia di sbarramento variabile tra il 3 e il 5%), propositi discussi per mesi tra grandi stracciar di vesti reciproche, che resta? Meno di niente. Unico fine vero - e molto politico, per nulla tecnico - della riforma, è la soglia di sbarramento. Quella che serve per ammazzare la sinistra. Il resto sono chiacchiere buone per uffici studi.
Vito, però, vuole stravincere e dunque annuncia bugie travestite da mezze verità: «Lo scorso ottobre fu il governo a chiedere in aula di non discutere la riforma della legge elettorale perché non c'erano le condizioni politiche. Ora questa mia iniziativa non avviene a nome del governo (e a nome di chi, allora?, ndr), però mi è stato chiesto di svolgere una rapida consultazione con tutti i gruppi per verificare se ci sia la possibilità di riaprire il confronto». La possibilità c'è, anche perché il Pd - ammicca Vito - è d'accordo.
Il capogruppo del Partito Democratico Antonello Soro mette la sua consueta faccia di bronzo e spiega serafico ai giornalisti: «Non è una novità la nostra disponibilità a una soglia di sbarramento al 4% (falso tre volte, come Giuda: il Pd ha sempre parlato di non voler superare il 3%, ndr). La novità piuttosto è il tentativo di verificare convergenze. Ed è giusto che la verifica di queste convergenze sia fatta non da un'iniziativa unilaterale e che il tentativo sia affidato al governo». Un'iniziativa "non unilaterale", dunque, per Soro il governo Berlusconi (noto per il suo understatement e la sua imparzialità) è quello indicato a prenderla. Par di sognare, ma è così. Da oggi - se tutti fossero d'accordo ma ci si aspetta che qualcuno alzi la voce, oltre alla sinistra: l'Idv, per esempio, non ha davvero nulla da dire? - si potrebbe già partire. Non per forza dalla commissione, magari direttamente già in aula. Poche settimane e il golpe è riuscito.
Per ora, s'indigna solo la sinistra. O, meglio, solo Rifondazione. Paolo Ferrero ci va già durissimo: «La scelta consociativa che emerge tra maggioranza di centrodestra e opposizione di centrosinistra è quella della modifica delle regole di gioco per elezioni in corsa, a quattro mesi dallo svolgimento delle elezioni medesimi, un atto mai visto, del tutto anti-democratico e decisamente dal sapore golpista. Introdurre la soglia di sbarramento, per di più al 4%, per le Europee non ha alcun senso logico e nessun rapporto con la governabilità, che con il Parlamento europeo non c'entra nulla. L'unica motivazione è impedire alla sinistra di entrarci», afferma ancora Ferrero, aggiungendo che «si sta consumando un inciucio in cui evidentemente il Pdl ha ottenuto il via libera del Pd su federalismo fiscale e cda Rai e in cambio è pronta a garantire a Veltroni la possibilità di raggranellare qualche voto in più, visto che è in calo di consensi. Veltroni così cerca di distruggere per sempre la sinistra: lo ha fatto con la logica del voto utile alle politiche, cerca di farlo ora per legge alle prossime europee. Si tratta di una logica folle e suicida che avrebbe un solo unico risultato: permettere alle destre di governare il nostro Paese per i prossimi quarant'anni».
Dello stesso tenore il comunicato del responsabile Organizzazione Claudio Grassi. Restiamo in fervida attesa che qualcun altro - oltre ai soliti socialisti di Nencini e centristi di Mastella (che pure si sono fatti sentire, e parecchio, in questi mesi e in questi giorni) - alzi la voce. Ne va della democrazia di un Paese. E di regole del gioco che non si cambiano in corsa per far piacere a se stessi.


Liberazione 28/01/2009

 

Bolzaneto, lo Stato non vuole risarcire le vittime

di Massimo Calandri

su la Repubblica del 27/01/2009

G8, l´Avvocatura ricorre: nessuna provvisionale. Sconcerto tra i legali delle parti civili

Dopo aver chiesto ufficialmente scusa per i soprusi e le violenze commesse dai propri uomini nella caserma di Bolzaneto, lo Stato italiano si rifiuta di risarcire le vittime. Attraverso la propria Avvocatura ha infatti appellato la sentenza del luglio scorso, che condannava funzionari di polizia, agenti e guardie carcerarie a pene minime e ad un risarcimento ? in solido con i Ministeri di appartenenza ? di circa due milioni di euro. Non è un´istanza scontata, quella presentata nei giorni scorsi alla Corte d´Appello di Genova: c´è la concreta possibilità di ribaltare il verdetto ? è scritto nelle 15 pagine depositate -, e allora perché mettere mano al portafogli col rischio di non vedersi più restituire il denaro? Una tesi clamorosa che ha provocato sconcerto e polemica tra i legali delle parti civili. A quasi otto anni dalle «torture» ? parola ribadita dai giudici motivando la loro decisione -, le centinaia di persone passate per il carcere del G8 attendevano almeno un anticipo sulla somma loro dovuta. Quella che tecnicamente viene definita provvisionale. Ma lo Stato, pur riconoscendo che i no-global nel luglio 2001 subirono «vergognose vessazioni», non ci sta. Penalmente sa bene che la prescrizione tra qualche giorno cancellerà tutto. Sul piano civile, confida in un verdetto ancora migliore di quello dell´estate passata: «Il favorevole esito dell´impugnativa proposta ? scrivono gli Avvocati dello Stato, Matilde Pugliaro e Giuseppe Novaresi ?imporrebbe quindi un recupero di quanto indebitamente versato che, in mancanza di garanzie reali, e vista la molteplicità dei destinatari ? molti dei quali, oltretutto, residenti in differenti Stati ? rischierebbe di non andare a buon fine». Vale la pena di ricordare che la provvisionale, suddivisa tra 142 aventi diritto, ammonta a circa un milione di euro. Nell´appello vengono denunciate anche la «contraddittorietà intrinseca del dispositivo» e la «assenza di correlazione tra dispositivo e motivazione».
Sei mesi fa Renato Delucchi, presidente della terza sezione del tribunale, aveva condannato 15 dei 45 imputati a 23 anni e 9 mesi di reclusione, meno di un terzo rispetto a quanto simbolicamente chiesto dai pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. I giudici avevano di fatto riconosciuto l´esistenza a Bolzaneto di un "campo", ammettendo la sconfitta della giustizia italiana: costretti ad applicare le leggi a disposizione, che non disciplinano il reato di tortura, avevano escluso il dolo e l´aggravante dei "futili motivi". Alla vigilia della sentenza l´Avvocatura si era rivolta alle 252 persone passate per la "prigione temporanea": «Sentiamo il dovere di esprimere le doverose scuse, che provengono direttamente dallo Stato italiano ? avevano ribadito in aula Matilde Pugliaro e Giuseppe Novaresi -. Nei giorni del G8 sono state poste le premesse perché in un luogo carcerario si esasperasse una concezione totalitaria del rapporto tra individui». Addirittura era stato negato il "nesso organico" tra gli imputati e la pubblica amministrazione: poliziotti, carabinieri e guardie non potevano più essere considerati "servitori dello Stato". E lo Stato non si sentiva dunque più responsabile per gli atti da loro commessi. Una tesi che però il tribunale non aveva accolto, condannando anche i ministeri al pagamento dei danni.

UN ACCORDO CONTRO I LAVORATORI

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Modello contrattuale, Cisl, Uil e Ugl firmano il testo del Governo. Epifani no

di Fabio Sebastiani

su Liberazione del 23/01/2009

L'hanno chiamato "accordo-quadro per la riforma del modello contrattuale, valido sia per il settore privato che per quello pubblico". In realtà è il pezzo di carta che distruggerà il contratto nazionale. Cisl e Uil, e Ugl, come da copione, hanno firmato, mentre la Cgil ha opposto un secco "no". «Il livello nazionale di contrattazione non recupererà mai l'inflazione reale» e, con il testo finora elaborato, «non si allarga davvero il secondo livello», mentre la derogabilità «diventa un principio generale, la bilateralità si allarga a compiti impropri e crea una casta», ha tuonato Guglielmo Epifani uscendo da palazzo Chigi. Il segretario generale della Cgil non ha sbattutto la porta perché è un signore, ma le parole che ha usato sono state abbastanza eloquenti. Cisl e Uil, in pratica, hanno sottoscritto un provvedimento che non solo sarà difficile da gestire nei luoghi di lavoro ma che non porterà un euro nelle tasche dei lavoratori. «Il Governo - ha aggiunto Epifani - ha forzato per ottenere l'accordo». Un modo come un altro per sottolineare il carattere tutto politico dell'intesa.
Il testo prevede la durata triennale tanto per la parte economica quanto per quella normativa, assetto su due livelli e calcolo dell'incremento salariale in base ad un indice di inflazione previsionale, «in sostituzione del tasso di inflazione programmata». Il provvedimento, avrà «carattere sperimentale e per la durata di quattro anni», in sostituzione di quello vigente che risale al '93, ed ha l'obiettivo «della crescita fondata sull'aumento della produttività e l'incremento delle retribuzioni». Per il secondo livello di contrattazione è necessario «che vengano incrementate, rese strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure volte ad incentivare in termini di riduzione di tasse e contributi, la contrattazione di secondo livello che collega incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di produttività».
La Cgil è stata accusata di aver opposto una posizione «ideologica», ma quello che dice il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha davvero dell'incredibile e suona un po' come la "legge delle XII tavole". «Per la prima volta, nei fatti, si abbandona l'approccio conflittuale - afferma - che ha caratterizzato largamente il nostro modello di relazioni e si afferma un modello di tipo cooperativo. È una novità storica che interviene nel vivo di una grande crisi globale il cui superamento sarà agevolato dalla propensione che le parti manifestano nel condividere gli sforzi per crescere».
Il mondo sindacale è in subbuglio.
«L'accordo della complicità nella distruzione del contratto nazionale», sottolinea il segretario nazionale della Fiom Giorgio Cremaschi. «Lo contrasteremo ovunque, a partire dallo sciopero generale di metalmeccanici e pubblico impiego del 13 dicembre, in ogni vertenza contrattuale e in ogni luogo di lavoro».
Per Nicola Nicolosi, leader dell'area "Lavoro Società" in Cgil, «l'accordo separato sulle regole implica una risposta immediata di lotta». «Questo atto apre il conflitto sociale nel paese - aggiunge Nicolosi - e quando le regole vengono scritte contro l'organizzazione sindacale più grande del paese a quel punto tutte le regole sono mese in discussione». Nicolosi imputa la responsabilità di questa conflittualità sociale «oltre che al Governo e a Confidntria, anche a Cisl e Uil».
Nel tavolo sulla crisi, collegato a quello sulla riforma dei modelli contrattuali, l'esecutivo si è presentato a mani vuote affidando tutto il peso alle Regioni e fidando su contratti di solidarietà e settimana corta. L'unica novità, peraltro tardiva, è che il prossimo mercoledì ci sarà il confronto sul settore automobilistico.
Le proposte partorite dall'esecutivo si articolano in sette diversi punti: il primo riguarda la «devoluzione alle Regioni e alle parti sociali del territorio della funzione di valutazione e negoziazione, in un quadro che rifiuta pericolosi automatismi, delle richieste di protezione per lavoratori ritenuti in esubero congiunturale o strutturale». Il secondo capitolo individua invece una serie di possibili strumenti da utilizzare: «contratti di solidarietà, cassa integrazione a rotazione e/o ad orario ridotto, settimana corta». Al terzo punto, il governo mette la necessità di coniugare integrazione del reddito, servizi di accompagnamento al lavoro e attività di apprendimento, mentre al quarto, spunta l'estensione potenziale, senza automatismi, a tutti i lavoratori subordinati delle forme di integrazione del reddito. Tutela attiva dei collaboratori a monocommittenza e degli inoccupati con servizi all'impiego e formazione; trattamenti economici progressivamente calanti in modo da stimolare comportamenti attivi e responsabili ed effettività delle sanzioni applicate a coloro che rifiutano un offerta «congrua» di lavoro o di formazione sono gli ultimi tre capitoli.
Critiche aspre all'accordo separato sono venute dal Prc.
«Si è compiuto il disegno del centrodestra e di Confindustria di spaccare l'unità sindacale», ha detto il segretario del Prc Paolo Ferrero. «E' la logica che già nel 2002 praticò Berlusconi», ha osservato il leader di Rifondazione comunista. «E' gravissimo che Cisl e Uil si siano prestate a questo gioco la cui risultante sarà l'ulteriore riduzione dei salari reali, cioè l'esatto contrario di quello che andrebbe fatto per contrastare la crisi». «Adesso si trata di organizzare l'oposizione a questo sciagurato accordo. E noi diamo sin da ora il massimo di appoggio e di disponbilità alla Cgil e al sindacalismo di base per organizzare l'opposizione e farlo saltare nei fatti, come si fece nel 2002», continua Ferrero. «Vogliamo sperare che anche il patito democratico - conclude - si pronunci nettamente contro questo accordo separato». 

Contratti, è patto separato La Cgil non firma

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 23/01/2009

L'accordo separato è arrivato alle otto e dieci di ieri sera, con una velocità impressionante: dopo un incontro durato poco più di un'ora, con una pausa di trenta minuti in mezzo. In un primo momento sembrava che governo, imprese e sindacati dovessero fare la nottata, perché l'intenzione dell'esecutivo, come delle imprese, Cisl, Uil e Ugl era di firmare appena possibile: invece tutto si è concluso entro l'ora di cena, e addio al Patto del luglio '93, sembra aprirsi davvero una nuova epoca. Senza la Cgil, il sindacato più rappresentativo, che ha deciso di non siglare il documento.
Il governo nel primo pomeriggio aveva incontrato imprese, sindacati e Regioni per esporre la sua proposta anti-crisi, un testo di tre pagine intitolato «Linee guida per la tutela attiva della disoccupazione». Poi, alle 18,30, l'incontro con le associazioni di impresa e i sindacati per discutere del modello contrattuale. Il governo si è dimostrato subito intenzionato a chiudere, se possibile entro la nottata: la proposta è arrivata dal sottosegretario Gianni Letta («se volete facciamo notte...»). Sia il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi che il segretario Cisl Raffaele Bonanni, subito dopo, hanno dichiarato in sincrono che «la crisi è un motivo in più per accelerare l'accordo». Insomma, il pressing è apparso fortissimo sin dall'inizio.
Il negoziato si è fermato una prima mezz'ora per trovare la quadra tra un nuovo documento presentato da Confindustria, e un testo proposto dal ministro Renato Brunetta: sono stati integrati per arrivare a un modello unico pubblico/privato. E' a questo punto che il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, ha dichiarato che «se il documento non è modificabile, non c'è l'accordo della Cgil». Ma la modifica auspicata non è mai arrivata, e tutti gli altri protagonisti al tavolo hanno detto sì. Da parte datoriale, c'è da segnalare la scelta manifestata da Abi, Ania, Lega cooperative, Cida e Confedir: hanno condiviso il testo con riserva, rinviando la propria firma ai prossimi giorni.
Per il ministro Sacconi «l'accordo sostituisce quello del 1993»: «Avremmo preferito l'adesione della Cgil ma era necessario, come hanno ritenuto tutti gli altri attori sociali, mettere un punto fermo nella lunghissima vicenda: era prevalente rispetto all'idea di soggiacere a una sorta di veto». Acido il ministro Brunetta: «Nessuno ha il diritto di veto. Anche i contratti del pubblico impiego li abbiamo fatti senza Cgil». Sull'altro fronte, Epifani spiega che «il governo ha firmato in direzione di un'intesa che sapeva non avrebbe trovato l'accordo della Cgil. Ci è stato presentato stasera, integrato con la parte relativa al pubblico impiego che non si conosceva. Era un prendere o lasciare e la Cgil non era d'accordo». «Non sono contento, il Paese ha bisogno di unità ma non si può chiedere coraggio a quelli che lo hanno avuto e hanno pagato i prezzi più grandi. Noi preferiamo mantenere una linea di rigore e serietà».
Adesso bisognerà capire le prossime mosse della Cgil. Intanto, il 13 febbraio c'è lo sciopero dei metalmeccanici e del pubblico impiego, poi c'è la manifestazione, annunciata l'altroieri, prevista da tutta la Cgil per il 4 aprile. Ma di fronte al fatto «storico» di ieri (tanti protagonisti, da una parte della barricata e dall'altra l'hanno definito in questo modo), il 4 aprile sembra lontano e sembra troppo poco.
Dal fronte della Fiom dichiara subito il segretario nazionale Giorgio Cremaschi, che è anche coordinatore della Rete 28 aprile: «È l'accordo della complicità per distruggere il contratto nazionale. A partire dal 13 febbraio con lo sciopero dei metalmeccanici a Roma lavoreremo per ribaltarlo in tutti i contratti, nei luoghi di lavoro».
Il testo prevede una sperimentazione per 4 anni, e prevede contratti di durata triennale (economica e normativa) sia per il pubblico che per il privato. Il contratto nazionale ne esce trasformato in versione «light»: avrà la sola funzione di «garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi», ma non si fa alcun riferimento nè alla tenuta nè tantomeno al recupero del potere di acquisto dei salari. Punto a cui la Cgil teneva. Ci sarà un nuovo indice europeo per la misura dell'inflazione (l'Ipca), depurato però dei beni energetici (anche su questo la Cgil è sempre stata contraria). Il secondo livello, seppure citato, non è garantito, ripetendo di fatto su questo punto l'inefficacia del patto del '93. Viene poi imbrigliato il ruolo delle categorie nella negoziazione, e guadagna peso il livello interconfederale.
La frase finale dell'accordo parla da sola: «Le parti confermano che obiettivo dell'intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l'aumento della produttività»: manca qualsiasi riferimento ai salari, alla loro tenuta e al loro aumento.
Quanto invece al testo approntato per far fronte alla crisi, le «linee guida» presentate dal governo a regioni e parti sociali contengono solo intenti: è vero che si prende atto dell'urgenza della situazione e del fatto che le azioni devono essere «tempestive e mirate», ma per ora non si quantifica nulla, nè si stanziano risorse definite. D'altra parte non si è ancora raggiunta un'intesa, soprattutto con le Regioni, che dovrebbero sborsare, nell'intenzione del governo, buona parte delle risorse destinate agli ammortizzatori sociali. La Cgil boccia il testo: «C'è delusione - commenta Epifani - Più il tempo passa, più i precari sono senza tutele. Se il governo non mette risorse aggiuntive, non si esce da questo problema». Inoltre, conclde il segretario della Cgil, «la social card si poteva fare in maniera meno umiliante».

 

 

Oltre l'entusiasmo, i dubbi

di Marilde Provera

su Aprile online del 23/01/2009

Gli azionisti FIAT e il mondo finanziario non possono che essere soddisfatti. Il manager Sergio Marchionne ha dimostrato di essere un dirigente capace. Il gruppo FIAT trarrà sicuramente benefici dall'accordo realizzato. Ne trarrà in termini di immagine collocandosi fra i 6 potenziali competitori mondiali, ponendosi in prospettiva nella condizione di avere la maggioranza in uno dei tre maggiori produttori automobilistici americani (e non essendo o acquisito o obbligato ad accordi faticosi). Non siamo in presenza di un pasticciato e pericoloso accordo come lo fu quello con General Motors (per fortuna cancellato!) che si stipulò con una FIAT in grave crisi sia come settore dell'auto sia come Gruppo nel suo insieme. Si pone in condizione di stipulare anche in Europa un accordo vantaggioso con Peugeot. Creatività, tempestività, segno di vitalità per un gruppo fino a poco tempo fa in crisi, ecc.ecc., gli entusiasmi del mondo del denaro e dell'impresa riempiono le pagine dei giornali e le televisioni; giustamente per quanto li riguarda.

Ma per i lavoratori e le lavoratrici in Italia, a TORINO, quali ricadute ha tale accordo?
Non è detto che un rilancio europeo e mondiale del Gruppo e in particolare di FIAT Auto S.p.A. sia positivo anche per la produzione e l'occupazione nel nostro Paese ed in particolare per Torino.

Per quel che se ne sa il 35% delle azioni Chrysler acquisite da FIAT vedrà come contropartita non l'esborso di denaro (la Famiglia è sempre stata un po' taccagna in fatto di investimenti produttivi) ma la trasmigrazione negli U.S.A, del patrimonio di esperienza e conoscenza italiane, di tecnologie, piattaforme, motori e componenti per la produzione di AUTO PIU' ECOLOGICHE e con minori consumi; è questa una condizione per la Chrysler (che negli USA ha perso 1/3 del suo mercato) per potere avere i finanziamenti addizionali previsti dal Governo americano (4miliardi).
Così si rischierà anche in prospettiva con eventuali accordi Peugeot in quanto il governo francese sostiene le proprie aziende ma a condizione che non delocalizzino l'attività e non riducano l'occupazione in Francia.

E i nostri lavoratori che fine faranno su tutte quelle attività che sono doppioni? Al nostro Paese in termini di produzione, occupazione, ricerca, cosa arriverà da Chysler? Non è previsto nulla. Dunque l'accordo si può tradurre nel fatto che mentre per l'azionariato (i padroni, si diceva una volta) si aggiungono valori e opportunità, per i lavoratori si ripresentano rischi di riduzioni produttive e perdita anche della produzione di KNOW-HOW. Forse è per questo che Marchionne si è preparato collocando in CIG anche tutta la parte di lavoratrici e lavoratori degli Enti Centrali.

Diventa dunque importante che in tale fase ci si attivi al più presto per definire con la proprietà e il suo Manager l'impegno per progettare, sperimentare e produrre, a Torino, un nuovo mezzo di trasporto individuale ecologicamente all'avanguardia e compatibile con i nuovi problemi di traffico e consumi da contenere. Ci sono gli spazi, le conoscenze, le esperienze per fare tutto ciò. Va dunque definito il progetto di utilizzo degli stabilimenti italiani, tra i quali quelli torinesi sono e devono rimanere strategici.
La definizione di un prodotto innovativo e di qualità è indispensabile innanzitutto per garantire la continuità del lavoro (occupazione) e, quindi, per potere discutere di una migliore prestazione delle maestranze (lavoratrici e lavoratori) quale elemento qualitativo indispensabile per avere un prodotto di avanguardia e competitivo anche nel tempo. Si aprirebbe così la prospettiva per potere ridiscutere di come produrre, migliorando la professionalità e rivedendo le modalità dei tempi e della fatica necessaria. E tutto ciò va giustamente retribuito perché è valore per l'azienda e per tutto il Paese.

Negli anni passati abbiamo richiesto, a Torino e in Piemonte, e infine ottenuto (seppure tardivamente) un intervento pubblico per garantire il lavoro a Mirafiori (70 milioni di € per fare tornare una linea produttiva e riassorbire i Cassa Integrati). Oggi il tema si ripropone, amplificato dalla crisi. Governo e istituzioni locali devono intervenire economicamente ponendo vincoli e condizioni di garanzia sulla qualità produttiva e sull'occupazione. L'intervento economico del Governo a supporto della produzione dell'auto legandola a regole, che garantiscano produzioni e tecnologie innovative in tema ambientale e dei consumi di energia e di spazio e che vincoli il mantenimento delle produzioni al territorio di insediamento nazionale, diventa oggi più che mai indispensabile. Va richiesto da tutte le forze politiche assieme ad un consapevole movimento di tutti i lavoratori e le lavoratrici e dei loro sindacati.

 

Precarietà, come uscirne?

di Tito Boeri e Massimo Roccella

su Liberazione del 29/01/2009

Tito Boeri La proposta del «contratto unico» è stata presentata per la prima volta dal professor Pietro Garibaldi e da me nel 2002 all'università Statale di Milano e poi sul sito lavoce.info. Siamo passati da una fase di sostenuta crescita economica, in cui si registravano significativi tassi di crescita del prodotto interno lordo, non accompagnata però da un'altrettanto sostenuta capacità del sistema di generare nuovi posti di lavoro (è ciò che nelle pubblicazioni in lingua inglese viene definita jobless growth , crescita senza lavoro), a una situazione esattamente rovesciata, in cui la nostra economia è entrata in una fase di stagnazione che di fatto continua da circa la metà degli anni Novanta e tuttavia è riuscita a creare moltissimi posti di lavoro, più di 2 milioni.
Siamo passati dalla crescita senza posti di lavoro alla crescita del lavoro senza crescita economica [...]. Questo è un fenomeno - sulla cui analisi teorica abbiamo lavorato molto io e il professor Garibaldi - che abbiamo definito honeymoon , cioè «luna di miele»: quando in un mercato del lavoro che ha un regime di protezione dell'impiego abbastanza forte si introduce la possibilità per il datore di lavoro di assumere dei lavoratori molto flessibili e non eccessivamente tutelati, i datori di lavoro possono costruirsi una specie di «cuscinetto» di lavoratori, i quali saranno i primi a essere mandati via qualora la situazione del ciclo dovesse peggiorare. Ecco perché può avvenire che, anche quando l'economia non va a gonfie vele, si registri un aumento dell'occupazione.
Chiarito il quadro di fronte al quale ci troviamo, passiamo a vedere le patologie dalle quali è affetto, che sono principalmente tre. Il primo aspetto rimanda all'eccessiva complessità normativa determinata dalla moltiplicazione delle figure contrattuali [...]. Il secondo aspetto davvero grave e preoccupante concerne l'asimmetria molto forte che penalizza soprattutto i giovani, perché sono loro a entrare nel mercato del lavoro da una porta secondaria, attraverso queste nuove tipologie contrattuali [...]. La terza patologia è forse quella più grave. I lavoratori precari sono destinati ad avere carriere lavorative discontinue, con frequenti episodi di disoccupazione e salari bassi. Con le nuove regole del regime previdenziale - un regime di tipo contributivo - questi lavoratori sono destinati ad arrivare alla fine della loro carriera lavorativa con dei trattamenti previdenziali molto bassi, in molti casi al di sotto del minimo vitale [...].
Veniamo allora alla nostra proposta. Noi pensiamo che si debba superare questa stridente asimmetria tra i contratti a tempo indeterminato e le altre tipologie contrattuali, asimmetria che si è creata anche per l'incentivo fortissimo che le imprese hanno nel ricorrere ai contratti flessibili, dal momento che quelli a tempo indeterminato hanno fin da subito - o meglio, dopo il periodo di prova - regimi di protezione dell'impiego molto stringenti. Nella nostra proposta noi sosteniamo che si debbano creare degli standard minimi applicati a tutte le tipologie contrattuali; per esempio i contributi previdenziali devono essere gli stessi per tutti i tipi di lavori che vengono svolti [...]. In secondo luogo deve essere istituito un salario minimo orario, che deve tutelare tutti i lavoratori, e quindi anche quelli cosiddetti precari, i quali molto spesso hanno un potere contrattuale così basso da essere costretti a svolgere prestazioni a dei salari orari davvero bassissimi. Pensiamo solo al fatto che in Italia ci sono persone che percepiscono meno di 5 euro all'ora [...]. Il nostro «contratto unico» si prefigge infine di rendere progressiva la costruzione delle tutele nei primi tre anni del rapporto lavorativo, in modo tale da non porre il datore di lavoro di fronte al forte deterrente all'assunzione costituito dalle garanzie contenute nel tradizionale contratto a tempo indeterminato.

Massimo Roccella Boeri e Garibaldi continuano a fare riferimento all'Ocse, sostenendo che il nostro mercato del lavoro sarebbe caratterizzato da uno dei regimi più restrittivi per quanto riguarda le tutele nei confronti del licenziamento, ma lo fanno trascurando dati della stessa fonte Ocse che oggi dicono esattamente il contrario [...]. Tutte le cose che si sono scritte per sostenere, in primo luogo, che la nostra legislazione in materia di licenziamento è particolarmente restrittiva e, in secondo luogo, che, quand'anche non lo fosse, molto restrittivi sarebbero i giudici del lavoro, non soltanto non riposano su dati empirici, ma anzi sono da questi contraddette.
Questa è la cornice teorica entro la quale è formulata anche la proposta del «contratto unico», ed è evidente che se la cornice teorica non regge alla prova empirica anche la proposta concreta ne risulta compromessa.
I giuristi sono abituati a utilizzare le parole con proprietà di linguaggio e quindi se dicono «contratto unico», intendono dire proprio «contratto unico». Invece nella proposta di Boeri e Garibaldi il contratto unico non è affatto un contratto unico. È un contratto ulteriore, nel senso che verrebbe introdotta una nuova tipologia contrattuale che si affiancherebbe a tutte quelle oggi esistenti, le quali rimarrebbero perfettamente in vita così come sono, grossomodo identiche [...]. Ora: questo contratto potrebbe essere uno strumento per migliorare le condizioni lavorative e le tutele rispetto alle situazioni attualmente esistenti? No, sfortunatamente le peggiorerebbe. Il contratto unico sarebbe sì un contratto a tempo indeterminato, ma si badi bene che «contratto a tempo indeterminato» non è affatto sinonimo di impiego stabile [...]. Di questo appunto si tratta nel caso della proposta dei professori Boeri e Garibaldi: un contratto a tempo indeterminato con libertà di licenziamento nei primi tre anni di durata del rapporto.

Tito Boeri Oggi i vari contratti atipici costituiscono il canale principale di ingresso nel mondo del lavoro: sappiamo che il 70 per cento dei lavoratori sotto i 40 anni viene assunto tramite queste nuove formule contrattuali. Per cui, quando l'Ocse nel corso del tempo aggiorna i suoi indicatori, è evidente che recepisce anche le novità della legislazione. E questo spiega la diminuzione del punteggio attribuito all'Italia. Tale diminuzione è dovuta unicamente ai contratti atipici, non ai contratti regolari, la cui rigidità è rimasta uguale nel corso del tempo. Fatta questa precisazione, perché definiamo la nostra proposta «contratto unico»? L'idea è che il contratto a tempo indeterminato deve tornare a essere la modalità principale di ingresso nel mercato del lavoro, per tutti. Noi siamo contrari a dei trattamenti specifici per i giovani, perché i trattamenti specifici sono quelli che spesso portano a delle condizioni di dualismo e di segregazione [...]. Non pensiamo che sia giusto proibire tutti gli altri contratti oggi esistenti, perché tale misura comporterebbe il serio rischio di distruggere posti di lavoro [...]. Quanto alla critica mossa dal professor Roccella secondo la quale il nostro contratto abbasserebbe le tutele, rispondo che non è affatto vero. Sicuramente le innalzerebbe moltissimo rispetto a coloro che entrano nel mercato del lavoro con le modalità attuali. Poiché è sicuramente molto più forte la protezione garantita da un contratto a tempo indeterminato sul modello del nostro «contratto unico», rispetto a quella garantita dai contratti di collaborazione coordinata e continuativa (nella pubblica amministrazione) o dai contratti a progetto (nel settore privato).

Massimo Roccella L'indice Ocse è stato costruito sui rapporti di lavoro a tempo indeterminato. I lavori atipici non c'entrano, sono un'altra cosa [...]. Ritorniamo al contratto unico. Ribadisco: qui davvero si rischia di parlare due linguaggi diversi. Non ha nessun senso comparare le mele con le pere e dire, ad esempio, che alla scadenza di un contratto a termine il lavoratore non ha diritto a nulla, mentre nel caso del contratto unico sin dall'inizio avrebbe diritto a qualche cosa. Bisogna comparare situazioni omogenee. Quello che è certo è che, se tu sei licenziato durante un contratto a termine in maniera arbitraria, hai diritto a un risarcimento integrale del danno, corrispondente alle retribuzioni del periodo sino al termine originario del rapporto, mentre nel caso del contratto unico ventilato da Boeri e Garibaldi, il risarcimento sarebbe veramente irrisorio.
Ma andiamo al punto di sostanza [...]. Boeri e Garibaldi immaginano che al termine del triennio il datore di lavoro, avendo investito in capitale umano, sarebbe portato quasi automaticamente a confermare il lavoratore in servizio con tutte le tutele dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma le cose non stanno affatto così: questa è una rappresentazione semplificata del mercato del lavoro, come se esistessero imprese tutte identiche e lavoratori tutti identici. In particolare l'offerta di lavoro è assolutamente diversificata: ci sono lavoratori con competenze molto elevate ed altri con competenze molto basse, destinati a mansioni per il cui espletamento è necessario e sufficiente un brevissimo periodo di prova, non certamente tre anni come immaginano Boeri e Garibaldi. Pensate che per imparare a fare il cassiere di un supermercato sia necessario un periodo di inserimento di tre anni? E pensate che al termine del triennio non sarebbe molto più conveniente per il datore di lavoro licenziare quel lavoratore e assumerne un altro, sempre con clausola di licenziamento incorporata? La verità è che in questo modo si finirebbe col creare una casta molto ristretta di lavoratori che accederebbero al beneficio dell'articolo 18, circondata da un vastissimo settore del mercato del lavoro che alla stabilità non arriverebbe mai. Allora sì, a quel punto l'articolo 18 diventerebbe un privilegio e si creerebbero le condizioni per la sua abrogazione definitiva.

Stralcio dalla tavola rotonda "Dialogo sui precari e il contratto unico" sul prossimo numero di "MicroMega" in libreria da domani

«Mannaggia alla miseria» Tra i nuovi schiavi a Eboli

In 700, marocchini, si spezzano la schiena per 25 euro al giorno. Ma sono fantasmi

 

Stefano Galieni
San Nicola Varco non poteva avere collocazione più evocativa. Una località "fantasma" fra Eboli e Battipaglia, lungo la statale 18, nel mezzo della Valle del Sele. Terra fertile che produce tutto l'anno, d'inverno carciofi e finocchi, in primavera le fragole e poi pomodoro pregiato. Terra ben coltivata, ai campi si alternano le serre, il lavoro non manca e di braccia ne servono, soprattutto per i lavori più faticosi, quelli di raccolta. Qualche masseria, una stazione dove non ferma alcun treno e poi "loro". Loro sono circa settecento lavoratori marocchini, per lo più ragazzi fra i 16 e i 25 anni, i veri invisibili ma fondamentali abitanti di S. Nicola Varco.
Lo scenario è surreale: una strada che si inoltra nei campi, un casale diroccato, pozzanghere, poi costruzioni fatiscenti, rappezzate con tavole, metallo, plastica, copertoni usati per tenere fermo ciò che funge da tetto. Passano ragazzi, chi in bici, chi con vecchi scooter, i fortunati in automobile. Il paese più vicino sorge a 7 chilometri, tanti per fare un po' di spesa. Tutti salutano Anselmo Botte con un cenno o con un sorriso. Anselmo, sindacalista Cgil, qui è conosciuto come il "sindaco sanatoria", cerca di aiutare tutti, da anni. Non con la carità ma con l'apertura di vertenze. Si informa e segue le singole storie personali, le mille vicende di fatica e di difficoltà che ognuno di loro vive. La sede del sindacato di Battipaglia è un punto di raccolta. Poi capitano le emergenze, capita che freddo e umidità rendano impossibile la vita nei locali ricavati da quello che resta di un mercato ortofrutticolo rimasto sulla carta, quattordici gli ettari di terreno destinati a ospitarlo, parzialmente edificato negli anni '80, 36 miliardi di vecchie lire inutilmente spese.
Fabbricati ormai a pezzi, una lunga distesa di box e due enormi magazzini utilizzati come servizi igienici.
Gli insulti del tempo non hanno risparmiato infissi e tramezzi, alle finestre fogli di nylon o plexiglass al posto dei vetri, e poi improvvisate pareti divisorie. Poco per resistere alle intemperie, senza riscaldamenti o corrente elettrica, e allora il sindacato è intervenuto anche distribuendo centinaia di sacchi a pelo, perché è impossibile costruire relazioni e prospettive se si è lontani anche dai bisogni primari. L'impatto visivo è desolante: una sola fontanella di acqua potabile, ciuffi di erba crescono accanto a cataste di immondizia, ci vuole tempo per comprendere come un ambiente così inospitale abbia in realtà un suo ordine. In uno spazio si è attrezzato un piccolo negozio: abbigliamento e scarpe sportive sono i prodotti esposti; un soffio di vento trasporta il profumo del pane. Alcuni dei ragazzi hanno messo in piedi un piccolo forno, focacce alte e fragranti, vendute a basso costo. E poi quattro distinti locali adibiti a bar (c'è anche la corrente grazie ai gruppi elettrogeni), una moschea, quello che consente di andare oltre la sopravvivenza fisica. Il rapporto con la Asl garantisce adeguata assistenza sanitaria ma spesso non basta. Ci si ammala di lavoro, facilmente, ci si sfibra rapidamente quando si trascorrono 10 ore al giorno alle raccolte (quella dei finocchi è la più faticosa). Le cure prestate dagli ospedali a volte non sono ben comprese da chi ne usufruisce. Ahmed (il nome è fittizio) ci mostra il referto che gli diagnostica un'ulcera alla caviglia. Esibisce certificati e fasciatura con un sorriso complice e un po' furbo, quello di chi attende una conferma. Dopo la visita è stato "adescato" da un avvocato che gli ha prospettato la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno. Ahmed non sa se crederci. Anselmo, aiutato nella traduzione da un ragazzo che parla un ottimo italiano, gli consiglia di non prendere impegni e di non cacciare un euro. La diagnosi non garantisce un permesso di soggiorno (Ahmed può essere curato anche nel proprio paese) e il legale potrebbe essere uno dei tanti sciacalli pronti ad approfittare del bisogno di una speranza.
La speranza si chiama infatti "permesso di soggiorno" o meglio, regolarizzazione.
La situazione dei 700 lavoratori di S. Nicola è infatti inchiodata a un pezzo di carta, le loro braccia servono, se se ne andassero l'agricoltura nell'area si perderebbe, la loro presenza non intralcia e non crea allarmi sociali, vivono lontani dai centri abitati, ma al 90% sono irregolari. Ogni tanto, si crea l'allarme, la minaccia di uno sgombero dettata dall'ennesimo progetto speculativo sull'area. L'idea partorita in Regione, proprietaria degli stabili, è quella di un polo agroalimentare per l'intera valle. Un polo che comprende prodotti e produttori ma non chi, su quella terra ci si spezza la schiena. Altre decine di milioni di euro destinati a finire nei meandri dell'affarismo immobiliare. Regolarizzare chi lavora, garantire il minimo sindacale, consentirebbe di abbandonare quei tuguri, permettergli un affitto e una residenza, mandare "qualcosa" di più a casa. La ricerca del profitto e l'ottusità delle leggi negano questa soluzione. Anselmo ha ripreso le storie individuali e la complessità di un contesto che per certi versi è unico nel Mezzogiorno. Sono pochi qui quelli che seguono la rotta dei raccolti spostandosi di regione in regione. Si lavora tanto, da primavera ad inverno inoltrato, un lavoro che potrebbe permettere stabilità ma che farebbe saltare le condizioni di neoschiavismo. A metà febbraio Anselmo pubblicherà "Mannaggia la miserìa" con l'accento sull'ultima sillaba, come lo pronunciano quei lavoratori, un libro che racconta i loro quotidiani drammi di sopravvivenza.
Quei lavoratori provengono quasi tutti dalle zone agricole interne del Marocco, da province come Beni Mellal, hanno un basso livello di istruzione e in Italia fanno quello che sanno fare, coltivare la terra. Vengono in cerca di un futuro migliore, di un salario per mandare soldi a casa, trovano un ghetto e uno stipendio da fame, 25 euro al giorno. La mattina percorrono il tratto di strada che li separa dalla Statale, i caporali passano in continuazione, a volte sono italiani a volte conterranei che li sfruttano. Passano con furgoni e station wagon, li caricano e li depositano nei campi di raccolta.
Si paga per lavorare e si deve sottostare alle condizioni dei caporali, opporsi o sfuggire sembra impossibile. Un ragazzino, 16 anni al massimo, corre fra le pozzanghere su un vecchio "Ciao", un altro su una bicicletta si barcamena con una enorme tanica di acqua che sembra sempre lì per cadere. In questi giorni non c'è lavoro per tutti e una parte dei ragazzi bighellona in piccoli gruppetti. Sono in molti ad aver voglia di parlare, ma non di lavoro, non oggi. In uno dei bar servono thè fumante e dolce, come si usa in Marocco, versato con maestria. Una sala piena di volti attenti, la tv con la parabola è ferma su "Al Jazeera" le immagini di Gaza, quelle vere, quelle che i media occidentali evitano di mostrare, fanno salire la rabbia. Difficile non cogliere un nesso fra il rancore per le condizioni di vita e di lavoro, l'apartheid vissuto sulla propria pelle perché il diritto è quello di esserci come braccia ma non come persone. E l'odio, per chi uccide in Palestina. Il fango dei campi a Gaza e quello del "ghetto" sono troppo simili. Hamid domanda cosa ne pensiamo della guerra, rispondiamo che quella non è una guerra ma un massacro. «Allora - ci chiede con forza - non lasciateci da soli».


Liberazione 30/01/2009

 

 

La Cgil non molla: referendum Il Pd ora rimane in silenzio

Epifani: assemblee con voto. Il governo insiste: due mesi per la firma

 

La Cgil non molla e sui contratti chiama i suoi lavoratori a pronunciarsi: via da subito una fase di assemblee in tutti i luoghi di lavoro con tanto di voto. Ossia, ecco il referendum. Ecco la risposta a tutte le critiche giunte a Epifani dagli altri sindacati e da Veltroni. Con tanto di condimento: manifestazione nazionale a Roma il 4 aprile, preceduta dallo sciopero del 13 febbraio di Fiom e Fp, dalla manifestazione dei pensionati a Roma il 5 marzo, dallo sciopero dei settori della scuola a fine marzo e due iniziative di mobilitazione in Puglia e in Sicilia sul Mezzogiorno e un pacchetto di 4 ore di sciopero a disposizione delle strutture territoriali. «Saremo propositivi, non siamo una forza che dice solo no - ha detto il segretario Epifani, aprendo ieri i lavori del direttivo Cgil - chiederemo ai lavoratori, pubblici e privati, di esprimersi su documenti articolati che spieghino le nostre ragioni e le nostre proposte, che sono quelle contenute dalla piattaforma unitaria».
C'è da dire che il terreno per la contrarietà a questo accordo separato fra Confindustria, Cisl e Uil è già fertile. Lo hanno dimostrato i 300 che ieri mattina si sono trovati sotto la sede del ministero del Lavoro di via Flavia: «No all'accordo di contratto separato. Un accordo che riduce la contrattazione ed il salario», ha spiegato il segretario della Cgil del Lazio Di Berardino. Sempre ieri, all'insegna dello slogan "uguali diritti a lavoratori diversi" oltre 500 tra delegati di fabbrica e componenti delle Rsu di Enti locali, uffici pubblici, ospedali del Veneto si sono incontrati a Padova per discutere le ragioni dello sciopero generale delle due categorie indetto per il 13 febbraio. La speranza è che l'appuntamento diventi qualcosa di ancora più ampio. Ma non sono le sole mobilitazioni annunciate. Gli edili saranno in piazza il 17 febbraio in tutti i capoluoghi, contro la crisi e il nulla fatto finora dal governo, ma anche contro l'accordo (come hanno già fatto con un presidio a Milano martedì scorso). Ogni categoria è mobilitata. Su più temi. Mancherebbe solo lo sciopero generale. Ma prima o poi ci sarà. Anche perché la Cgil può contare solo sulla sua forza e sul suo radicamento. Altro non c'è.
Ieri l'accordo separato si è arricchito di altre due firme: l'associazione di categoria degli assicuratori e Legacoop. Nulla di sorprendente, per carità, ma chiamarle ancora cooperative rosse con le motivazioni che hanno espresso per la sottoscrizione è davvero imbarazzante (Legacoop sostiene che «la riforma rappresenta uno degli strumenti per affrontare la grave crisi economica in atto e per preparare le condizioni della ripresa». Con meno salario e lo sciopero limitato?). Ma il vero punto di sofferenza è la politica. Che prova a chiudere la tenaglia su Corso Italia con la piena complicità del partito di riferimento, il Pd. Sono stati infatti prorogati fino al 31 marzo i termini per l'indagine conoscitiva sulla riforma dei contratti della Commissione Lavoro alla Camera. Due mesi con un nuovo giro di consultazioni (Cgil, Cisl, Uil e Ugl, Confindustria, Aran e Abi) «per capire innanzitutto l'efficacia dell'accordo e come può funzionare senza uno o più interlocutori», spiega il presidente Scaglia (Pdl) «e per capire se ci sono spazi per trovare una sintonia sugli obiettivi e se c'è ancora spazio per un dialogo». L'obiettivo è presto detto - e lo spiega Giuliano Cazzola, il vero timoniere del centrodestra in materia - «un prosieguo di trattativa in cui potrebbe entrare la Cgil sulla rappresentatività sindacale». Dispiace dirlo, ma visto come sono andate finora le cose, suona come un ricatto.
A meno che adesso governo e Cisl-Uil-Ugl, la nuova triade, abbiano paura ad affrontare i rinnovi contrattuali con piattaforme diverse e basi diverse. Si, perché come spiega a Rassegna Sindacale l'esimio giuslavorista torinese, Massimo Roccella, «la Cgil può continuare a lavorare tenendo presente di essere vincolata esclusivamente dall'accordo del 23 luglio 1993, che il sindacato di Corso d'Italia non ha mai disdetto. Peraltro quell'accordo non risulta esser stato disdetto da nessun altro. Quindi la Cgil potrà continuare a presentare piattaforme per il rinnovo biennale dei livelli retributivi, così come è scritto in quell'accordo in cui la concertazione venne assunta a metodo. Questo da un punto di vista strettamente giuridico. Da un punto di vista sindacale, invece, è chiaro che si determinerà una situazione di grande incertezza e caos». E questo caos come sarà gestito? Anche la segretaria dell'Ugl, Renata Polverini, ammette l'impasse: «C'è la possibilità che si arrivi al rinnovo con più piattaforme e questo creerà problemi». Tutti zitti i big del Pd che esternano su qualsiasi cosa. Parla qualche seconda fila.
Ma dove sono gli ex-segretari nazionali della Cgil, Paolo Nerozzi e Achille Passoni, le braccia destra e sinistra di Epifani fino all'altro ieri ed eletti nel Pd? Ah già sono al Senato. Alla Camera ci sono Damiano e Boccuzzi e una schiera di margheriti... E dov'è "il partito di chi lavora" promesso da Veltroni? In Sardegna a fare campagna elettorale e commentare così i sondaggi che non sono proprio lusinghieri per il suo leader: «C'è un mondo virtuale, che io rispetto, fatto di dichiarazioni e interviste e poi un mondo reale di persone che guarda con crescente attesa e fiducia al Partito democratico». Il gelo tra Pd e Cgil è tale che anche il riformista della Fiom, l'uomo più liberal tra i metalmeccanici, colui che per anni ha sfidato l'organizzazione più compattamente di sinistra, praticamente da solo, Fausto Durante, ha abbassato le braccia: «Trovo particolarmente infelice il fatto che il segretario del Partito democratico, commentando il recentissimo accordo separato sulla struttura contrattuale, non trovi di meglio che augurarsi che la Cgil accetti l'innovazione riformista. Personalmente non vedo traccia di riformismo nell'accordo separato del 22 gennaio, cioè in un testo che pianifica la riduzione del salario, mortifica la contrattazione aziendale anziché qualificarla, snatura la funzione del sindacato e, infine, fornisce risposte assolutamente insufficienti, oltre che anacronistiche, ai gravissimi problemi che la crisi provoca all'apparato industriale italiano e a tutti i lavoratori». Perché così è. E si può continuare a invocare una politica virtuale e un paese reale, bisogna scegliere prima o poi da che parte stare.
M.V.


Liberazione 30/01/2009

Cgil: con la riforma dei contratti si perdono trecento euro l´anno

di Roberto Petrini

su la Repubblica del 26/01/2009

"Recupero più soft dell´inflazione". Divisioni nel Pd. L´impatto del nuovo sistema sui salari. Sacrifici ancora più forti per gli statali. Uil: Epifani scorretto

Una perdita secca di 1.352 euro, circa 300 l´anno, per i lavoratori privati e che per gli statali può essere maggiore. E´ questa la cifra che la Cgil ieri ha denunciato dagli studi della popolare trasmissione televisiva "Domenica in" e che testimonia gli effetti per le tasche dei lavoratori dell´accordo firmato la settimana scorsa sul nuovo assetto contrattuale. I 1.352 euro, di cui ha parlato il segretario confederale della Cgil Agostino Megale, rappresentano la perdita nel corso degli ultimi cinque anni, cioè dal 2004 al 2008 compreso, se gli aumenti contrattuali e i recuperi del tasso d´inflazione fossero stati calcolati con le nuove regole e non in base alle vecchie intese del luglio del 1993. In termini percentuali con il vecchio sistema i lavoratori del settore privato avrebbero recuperato il 2,4 per cento, con l´attuale sistema avrebbero perso il 2,1 per cento. «Per il sistema delle imprese ? ha detto Megale ? ci sarebbe stato un guadagno di 15-16 miliardi».
Con l´Accordo quadro del 22 gennaio infatti cambiano alcuni parametri che rendono l´inflazione più "leggera". In primo luogo il recupero si fa al netto della bolletta energetica (mentre in passato si parlava genericamente delle ragioni di scambio); proprio per questo motivo anche gli aumenti si calcolano ora in base ad un valore del "punto" retributivo più basso. Ad esempio: il punto retributivo dei metalmeccanici, cioè il valore in termini di salario di un punto d´inflazione, con il vecchio sistema era di circa 18 euro, con il nuovo scende a 15,35 cioè di circa il 15 per cento.
La situazione peggiora per gli statali che perderebbero circa il 30 per cento del valore del loro punto. Per questo motivo la Cgil dei pubblici dipendenti è sul piede di guerra: infatti gli aumenti per gli statali sono stati vincolati ? sembra su richiesta dello stesso ministro dell´Economia Tremonti preoccupato per la cassa ? all´andamento della finanza pubblica.
Intanto è sceso in campo nuovamente il ministro della Funzione pubblica, Brunetta: «Possibile che tutti hanno torto e solo la Cgil ha ragione?». Polemiche anche da parte del segretario della Uil ligure, Massa, che ha criticato Epifani per aver utilizzato la manifestazione su Guido Rossa per «muovere critiche scorrette e inopportune». Serrato anche il dibattito all´interno del Pd. «Qual è la posizione del Pd su contratti e referendum sindacale?», ha chiesto Franco Monaco. Contro l´accordo si è espresso l´ex segretario confederale della Cgil Nerozzi che ha definito «incomprensibili» le posizioni di quegli esponenti del Pd che lo difendono. Dopo le sortite di D´Alema e Bersani, a fianco della Cgil, il leader del Pd Veltroni si è augurato che si arrivi ad una soluzione «che tenga conto anche della Cgil». L´ala ex Margherita sembra invece più orientata ad appoggiare l´intesa e in questo senso si sono espressi Enrico Letta, e i due ex segretari della Cisl Marini e D´Antoni.

 

Diversi e uniti nello sciopero

di Loris Campetti

su Il Manifesto del 27/01/2009

L'operaio della Ferrari e l'impiegato del catasto, l'informatico e l'ospedaliera. Il 13 febbraio incroceranno le braccia insieme contro le ricette di Berlusconi che aggravano la crisi. E contro l'accordo separato sui contratti che peggiora le condizioni di vita e di lavoro. Manifestazione a Roma indetta da Fiom e Funzione pubblica Cgil

L'operaio professionale della Ferrari è diventato ormai famoso come l'idraulico polacco in Francia o l'idraulico Joe di McCain. Sarà pure un provocatore, il ministro Brunetta che contrappone il meccanico al dipendente del catasto, ma non è stupido, sa dove infilare il pugnale: tra le costole dei lavoratori, per dividerli tra privati e pubblici, perché ad attizzare quelli del nord contro quelli del sud, o quelli indigeni contro quelli immigrati, ci pensano già Bossi e i suoi leghisti. Mentre l'attacco alle pensioni di tutto il governo e dei confindustriali punta a dividere i lavoratori anziani da quelli giovani, e i maschi dalle femmine.
Sta tutto qui il significato straordinario di uno sciopero generale nazionale promosso insieme dai lavoratori pubblici della Fp-Cgil e dai metalmeccanici della Fiom-Cgil. Saranno centinaia di migliaia a manifestare insieme a Roma, il 13 febbraio, contro il tentativo di diverli. Straordinario, perché è la prima volta che avviene in Italia. Non è un'invenzione politicista dell'ultima ora di Gianni Rinaldini e Carlo Podda, segretari di Fiom e Fp), per modificare gli assetti di potere interni alla loro confederazione; è una battaglia politica e sociale trasparente per ricomporre quel che la crisi, il governo e i padroni tentano di frantumare sostituendo la solidarietà con la competitività, riducendo il conflitto capitale-lavoro a una guerra tra poveri, cioè tra lavoratori.
Capita al momento giusto questo sciopero «unitario», che al di là del valore in sé - o proprio per il suo valore - ha già avuto un ruolo importante all'interno della Cgil. Era stato convocato già per il 12 dicembre e poi sospeso, quando la confederazione aveva scelto quella data per indire il suo primo sciopero generale dell'era Berlusconi ter. Nel frattempo è successo di tutto, gli accordi separati si sono moltiplicati nel pubblico come nel privato, nel commercio come nell'artigianato. Fino all'ultimo, il padre di tutti gli accordi separati, quello che controriforma il sistema contrattuale italiano tanto nei settori pubblici che in quelli privati. Per forza di cose, questo tema è stato al centro dell'affollata conferenza stampa con cui ieri i segretari Podda e Rinaldini hanno spiegato le ragioni della scelta fatta dai gruppi dirigenti della Fp e della Fiom. Un accondo inaccettabile nella forma (anche Carlo Azeglio Ciampi, ricordando la nascita del sistema varato il 23 luglio del '93 che oggi si vorrebbe gettare alle ortiche, ha definito sbagliato che le regole vengano imposte e non condivise da tutti i soggetti interessati) e nei contenuti che da giorni raccontiamo su questo giornale. Ancora più inaccettabile è la pretesa di Cisl e Uil di impedire che a decidere sulle nuove regole siano i lavoratori, cioè le vittime della controriforma. Ha buon gioco la Fiom a ricordare che il sistema di regole dei metalmeccanici, condiviso da tutte le organizzazioni sindacali, preveda il referendum su un accordo anche qualora sia una sola organizzazione a richiederlo (pubblicheremo nei prossimi giorni sul sito il regolamento nazionale di Fim, Fiom e Uilm). Non solo, i meccanici prevedono che la gestione della consultazione debba essere condotta unitariamente e coinvolgere tutti i lavoratori.
Lo sciopero del 13 febbraio - tre cortei attraverseranno Roma per concludersi con i comizi a piazza San Giovanni - è contro l'intera politica economica e sociale del governo. Podda e Rinaldini hanno spiegato lo stato in cui versa il paese reale, quello rimosso da Berlusconi e dai suoi ministri di punta. Un paese popolato da centinaia di migliaia di precari rimandati a casa, da operai di piccole imprese a rischio licenziamento perché privi di ammortizzatori sociali, da dipendenti delle grandi imprese costretti a vivere con un salario dimezzato dalla cassa integrazione in posti di lavoro sempre più traballanti. Giù i salari, giù i consumi, giù gli ordinativi, giù la produzione: è una spirale perversa, una macchina da guerra che ha per nemico da abbattere il lavoro. La situazione è aggravata dal progressivo taglio dei servizi pubblici, cioè dalla riduzione del welfare che va a colpire tutti, dipendenti e pensionati e soprattutto le donne, come hanno ricordato ieri Rosa Pavanelli per la Fp e Laura Spezia per la Fiom, che hanno denunciato insieme ai rispettivi segretari generali il tentativo governativo di ripartire all'attacco delle pensioni. La pretesa di portare obbligatoriamente a 65 anni l'età pensionabile per le donne in nome di una falsa eguaglianza, dicono, dev'essere fermata sul nascere.
Fp e Fiom continueranno a comportarsi come se l'accordo illegittimo siglato senza e contro la Cgil non esitesse e chiedono a Cisl e Uil di ritirare le loro firme per sottoporre il testo contestato al giudizio vincolante dei lavoratori. Solo qualora, al termine di una consultazione e di un voto democratico, i consensi dei diretti interessati fossero in maggioranza le due categorie della Cgil accetterebbero l'accordo. Va ricordato che su questo punto è stato il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, il primo a chiedere il referendum. Podda e Rinaldini rifiutano con nettezza la tesi secondo cui il loro sciopero sarebbe un atto ostile o di pressione sulla Cgil: al contrario, è un appuntamento nell'ambito delle iniziative della confederazione contro le politiche del governo e l'accordo separato, una tappa del viaggio che porterà a una grande manifestazione in aprile.

 

 

La CGIL non ci sta e non firma l'accordo col Governo sui contratti. Rifondazione Comunista: "Massimo sostegno alla lotta contro l'accordo separato", contro l'intesa proposta dall'esecutivo

https://esserecomunisti.it/dati/ContentManager/images/Lavoro%20e%20economia/fp_sciopero-prima.jpg

  

Colpo basso alla democrazia

di Loris Campetti

su Il Manifesto del 24/01/2009

Sempre più spesso capita che gli anziani si presentino alla cassa del supermercato con la mitica social card per scoprire, con un sentimento più di vergogna che di rabbia, che è vuota. E provate a chiedere a un operaio di terzo livello di Mirafiori in cassa integrazione come fa ad arrivare a fine mese. Al figlio, precario e licenziato, meglio non chiederglielo. Domandate poi a un artigiano come vanno i suoi rapporti con le banche e sentirete che risposta. Il paese reale sta precipitando in una crisi senza precedenti. E cosa fanno il governo, Marcegaglia, Bonanni, Angeletti? Loro, a differenza dei pensionati presi per i fondelli con la promessa di una mancia poi negata, non si vergognano. Anzi, siglano un accordo senza e contro la Cgil che è il sindacato più rappresentativo, dunque contro milioni di lavoratori. Un accordo che peggiora ulteriormente i salari, riducendone il potere d'acquisto. E il prossimo passo annunciato dalla stessa compagnia di giro è l'ennesimo attacco ai pensionati. Quelli umiliati e costretti a vergognarsi al supermercato da chi non prova vergogna.
Ha ragione l'incontenibile ministro Maurizio Sacconi: l'accordo di giovedì scorso che sancisce la morte del sistema contrattuale nato nel 1993 ha un carattere storico. Storico, perché le regole generali che hanno un valore erga omnes non sono condivise ma imposte. Storico, perché redistribuisce la ricchezza nazionale dai salari ai profitti e alle rendite. Storico, perché viene siglato dentro una crisi che travolge il paese reale e presenta ai più deboli il conto delle sciagurate scelte economiche, finanziarie e politiche dei più forti.
Le nuove regole si traducono in poche voci fondamentali: i contratti nazionali perdono di valore così come i salari, e come le categorie sindacali perché tutto passa in mano alle confederazioni; è il trionfo degli enti bilaterali, già oggi un cancro della democrazia nel lavoro, etichettabile sotto la voce consociativismo; si rimanda l'ipotetico recupero salariale ai contratti di secondo livello, quelli a cui solo una minoranza di lavoratori ha accesso. Avranno almeno la decenza di sottoporre le nuove regole al giudizio vincolante dei diretti interessati, i lavoratori dipendenti?
La Cgil non ha cercato la rottura, come recita la vulgata tifosa di politici e media. Al contrario, il segretario generale Guglielmo Epifani ha cercato in ogni modo di evitare uno scontro così duro dentro una crisi economica e sociale epocale. Il fatto è che i padroni e il governo, con qualche nostalgia per gli anni Cinquanta, volevano espellere dal gioco la Cgil sapendo che oggi, a differenza di sessant'anni fa, non solo non c'è il Partito comunista ma neanche si intravede un'opposizione di sinistra. Il lavoro non ha rappresentanza politica, e neanche una sponda. Il Partito democratico che sognava l'unificazione di Cgil, Cisl e Uil, oggi si divide più di quanto lo sia già sull'accordo separato.
A un attacco storico di questa portata si può rispondere solo con una straordinaria mobilitazione democratica. Pur conoscendo le difficoltà economiche e sociali in cui vivono i lavoratori, la Fiom e la Funzione pubblica Cgil hanno indetto uno sciopero generale per il 13 febbraio che si concluderà con una manifestazione unitaria a Roma. E' il primo appuntamento da segnare in agenda, per chiunque abbia a cuore la democrazia. Altri dovranno seguire. Non lasciamo sola la Cgil.

 

Addio al contratto nazionale e anche al diritto di sciopero

di Sara Farolfi

su Il Manifesto del 24/01/2009

Il secondo livello legato agli sgravi

«Le parti confermano che obiettivo dell'intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale (fondato sull'aumento della produttività, si dice altrove ndr) e l'aumento della produttività...». Le note conclusive la dicono lunga su quelle sei paginette che portano il titolo di «accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali», ma che somigliano piuttosto ad una radicale via d'uscita dalla crisi. Altro che moderazione salariale, come quella degli ultimi quindici anni, l'intesa separata (senza la firma della maggiore organizzazione, Cgil) sul modello contrattuale che manda definitivamente in soffitta gli accordi del 23 luglio 1993, disegna un modello dove il welfare si sposta progressivamente sugli enti bilaterali, e la contrattazione stessa si riduce a ben poca cosa. Al contratto nazionale - cui si potrà derogare, «in tutto o in parte», a livello decentrato - non resta che la garanzia di «una efficiente dinamica retributiva». La contrattazione di secondo livello, su cui tanto rumore è stato fatto, viene indissolubilmente legata alla defiscalizzazione concessa dal governo di turno (e dunque da questa, evidentemente, finanziata). Il diritto di sciopero, infine, viene messo pesantemente in discussione, con una norma che per ora riguarda i servizi pubblici ma che ben presto, a giudizio di molti, rischia di essere esportata anche nel privato.

C'erano una volta gli aumenti...
Il nuovo modello - sperimentale per quattro anni - disegna un sistema comune (contratti triennali) per il pubblico e il privato. Restano i due livelli di contrattazione, ma il contratto nazionale non avrà che «la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori». Nessun riferimento (come era invece nei precedenti documenti) a una tenuta, tantomeno a un recupero, del potere d'acquisto. L'indice armonizzato europeo (Ipca) depurato dei prezzi dei beni energetici, sostituirà il tasso d'inflazione programmata: l'elaborazione della previsione sarà affidata a un soggetto terzo. Stefania Crogi, segretaria generale della Flai Cgil - che probabilmente sarà la prima categoria a dovere affrontare un rinnovo con il nuovo modello - si è già fatta due conti: «Nel biennio precedente avevamo ottenuto aumenti salariali per 108 euro al mese, con il nuovo indice non supereremo la sessantina di euro». Per i metalmeccanici, stessa storia: dai 127 euro di aumento dell'ultimo contratto, si rischia di scendere fino a 40-50 euro in tutto». Tutto, ad ogni modo, sarà deciso a livello confederale, compreso il recupero di eventuali «scostamenti tra inflazione prevista e quella reale effettivamente osservata» (entrambi, naturalmente, depurati dagli aumenti dei beni energetici). Nel settore pubblico le cose vanno persino peggio, con gli aumenti vincolati «al rispetto e ai limiti della necessaria programmazione prevista dalla legge finanziaria».

Un modello centralizzato
Dell'estensione del secondo livello di contrattazione resta ben poco. La contrattazione decentrata resta tale e quale quella di oggi (e cioè una cosa per pochi affezionati). Gli aumenti salariali, anzi, oltre ad essere «collegati al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità e efficienza, nonchè ai risultati legati all'andamento economico delle imprese», vengono legati alla «riduzione di tasse e contributi» concessa dal governo: «la contrattazione di secondo livello - è scritto - deve avere caratteristiche tali da consentire l'applicazione degli sgravi di legge». In ogni caso il secondo livello «deve riguardare materie e istituti che non siano già stati negoziati in altri livelli di contrattazione». Sterilizzata l'autonomia delle categorie: qualora ci fossero problemi nel rinnovo, si prevede l'intervento delle confederazioni. Nulla invece sull'estensione della contrattazione nelle piccole e medie imprese (alle quali non si fa che un vago, e assolutamente non vincolante, riferimento), e nulla anche sull'elemento di «perequativo» (a garanzia di chi non fa contrattazione al secondo livello), fermo restando quanto già definito in specifici comparti produttivi (per i metalmeccanici, per esempio). Ma il colpo basso arriva sul diritto di sciopero: per ora si parla della contrattazione di secondo livello nelle aziende di servizi pubblici locali, dove si potranno «determinare l'insieme dei sindacati, rappresentativi della maggioranza dei lavoratori, che possono proclamare gli scioperi». Come se il diritto di sciopero fosse un diritto delle organizzazioni sindacali e non del lavoratore o della lavoratrice. Per quanto riguarda la rappresentanza sindacale, le parti dovranno trovare un accordo entro tre mesi.

 

Epifani: i nuovi contratti abbattono il potere d´acquisto

di Roberto Mania

su la Repubblica del 24/01/2009

"Così vince la legge della giungla un Paese diviso non supera la crisi". Io candidato alle europee con il Pd? È la cosa più volgare che potesse dire la Marcegaglia

«Mi chiede con quali regole si rinnoveranno i prossimi contratti? Con quelle della giungla, con la legge del più forte». Il giorno dopo la rottura sul sistema contrattuale, Guglielmo Epifani, leader della Cgil, non nasconde l´amarezza per un epilogo che - dice - ha cercato di evitare fino all´ultimo minuto. Il più grande sindacato è rimasto fuori da quella che è nei fatti la nuova costituzione per le relazioni sindacali. Una situazione che non ha precedenti. «E che - sostiene Epifani - è molto più grave delle rotture dell´´84 sulla scala mobile e del 2001 sul patto per l´Italia».
Ma allora perché non ha firmato? Meglio la giungla?
«Perché il testo che ci è stato presentato a Palazzo Chigi non era modificabile e non rispondeva in alcun modo alla posizione unitaria di Cgil, Cisl e Uil e approvata dai lavoratori. Quel testo è figlio della paura di fronte alla crisi. Anziché scommettere sulla funzione positiva che può avere la contrattazione per rendere più unito il Paese, la si limita a livello nazionale e la si comprime nelle aziende».
La riforma, però, punta proprio a rafforzare il ruolo della contrattazione in particolare quella in azienda.
«Rispondo che il contratto nazionale finirà per ridurre strutturalmente il potere d´acquisto e la contrattazione di secondo livello non sarà affatto estesa. Ma c´è di più: c´è un´idea di derogabilità del contratto nazionale tutta in negativo e un´interpretazione del diritto di sciopero del tutto lesivo del dettato costituzionale perché si fa stabilire alle parti sociali chi ha diritto a proclamare lo sciopero e chi no. Quest´accordo risponde a un obiettivo di divisione la cui responsabilità ricade sul governo ma anche sulla Confindustria che, anziché ricercare, come sta accadendo in tutto il mondo, di affrontare la crisi con coesione hanno esplicitamente scelto di dividere. Questa intesa destabilizza le relazioni sindacali».
Le ricordo che solo la Cgil ha deciso di non firmare.
«Nel costruire il consenso sul quel testo ci sono state evidenti forzature. Ed è un aspetto che andrà approfondito. Checché ne dica la Confindustria, la Cgil ha cercato fino all´ultimo di evitare divisioni. La verità è che quel testo era preconfezionato: prendere o lasciare».
Le potrebbero ribattere che quel testo è il risultato di un negoziato al quale lei non ha voluto partecipare.
«Non è vero: questa è solo una scusa. Il negoziato, se c´è stato, non ha coinvolto tutti i soggetti. La Cgil, per esempio, ha letto per la prima volta a Palazzo Chigi la parte sui contratti pubblici. La Cgil ha sempre presentato le sue proposte. Ma ora questo accordo dovrà essere discusso dai lavoratori. Lo chiederemo formalmente a Cisl e Uil».
Propone un referendum?
«Ci vuole il coinvolgimento dei lavoratori perché tutti gli accordi sulla contrattazione sono stati giudicati dai lavoratori. Sarebbe grave se non si facesse questa volta».
Qualche giorno fa ha detto che «è da matti» pensare alla riforma dei contratti mentre esplode la crisi. Le sembra più saggio mantenere un sistema contrattuale introdotto quando c´era ancora la lira e che in questi quindici anni ha contribuito a mantenere le retribuzioni degli italiani in fondo alla classifica europea?
«È "da matti" se si pensa ai contratti come priorità in questa fase, senza trovare soluzioni condivise, come ci chiedono i lavoratori, per affrontare la crisi. La grande differenza con il protocollo del ´93 è che quello era figlio di un´idea di coesione, di giustizia sociale, di politica di tutti i redditi mentre questo accordo si sviluppa in un vuoto pneumatico di progetto».
Molti si aspettano una retromarcia della Cgil. Accadrà?
«Si illudono. La Cgil andrà avanti sostenendo le sue opinioni e le sue proposte».
Non teme che d´ora in poi la Cgil possa essere esclusa dai rinnovi contrattuali? Presenterete le vostre piattaforme ma gli imprenditori faranno l´accordo con gli altri. È già successo due volte tra i metalmeccanici.
«Sono sempre stati i lavoratori ad approvare le piattaforme. La loro parola dovrà continuare a essere vincolante».
Il presidente di Confindustria Marcegaglia ha insinuato che lei stia pensando a candidarsi con il Pd alle prossime elezioni europee. Lo farà?
«È la cosa più volgare che la Marcegaglia potesse dire. È come se io dicessi che ha firmato l´accordo perché vuole diventare ministro del governo Berlusconi».
Qualche mese fa lei minacciò l´espulsione di Cremaschi dalla Cgil per la sua partecipazione a una manifestazione di Cobas. Ora però la linea di Cremaschi è quella della Cgil.
«È falso. La linea della Cgil è quella della proposta unitaria fatta con Cisl e Uil contro la quale votò Cremaschi».
Che fine faranno i legami con la Cisl e la Uil?
«Intanto subiscono un colpo molto forte. Dovremo mantenere l´unità operativa di fronte alla crisi, dalla Fiat a tutti gli altri settori. Ma la Cgil non avrebbe mai firmato un accordo sulle regole senza la Cisl e la Uil. Mai».

"Istituti senza fondi" a rischio le supplenze, I dirigenti: dal 2004 mezzo miliardo in meno
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)


SALVO INTRAVAIA

ROMA
Tra poche settimane le scuole non potranno più pagare i supplenti. Il grido d´allarme arriva dai dirigenti scolastici della Lombardia e dell´Emilia Romagna e la questione arriva in Parlamento. Secondo la Cgil le scuole vantano un credito dal ministero dell´Istruzione di circa 250 milioni di euro. Il sottosegretario Pizza riconosce lo stato di sofferenza degli istituti italiani e chiama in causa il ministero dell´Economia

Le prospettive per il 2009 non sono rosee: le scuole hanno i bilanci in sospeso, le visite fiscali stanno prosciugando le casse e gli organici verranno tagliati. È stato Fausto Gheller, dirigente dell´Ufficio scolastico provinciale di Lecco, il primo a denunciare la crisi finanziaria delle scuole. A fine dicembre ha inviato una lettera al ministero in cui segnalava la «difficile situazione degli istituti lecchesi» e un credito di oltre 3 milioni di euro. E pochissimi giorni fa, sono stati i dirigenti scolastici di Bologna e di Modena a puntare il dito contro il ministero: «mancano i fondi e a marzo non sarà possibile nominare i supplenti».
Nella scuola il meccanismo delle supplenze è piuttosto complicato: i più fortunati acciuffano una supplenza fino alla fine dell´anno e vengono pagati direttamente dal ministero dell´Economia; i meno fortunati devono accontentarsi delle supplenze di pochi giorni retribuite dalle scuole. Sono proprio queste ultime nell´occhio del ciclone.
Dal 2004 al 2008 il budget per le cosiddette supplenze brevi si è assottigliato, passando da 899 a 323 milioni di euro. Per attenuare la crisi economica delle scuole l´ex ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, sgravò a partire dal 2008 gli istituti dal pagamento delle supplenze per maternità e della tassa sui rifiuti. Contestualmente, il budget per le supplenze venne calcolato in base al numero dei docenti in servizio, incrementato al massimo del 50 per cento. Ma la situazione è rimasta critica e per fare fronte alle esigenze le scuole hanno dovuto attingere ad altri capitoli di spesa cumulando un credito enorme. «Il problema delle supplenze c´è - dichiara Massimo Di Menna della Uil scuola - ma non solo: dallo scorso anno le scuole devono pagare le visite fiscali e non si sa ancora di quanto saranno decurtati i bilanci». Per Francesco Scrima, leader della Cisl scuola, «le scuole già a febbraio incontreranno difficoltà a pagare i supplenti». «La settimana prossima - continua- rappresenteremo il problema al ministro Gelmini».
A viale Trastevere sono consapevoli del problema ma hanno le mani legate. Lo scorso 12 dicembre il deputato del Pd Lucia Codurelli aveva presentato un´interrogazione in commissione Cultura. La risposta del ministero è arrivata quattro giorni fa. «Con riferimento al 2008 - risponde il sottosegretario, Giuseppe Pizza - il ministero ha effettuato un monitoraggio delle spese imputabili al fondo per il funzionamento delle scuole ritenute assolutamente incomprimibili», tra le quali proprio quelle relative alle supplenze brevi. «Tale accertamento - prosegue il sottosegretario - ha evidenziato, in effetti, un´insufficienza degli stanziamenti di bilancio» segnalata «tempestivamente al ministero dell´Economia». Per il solo 2008 le scuole sono in attesa di 137 milioni che potrebbero arrivare a breve. E per il 2009? «La situazione è drammatica», spiega Mimmo Pantaleo della Flc Cgil. «Le scuole - spiega - non possono fare i bilanci perché non conoscono l´entità dei finanziamenti statali, verranno liquidati migliaia di precari e l´introduzione del "maestro di riferimento" alla primaria determinerà un vistoso calo della qualità».

 

Fiom e Fp Cgil: «Quell'accordo è illegittimo. Sarà sciopero»

di Fabio Sebastiani

su Liberazione del 27/01/2009

Crisi e modello contrattuale, confermata la giornata di lotta del 13 febbraio

E' nato pochi giorni fa, e ha già un sacco di problemi. L'accordo separato sul modello di contrattazione ieri è stato impallinato da Fiom e Funzione pubblica/Cgil che nel presentare lo sciopero generale del 13 febbraio (con manifestazione che terminerà in piazza San Giovanni) lo definiscono illegittimo, dal punto di vista costituzionale, e quindi non vincolante. Come se non bastasse, anche l'Abi ha fatto sapere che il testo firmato a palazzo Chigi senza la Cgil non va bene. Intanto, è guerra di cifre tra Cgil e Centro studi della Confindustria.
Secondo viale dell'Astronomia, i calcoli della Cgil, che applicando il "nuovo modello" aveva riscontrato una perdita secca in busta paga di 1.350 euro l'anno, sono sbagliati: dal 2009 al 2011 ci sarà, invece, un aumento di 2.523 euro. La differenza è facilmente imputabile ai riferimenti temporali.
La Cgil prende in esame il periodo dal 2004 al 2008, mentre la Confindustria no. Un dato, però, è comune. «Se si fosse applicata l'inflazione depurata dalla componente energetica, prevista con la nuova intesa - sottolinea Agostino Megale, segretario nazionale della Cgil - nel periodo 2004-2008, senza mai recuperare quella reale, i contratti avrebbero recuperato 2,5 punti in meno di inflazione (8,9% con i nuovi calcoli, contro l'11,4% osservato effettivamente, secondo di dati di Confindustria) pari a una perdita di 45 euro mensili nelle retribuzioni contrattuali».
Tornando alla risposta all'accordo separato di Fiom e Fp-Cgil, il segretario generale delle tute blu Gianni Rinaldini ha insistito molto sul concetto di rappresentanza. La Fiom ha già subito un paio di accordi separati. E il problema l'ha risolto stilando unitariamente una serie di regole che subordinano sia la piattaforma che l'ipotesi di accordo all'approvazione dei lavoratori. «Siamo la maggioranza assoluta - ha detto Rinaldini nel corso della conferenza stampa in Corso d'Italia - non ci sentiamo vincolati a nulla, per noi sia a livello aziendale, sia a livello nazionale l'accordo sulla riforma dei contratti non esiste se non sarà approvato dai lavoratori». Nel settore pubblico, ha sottolineato Podda, «dobbiamo chiudere ancora il contratto sul biennio precedente e per questo le nuove regole non valgono. Non dò per scontato che faremo una piattaforma separata: proporrò a Cisl e Uil di fare una piattaforma unitaria che non tenga conto dell'accordo poi vedremo la risposta e se saremo costretti a fare un accordo separato». In caso di piattaforma separata nel pubblico impiego, ha spiegato Podda, «come riferimento quello che è scritto nella piattaforma unitaria sulla riforma dei contratti (presentata a Milano un anno fa, ndr ) e cioè l'inflazione più vicina possibile a quella reale con la valorizzazione del salario nazionale e un integrativo più estensivo rispetto all'attuale». Rimango affezionato alla piattaforma unitaria», ha aggiunto Podda. Secondo il segretario generale della Fiom, «un accordo separato sulla riforma dei contratti è inconcepibile. Un accordo separato è destinato a far crescere le tensioni sociali». Senza contare il boom della cassa integrazione tra i metalmeccanici e i centomila precari che saranno messi fuori dalla pubblica amministrazione a partire da giugno. Secondo i dati forniti dalla Fiom, nel settore si registra un +1.000% nel 2008 rispetto all'anno precedente. Con la cassa integrazione, ha sottolineato Rinaldini, i lavoratori «in realtà percepiscono tra il 50 e il 60% della retribuzione».
Lo sciopero del 13 febbraio, hanno spiegato Rinaldini e Podda, vuole dimostrare che i lavoratori pubblici e i lavoratori privati non sono dilaniati così come qualcuno sostiene. Lo sciopero, hanno ricordato i sindacalisti, era stato deciso prima di quello generale del 12 dicembre indetto dalla Cgil e ne fu decisa la sospensione dopo la presentazione della piattaforma della Cgil per una politica anticrisi. «Lo sciopero - ha spiegato Podda - è a sostegno della continuità del rapporto di lavoro, è un no ai licenziamenti. Chiediamo misure fiscali sul contratto nazionale, non su quello di secondo livello destinato a diminuire in un periodo di crisi, con drenaggio fiscale e revisioni delle detrazioni fiscali». Anche se «gli scioperi in questa fase sono un sacrificio pesante», come sottolinea il segretario generale della Fiom, sono «necessari perché di fronte a una situazione drammatica dal punto di vista sociale, Governo e Confindustria utilizzano questa fase d'emergenza per fare una vera e propria aggressione: l'intesa separata sulla riforma del contratto è un atto di aggressione alla democrazia e alla costituzione democratica del Paese».

Balcani, il volto razzista del fascismo

di Enzo Collotti

su Liberazione del 31/01/2009

Se vogliamo cercare di capire cos'è la politica di espansione che il fascismo realizza in direzione della penisola balcanica, dobbiamo tenere conto di una serie di fattori. Il primo è il presupposto storicoculturale del vecchio imperialismo nazionalista che ha nella penisola balcanica uno dei suoi obiettivi principali di espansione. Ricordiamo che la guerra di Libia ha solo come oggetto immediato la Libia: l'obiettivo principale è infliggere un serio colpo all'Impero ottomano e aprire la strada alla penetrazione italiana nei Balcani. Allora si pensava che l'Italia, nella fase del decollo industriale, avesse la capacità di espandersi, di realizzare le proprie ambizioni economiche in quell'area. Questo spiega l'ostilità manifestata, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, alla creazione dello Stato degli slavi del sud e l'ambizione a fare dell'Adriatico un mare interno italiano. Un secondo punto da tenere presente, quando si parla di questa problematica, è il rapporto tra la politica interna e la politica estera dell'Italia. Negli anni del fascismo - segnatamente a partire dalla seconda metà degli anni venti, indipendentemente da quello che era successo fino all'apparente chiusura della questione fiumana con i trattati di Nettuno del 1925 - l'Italia opera una costante politica di accerchiamento della Jugoslavia. Da nord attraverso l'aggiogamento alla politica del fascismo di Austria e Ungheria, da sud attraverso il favoreggiamento del terrorismo macedone. Successivamente l'Italia appoggerà il separatismo croato degli ustascia, che saranno ospitati e armati all'interno dello Stato italiano. Infine verrà l'occupazione dell'Albania, nell'aprile del 1939, come testa di ponte per continuare questa operazione di accerchiamento della Jugoslavia. Il terzo punto riguarda la problematica dei rapporti, in relazione all'area danubiano-balcanica, tra l'Italia e la Germania. Questi rapporti hanno visto fasi diverse, hanno avuto momenti di acuta crisi intorno alla questione austriaca, ma al momento dell'Anschluss (1938) l'Italia è già sulla strada della ritirata, non è più in grado di competere con la pressione germanica. Questo problema del rapporto con la Germania accompagna tutta la fase di avvicinamento alla guerra, e in guerra, per quanto riguarda l'Italia, la situazione balcanica attraverserà diverse fasi. Il 28 ottobre 1940 ha inizio l'aggressione, intrapresa con estrema leggerezza, alla Grecia. Il motto era «spezzeremo le reni alla Grecia», ma l'esercito italiano rischiò di essere rigettato in mare in Albania dalla resistenza che gli si oppose. Questa è la prima fase. La seconda fase si apre nell'aprile del 1941, quando l'invasione della Jugoslavia da parte delle forze della Wehrmacht e dell'esercito italiano apre definitivamente la via non solo alla sconfitta della Jugoslavia, ma anche, e soprattutto, della Grecia. In un primo momento la Grecia non riconosce di essere stata battuta dagli italiani e viene fatto ripetere l'armistizio, perché i greci vogliono firmarlo solo con i tedeschi, riconoscendo di essere stati sconfitti soltanto da loro. Questi sono i presupposti della complessa politica di occupazione che l'Italia praticherà in quell'area, distinguendo abbastanza nettamente fra il settore jugoslavo e quello greco. C'è da dire che il problema delle occupazioni balcaniche è, nella storiografia italiana, un argomento abbastanza marginale. Questo per varie ragioni: prima di tutto per una reticenza, credo tuttora inesplicabile, a occuparsi di questi problemi. Secondariamente - ma solo secondariamente - per il ritardo nell'acquisizione di fonti.
Bisogna distinguere, però, la Jugoslavia dalla Grecia, perché nel secondo caso il ritardo non è solo della storiografia italiana ma anche di quella ellenica, per motivi del tutto interni alla politica di quel paese. Qualcosa di più è stato fatto per quanto riguarda quella che possiamo chiamare, in riferimento al 1941, la ex Jugoslavia. Perché uso questa espressione? Perché la prima conseguenza della sconfitta militare della Jugoslavia ad opera delle potenze dell'Asse fu la totale disgregazione dello spazio jugoslavo: un vecchio obiettivo dell'imperialismo italiano e del fascismo, realizzato con l'appoggio della Wehrmacht. Questo vecchio obiettivo presentava per l'Italia anche notevoli implicazioni di carattere interno: non dobbiamo dimenticare che in tutta l'avventura balcanica vi sono una responsabilità e un peso della dinastia dei Savoia. Basta pensare alla collezione di corone, o di semicorone, che il sovrano italiano accumulò per sé e per la sua famiglia nella penisola balcanica per rendersi conto del significato dell'alleanza fra monarchia e regime. C'è la presenza di una principessa di casa Savoia in Bulgaria, la presenza del re d'Italia come re d'Italia e d'Albania, successivamente il tentativo di imporre un sovrano di casa Savoia - che per fortuna non prese mai possesso del suo trono - in Croazia. Il rapporto tra potere dinastico e regime fascista, poi, comportò anche l'appoggio di settori forti della politica italiana - nel caso specifico penso alle forze armate - ai disegni di dominazione balcanica da parte dell'Italia. Quindi risulta chiara l'influenza complessiva che lo scacchiere balcanico ha avuto rispetto alla posizione dell'Italia, ai caratteri dell'occupazione italiana in quei territori. Tuttora ci interroghiamo sugli obiettivi specifici di quell'occupazione, al di là della generica aspirazione a sottrarre spazio ai nemici, in particolare all'Inghilterra. Il problema del rapporto con l'Inghilterra in relazione alla penisola balcanica è molto importante, perché il patto di Pasqua del 1938 impegnava l'Italia a non modificare lo status quo nel Mediterraneo orientale. La conquista dell'Albania fu, quindi, un vulnus pesante, all'origine dell'accelerazione dell'Italia verso la guerra. Difficile, tuttora, è capire se ci fosse un disegno, un progetto nei confronti delle aree balcaniche, che andasse oltre la conquista territoriale diretta di certi territori. Questo discorso riguarda soprattutto le aree dell'ex Jugoslavia, e in parte anche la Grecia. L'Italia si annette alcuni territori - di fatto ma in parte anche di diritto, perché emana una serie di normative per quanto riguarda le isole ioniche -, operando una sottrazione a carico della Grecia. Fa molto più corpose sottrazioni di territorio a carico della Jugoslavia. Come con l'annessione - o meglio la cosiddetta annessione - della provincia di Lubiana. Agli sloveni promette la cittadinanza italiana senza mai accordarla, estende le occupazioni dalla Dalmazia alle isole dell'Alto Adriatico, stabilisce - e qui è un altro punto di interesse di casa Savoia - un protettorato sul Montenegro: si tratta di un protettorato di fatto, mentre si considera la possibilità di inserire un altro membro di casa Savoia in Montenegro. Inoltre l'Italia amplia il territorio albanese ai danni della Jugoslavia, con l'aggregazione all'Albania del Kosovo e di una parte della Macedonia, formando quella che poi viene definita «Grande Albania». La Macedonia viene divisa con la Bulgaria, quindi si disegna la disgregazione totale di quella che era la vecchia entità statale della Jugoslavia, e l'Italia tenta di allargare anche i confini dell'Albania in direzione dell'Epiro e della fascia costiera greca a sud dell'Albania, la Ciamuria. Più che un progetto di conquiste territoriali, c'è una pratica di conquiste territoriali che è uno dei risvolti della debolezza, non solo politica ma effettiva, della politica italiana. La politica italiana non ha minimamente la capacità di penetrazione e di tenuta della potenza concorrente tedesca, non è in grado di contestare l'egemonia della Germania. A loro volta i tedeschi avrebbero voluto tenere l'area balcanica fuori dal conflitto immediato: la Germania pensava alla penisola balcanica come grande retroterra di carattere economico, area di rifornimenti, oltre che di drenaggio di manodopera in previsione della guerra all'Est. L'Italia non ha nessuna capacità di penetrazione da questo punto di vista, lo si vedrà soprattutto nello scontro di interessi, non solo genericamente nell'area balcanica, ma in particolare in Croazia, dove il riconoscimento apparente di un'egemonia politica italiana viene contraddetto dall'influenza diretta, immediata, di carattere economico della Germania. Quindi ci troviamo di fronte alla problematica che nasce da questo conflitto di interessi e, in parte, dalla mancanza di obiettivi precisi dell'Italia, nonché dalla sua effettiva impreparazione a fare fronte a impegni di quelle dimensioni. Questa situazione è anche all'origine di altre caratteristiche della politica italiana in quei territori, come l'uso indiscriminato della violenza e della repressione nei confronti non solo dei movimenti di resistenza, ma anche, si potrebbe dire adottando un'espressione che oggi usiamo in altri contesti, in forma di guerra ai civili. E questo è un ennesimo risvolto dell'incapacità sia di avere una visione politica sia di dialogare con le popolazioni. Anche in questo caso, i discorsi che sono stati fatti sulla questione dell'«altro» calzano abbastanza bene, soprattutto per quanto riguarda le popolazioni slave, considerate come una sorta di nemico ereditario. Non vi è nessuno sforzo da parte italiana - almeno in base a quanto per ora possiamo documentare - di capire chi è l'«altro». Ne è testimone la pubblicistica che attraversa la stampa italiana dell'epoca e, più specificamente, la stampa diffusa tra i soldati. La propaganda per i soldati doveva cercare di dare loro la forza e il coraggio di operare e di ambientarsi in quel territorio. Perlopiù i militari non sapevano neanche perché erano stati mandati a morire in quelle zone, e per spronarli si dipingeva loro il nemico come appartenente a una civiltà inferiore, si spacciava l'immagine della Balcania tenebrosa. Quest'immagine - che andrebbe studiata attentamente, forse più dal punto di vista antropologico che da quello storico - delinea una Balcania sconosciuta che diventa per le forze italiane un vero e proprio incubo. L'uso indiscriminato della violenza è di sicuro - oltre che determinato dalla consapevolezza dell'inferiorità e incapacità militare italiana - anche il risvolto di questa totale cecità e incomprensione delle popolazioni con le quali l'Italia aveva a che fare. Vi sono alcune ipotesi interpretative che meriterebbero di essere approfondite; ricordo in particolare gli spunti di Sala sul carattere coloniale della presenza italiana nella penisola balcanica. Molti militari e anche funzionari dell'amministrazione italiana vengono mandati in queste terre dopo aver fatto esperienza militare o di amministrazione in Africa orientale o in Libia. Uno dei comandanti italiani con maggiori responsabilità quanto a repressioni, il generale Alessandro Pirzio-Biroli che operava in Montenegro, era stato governatore dell'Amhara. Il punto, qui, non è la carriera di queste persone, ma la loro cultura e il loro modo di guardare ai loro amministrati. Nella migliore delle ipotesi, questi amministrati non sono considerati degni di un rapporto come deve esservi tra popolazioni civili, ma solo sudditi da reprimere. Lo dico in termini spicci, forse brutali, ma la sostanza del discorso è questa, e sarebbe interessante continuare ad approfondire questo tema, perché alle spalle di certi comportamenti vi era una vecchia cultura italiana che aveva sempre guardato agli slavi come a nemici, comunque un popolo barbaro. E' chiaro che in questo contesto, soprattutto nel territorio jugoslavo, la guerra cieca delle forze italiane contro il dispiegamento delle forze partigiane comportò un coinvolgimento molto esteso in operazioni di rappresaglia - anzi, in operazioni che non erano solo di rappresaglia ma anche di feroce contrapposizione alla popolazione civile - e la trasformazione del conflitto in una grande operazione di polizia. Quindi, anche nel confronto tra potere politico - penso alla provincia di Lubiana - e potere militare, l'espropriazione di qualsiasi forma di autorità civile e la trasformazione di ogni operazione in azione di carattere poliziesco o militare diedero alla presenza italiana un carattere di militarizzazione estrema, e di altrettanto estrema violenza. Uno degli esempi più forti di disposizioni per la repressione delle attività partigiane - ma con ampie implicazioni nei confronti della popolazione civile - è rappresentato dalla famosa circolare 3C del marzo 1942, diramata dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, che fu degno successore del generale Ambrosio, poi passato allo Stato Maggiore. Quest'ultimo aveva dichiarato a tutte lettere che la guerra che si combatteva in Jugoslavia era una guerra nella quale non si facevano prigionieri. Affermazioni di questa natura ne potremmo riportare molte, non soltanto grazie alle indagini - e alle relative documentazioni - di Tone Ferenc, uno storico sloveno purtroppo deceduto, ma anche grazie a uno dei pochi studi che l'Ufficio storico militare dello Stato Maggiore dell'Esercito è riuscito a produrre su questi temi, L'occupazione italiana della Slovenia (1941-1943) di Marco Cuzzi.

Stralcio dal saggio di Enzo Collotti "Le occupazioni italiane nei Balcani" in "Dall'Impero austro-ungarico alle foibe" (Bollati-Boringhieri, pp. 304, euro 24,00), in libreria dal 12 febbraio

Contratti, Cgil unita: «Sciopero e referendum»

di Roberto Farneti

su Liberazione del 31/01/2009

Quattro ore di sciopero affidate alle strutture confederali e territoriali, una campagna in preparazione del referendum dal 9 febbraio al 9 marzo con assemblee nei luoghi di lavoro, una grande manifestazione il 4 aprile nella Capitale, ricorsi alla magistratura come quello già presentato sul contratto del pubblico impiego, sulla cui validità dovrà pronunciarsi il giudice del lavoro di Roma. E' un vero e proprio guanto di sfida quello che la Cgil lancia al governo, alla Confindustria, ma anche a Cisl e Uil, dopo l'accordo separato sulle nuove regole della contrattazione. Il più grande sindacato italiano serra le fila di fronte all'attacco politico che gli giunge da destra, dai padroni, ma anche dal Partito Democratico, con Walter Veltroni che sogna di ripetere il copione della vertenza Alitalia.
Questa volta però la possibilità di un ritorno a Canossa di Guglielmo Epifani non sembra proprio all'ordine del giorno. Troppo grave lo sgarbo ricevuto dalla Cgil da parte di coloro che, a parole, sostengono il valore dell'unità sindacale ma poi, alla prova dei fatti, si dimenticano delle piattaforme comuni sottoscritte. Soprattutto, siderale è la distanza sul merito. Nel documento approvato ieri all'unanimità dal Comitato direttivo, la Cgil ribadisce di avere detto no all'accordo sul nuovo modello contrattuale «perchè non tutela i salari, perchè indebolisce la contrattazione a partire dalle deroghe e dalla limitazione dell'autonomia contrattuale delle categorie, perchè limita il diritto di sciopero, attraverso una misurazione della rappresentatività non condivisibile. Che va configurandosi come prima tappa di un intervento generale sulle regole dello sciopero che abbiamo già considerato inaccettabile». Non basta: «Rimane netta - si legge ancora nel documento del direttivo - la percezione di uno smisurato affidamento alla bilateralità, che sganciato da una precisa attività contrattuale può favorire una pericolosa scelta di sostituzione della contrattazione e costituzione di un ceto che può trasformarsi in casta».
Valutazioni condivise da tutte le anime di Corso Italia, che hanno così deciso un percorso di mobilitazione. L'andamento del dibattito sembra anche avere fugato, almeno in parte, le preoccupazioni della sinistra Cgil sulla "tenuta" di questa linea. «Il tema che ho posto nel mio intervento - riferisce Giorgio Cremaschi, leader di Rete 28 Aprile - è stato quello della vicenda Alitalia: si fanno gli scioperi, ci si mobilita per tre mesi e poi si torna a Canossa». Rassicuranti, da questo punto di vista, le prese di posizione molto dure di diversi esponenti di spicco della maggioranza di Epifani, come Morena Piccini e Carla Cantone, secondo cui bisogna prepararsi a una lunga fase di scontro. Da parte sua, la componente moderata ha ribadito che «adesso la decisione è giusta ma bisogna lavorare per ricomporre l'unità sindacale». Unanime invece la critica alle posizioni espresse dal segretario del Pd Walter Veltroni.
Non ci sta Raffaele Bonanni. Secondo il segretario della Cisl «è stata la Cgil a rinnegare una strategia unitaria e partecipativa scegliendo una linea antagonistica che pretende addirittura di fare un referendum tra i lavoratori su un accordo che non ha firmato. Così come ci sembra a dire poco ridicolo - aggiunge Bonanni - di andare nelle aule del tribunale per risolvere i problemi sindacali, come invece intende fare la Cgil».
Alla Cisl sfugge il concetto di rappresentanza. Perché un contratto sia valido nel pubblico impiego, deve essere sottoscritto da organizzazioni che, assieme o singolarmente, rappresentano almeno il 51% nella media tra i voti riportati dalle elezioni delle Rsu e gli iscritti di ciascuna sigla, oppure che hanno ottenuto il 60% dei voti. Nel caso specifico, il contratto del parastato, le organizzazioni firmatarie non raggiungono questa quota. «Noi abbiamo fatto ricorso contro il governo e l'Aran. Il fatto che Cisl e Uil, assieme agli sindacati, saranno convocati dal giudice non dipende da noi ma è una conseguenza della procedura legale», precisa Carlo Podda, segretario della Fp cgil.
Dalla Cgil arriva anche un fermo altolà all'intervento sulle pensioni annunciato a Davos dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Parole travisate, secondo il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi: «Tremonti non ha detto questo, un cambio delle regole della previdenza non è all'ordine del giorno», chiarisce Sacconi, il quale conferma però l'intenzione del governo di innalzare l'età pensionabile delle lavoratrici statali e il decollo dei "nuovi" coefficienti di trasformazione a partire dal 1 gennaio 2010 con conseguente riduzione media degli importi delle pensioni future del 6-8 per cento. Assolutamente contraria la Cgil: «Sulle pensioni - scrive il direttivo - ribadiamo che il sistema previdenziale ha bisogno di stabilità; anche per questo, quindi, non possono essere accettate manomissioni a partire dall'innalzamento dell'età pensionabile delle donne e dalla modifica dei coefficienti di trasformazione relativi al sistema di calcolo contributivo».

 

Torino, prove generali di meccanici e pubblici: «In piazza insieme»

di Mauro Ravarino

su Il Manifesto del 31/01/2009

Quel che Brunetta divide, due categorie della Cgil provano a riunire. I lavoratori pubblici e privati. Il cammino condiviso di Fiom e Fp è iniziato da tempo: ieri ha fatto tappa a Torino - meglio, a Venaria - con un'assemblea di 800 delegati, in vista dello sciopero a Roma del 13 febbraio.
Al Teatro della Concordia, l'accordo separato del 22 gennaio sul modello contrattuale, siglato da Cisl e Uil, pesa come un macigno. Il sindacato più grande d'Italia si sente sotto attacco: nella morsa, da una parte Confindustria e dall'altra il ministro anti-fannulloni. Ecco perché, come spiega il segretario generale Fiom Gianni Rinaldini, «gli infermieri e gli operai sono sulla stessa barca». E devono pure parare i colpi del «fuoco amico» di Bonanni e Angeletti. «L'accordo, demolisce il contratto nazionale, non tutela i salari ed è peggiorativo rispetto a quello del 1993. Vogliono annullare il ruolo delle organizzazioni dei lavoratori. Non ci stiamo. E non ci stiamo ad essere un sindacato di tessere» dicono in coro i delegati, sia metalmeccanici sia del pubblico. Sono mescolati, senza soluzione di continuità, nella sala gremita. Questa è la contaminazione da cui bisogna ripartire: «Ora inizieranno le assemblee, facciamo un patto - propone Giorgio Airaudo, segretario Fiom Torino - proviamo a scambiarci i delegati, chi sta nei servizi provi a partecipare agli incontri in fabbrica e viceversa. E' il primo passo per ricostruire ciò che stanno dividendo».
Prende la parola Maria Epifania, da 11 anni alle Carrozzerie di Mirafiori: «Quando ritiri la busta paga ti accorgi sulla tua pelle del peso della crisi. Abbiamo preso a gennaio 300 o 400 euro in meno, che significano il taglio del 50% delle spese per la propria famiglia». Le donne sono tra le più discriminate dalla politica del governo Berlusconi. Per Danila Botta, Fp Cuneo, «vogliono rendere l'accesso al lavoro più difficile per rimandarci a casa, al focolare, e risparmiare così sul welfare». Brunetta vuole aumentare l'età pensionabile delle lavoratrici da 60 a 65 anni. «Ma se nel mio settore - ribatte Ernesta Fusetti, operatrice socio-sanitaria, mille euro al mese e due figli a carico - le donne a 50 anni hanno malattie da lavoro usurante che nascondono per non perdere il lavoro».
L'accordo del 22 gennaio limita il diritto di sciopero. Ed è un punto pesante. Lo ripete Totò Chiaromonte, Fp Piemonte, e lo riprende il segretario nazionale Alfredo Garzi (Podda era assente perché al direttivo Cgil): «Lo sciopero non sarebbe più individuale ma collettivo e solo se esercitato congiuntamente dai sindacati più rappresentativi. Se ci fosse già stata questa norma il 13 non avremmo potuto manifestare. Difendere la democrazia sui posti di lavoro significa difendere la democrazia nel Paese». Giovanni Caramello arriva da Alessandria, è un rsu Fiom della Cerutti; il suo è un intervento di passione e di rabbia. Condanna l'attacco alla Cgil: «Dovrebbero vergognarsi Bonanni e Angeletti a chiamarsi sindacalisti: sono sudditi di Berlusconi. In Europa si difendono i lavoratori, in Italia, invece, li si attaccano». Sale poi sul palco Fabio Dura di Asti, delegato della Way Assauto, da un anno e mezzo in cassa: «E' un accordo taglia salari. Si toglie potere contrattuale ai lavoratori e si scambia il salario con la produttività». Che fare allora? «Estendiamo - aggiunge - gli armonizzatori, freniamo la Bossi-Fini che penalizza gli immigrati (se ti licenziano rischi di tornare clandestino), puntiamo sull'ecocompatibile e blocchiamo le privatizzazioni».
Gianni Rinaldini tira le conclusioni e parla di auto: «È in atto uno scaricabarile tra governo e Fiat sulla pelle dei lavoratori, le minacce di chiudere gli stabilimenti non servono. Sono invece necessarie risorse pubbliche vere, come quelle messe in campo da Francia e Germania, che vincolino Fiat al mantenimento dell'occupazione e degli stabilimenti in Italia. La Fiat deve presentare un piano industriale perché un prodotto come l'auto non si inventa in un paio di mesi». Alla prova di Torino, la saldatura tra Fp e Fiom si è dimostrata forte. Tutti ai nastri di partenza per la sfida «storica» del 13 febbraio.

 

«Solidali con Fp e Fiom, rischiamo il contratto separato»

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 31/01/2009

Parla Miceli (Slc Cgil). Piattaforma diversa dalla Cisl, Uil in bilico. In marzo stop dei call center

Il primo contratto che deve vedersela con l'accordo separato siglato la settimana scorsa è quello delle tlc, e già le acque sono agitatissime, ma con alleanze per il momento «inedite». Cgil e Uil hanno «piattaforme convergenti» (in pratica chiedono la stessa cifra, 175 euro per un triennio), mentre la Cisl ha una propria piattaforma, che non quantifica, ma che dai calcoli circolanti sulle agenzie pare aggirarsi sui 160 euro. Ieri poi, in serata, un «colpo di scena»: la Uil si rimangia parzialmente le sue posizioni e annuncia di essere pronta a rimettersi sui binari della Cisl. Il ministro del Lavoro Sacconi, prevede addirittura che alla fine anche la Cgil accetterà il nuovo modello, almeno su questo rinnovo. Abbiamo chiesto a Emilio Miceli, segretario della Slc Cgil, di aggiornarci sullo stato delle trattative: tra l'altro Miceli, primo tra i segretari delle categorie Cgil, ieri ha diffuso un comunicato di solidarietà allo sciopero di Fp e Fiom del 13 febbraio.
Come andrà a finire il braccio di ferro con Cisl e Uil?
Per ora registro che con la Uilcom abbiamo piattaforme convergenti, e a giorni invieremo le nostre richieste comuni alla controparte, la Asstel. Al ministro Sacconi dico che le sue affermazioni sono un'«intimidazione preventiva» alle trattative, vuole indirizzarle, come una sorta di «super sindacalista». Sacconi cerca continuamente la rissa tra le parti, non si era mai visto nella storia d'Italia che un ministro del Lavoro operasse per dividere anziché per unire. Detto questo, segnalo che il nostro contratto è scaduto il 31 dicembre 2008, prima della firma dell'accordo separato, e abbiamo usato questo «slot» proprio per convergere con gli altri sindacati. Ma la Fistel Cisl ha avuto un atteggiamento «ideologico», proprio quello che contestano sempre a noi della Cgil: pare che abbiano fatto di tutto per rinviare il rinnovo, pur di aspettare la firma dell'accordo separato e poi poter rompere. Secondo i nostri calcoli, la loro richiesta - non a caso non esplicitata - si aggira sui 148 euro: dimostra che il nuovo modello fa perdere soldi rispetto al vecchio, e oltretutto voglio proprio vedere quando il petrolio risalirà; ricordiamo che il nuovo indice Ipca viene depurato dei costi energetici.
Su questo le posizioni sono chiare. E invece come mai solidarizzate con Fiom e Fp? Magari non ci scappa che il 13 scioperate anche voi? Anche se in effetti è un po' tardi...
Ma la solidarietà con due grandi categorie Cgil che scendono in sciopero è naturale, in piazza manderemo nostre delegazioni. La Cgil ha assunto il 13 nel suo calendario. Noi abbiamo in campo altre mobilitazioni: in marzo uno sciopero e un'assemblea nazionale dei call center. Lo incentreremo sui pericoli della «derogabilità» al contratto nazionale prevista nel nuovo modello: tanti giovani, già stabilizzati dal passato governo, rischiano di ripiombare nei bassi diritti, con diversi regimi salariali e di tutele. In un precariato «di fatto».

NOI RICORDIAMO

Il 27 Gennaio 1945 l'Armata Rossa libera il campo di sterminio di Auschwitz e mette fine alla "soluzione finale" contro gli ebrei.
Insieme a loro zingari, omosessuali, Testimoni di Geova e tutti coloro che si erano opposti alla dittatura nazista

 

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Una memoria per l'oggi

di Nicola Tranfaglia

su Il Manifesto del 27/01/2009

Quello odierno non è solo un giorno per ricordare. Nell'Europa che continua a coltivare il seme dell'autoritarismo e un mondo colpito dagli integralismi, la denuncia e il ripudio della Shoah devono essere un antidoto per ricostruire una democrazia in comune

Serve a qualcosa la legge approvata dal nostro parlamento nel 2000, su iniziativa del centro-sinistra e del deputato Furio Colombo, per celebrare la liberazione del lager di Auschwiz, il fallimento della «soluzione finale» di Hitler e i milioni di donne, uomini e bambini massacrati nei campi di concentramento e di annientamento nazisti?
In un momento nel quale l'antisemitismo sembra ritornare di attualità anche da parte di forze che si riferiscono alla sinistra piuttosto che alla destra e in cui Israele si difende anche uccidendo civili, donne e bambini?
Si può rispondere di sì, se utilizziamo questo giorno per capire che cosa è successo nell'Europa e nell'Italia di quegli anni e cerchiamo di non ripetere gli stessi errori. Ma dobbiamo prendere atto di alcune cose che oggi tanti fingono di dimenticare.
La prima è che quei delitti furono commessi non da mostri ma da uomini comuni in Germania, in Italia, in tutta l'Europa del tempo. E che, violenza, guerra, negazione di democrazia, hanno continuato ad avere campo dopo il 1945 e continuano ad averlo oggi soprattutto in altre zone del mondo, a cominciare dal Medio Oriente, dalla Palestina e da Israele.
In un contesto diverso, bisogna ricordarlo. Allora regimi fascisti e tendenzialmente totalitari governavano una parte notevole dell'Europa e dell'Occidente, in quegli anni tentarono in maniera coerente di eliminare gli ebrei e tutti gli oppositori del Terzo Reich con l'aiuto di stati collaborazionisti come il regime di Vichy in Francia, la Repubblica Sociale in Italia, Quisling in Norvegia e furono vicini a riuscirci.
Basta ricordare alcune cifre che emergono dalle ricerche storiche degli ultimi anni: più di ottomila ebrei italiani morti nei lager, ventitremila deportati politici di cui più di diecimila non tornarono a casa, quasi ottocentomila militari internati nei campi tedeschi e decisi salvo la piccola percentuale del 5 per cento a non aderire alla Germania nazista.
Oggi quei regimi non esistono più e piuttosto convivono, a livello mondiale, democrazie imperfette con regimi tendenzialmente autoritari come quello della Russia di Putin, della Cina ex comunista e così via.
Le attuali democrazie sono non solo imperfette e contraddittorie ma, con tutta evidenza, in crisi perché gli stati nazionali contraddicono alla economia globale ma non si creano i necessari ordinamenti sovrannazionali.
Le guerre parziali e le violenze sono ancora troppo presenti. Gli uomini non riescono a vivere in pace e si contendono ancora la terra e le risorse economiche nel mondo.
E ancora si contrappongono sul piano ideologico-identitario come è il caso della disputa in Medio Oriente: lo scontro tra i palestinesi di Hamas e lo stato di Israele è fermo ancora al riconoscimento dello stato ebraico e non porterà alla pace, se non si uscirà dal contrasto sulla identità.
L'Iran ha assunto la leadership della tendenza più radicale che è contro la possibilità di trovare una via di conciliazione all'interno dell'Oriente e tra Oriente e Occidente.
Ma la tentazione di proseguire la politica di Bush che ha portato a danni assai gravi esiste ancora nonostante la presidenza di Obama in alcuni alleati europei.
E' difficile sperare che questo formidabile groviglio possa essere sciolto rapidamente dal nuovo presidente americano, se l'Europa non supererà la sua afasia e non farà la sua parte all'interno dell'Occidente.
C'è, insomma, il rischio di tornare indietro e di vedere riprodursi la barbarie e i massacri degli anni quaranta, se non si riesce a voltare pagina.
La crisi economico-finanziaria attuale può, con ogni probabilità, durare almeno per tutto il 2009 e finire non si sa quando. In questa situazione è più difficile la difesa e il progresso della democrazia, rispetto ai rischi indubbi di ritorno all'autoritarismo e ai governi personali, come quello di Putin in Russia e di Berlusconi in Italia.
La lunga avventura di Berlusconi, che si avvia a durare vent'anni, avviene in una «nazione difficile» come scrisse Giuseppe Galasso nel '94 e ora ha ripetuto lo storico inglese Duggan nella sua storia d'Italia.
Soltanto così si spiega l'ulteriore involuzione della democrazia repubblicana.
Non c'è da temere che si possa ritornare a forme storiche di fascismo ma certo possono, tuttavia, definirsi forme di governo che sono in contrasto con la separazione dei poteri, con lo stato di diritto, con il dettato costituzionale e un simile esito non può non preoccupare tutti quelli che si sono battuti per la democrazia e l'eguaglianza di tutti i cittadini.
Questa è la principale preoccupazione che si può avere in questa giornata della memoria del 27 gennaio 2009.
E' paradossale che, proprio quando ormai le ricerche storiche dimostrano a sufficienza che la «soluzione finale» che si tentò nella seconda guerra mondiale non fu soltanto la follia di Adolf Hitler ma un progetto del fascismo europeo e di quello repubblicano mussoliniano in Italia, si colgono le crepe e le difficoltà di una democrazia come quella italiana che pure è stata fondata proprio sulla lotta al fascismo.
Come si fa a uscire da un simile paradosso?
E come si può spingere gli italiani a svegliarsi da un lungo sonno e a lottare di nuovo per i nostri ideali repubblicani?
Non è una battaglia soltanto della sinistra ma di tutte le donne e gli uomini di buona volontà che hanno creduto nei principi fondamentali della costituzione repubblicana e che non possono abbandonarli ora che ce ne è più bisogno.
La battaglia principale occorre condurla su queste basi, mettendo da parte, a sinistra come altrove, le divisioni ideologiche tra chi si sente comunista o socialista e chi si sente democratico prima di ogni altra cosa.
O si riesce in questa impresa o vinceranno gli uomini e le forze che non hanno mai accettato i principi costituzionali e non vedono l'ora di metterli da parte e che credono di fatto al potere personale, versione moderna della dittatura.

 

Auschwitz: la nostra storia

di Castalda Musacchio

su Liberazione del 27/01/2009

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C'è un sole che scalda appena. L'ultimo strato di neve rimasto si scioglie e lascia il fango sul cammino. Un freddo pungente entra nelle ossa, nonostante cappotti, sciarpe, guanti e cappelli, sembra voler gelare il sangue. Tutt'intorno una quiete surreale e uno scenario che nel suo aspetto così razionale sembra progettato per realizzare un ordine maniacale. Lo sguardo si sofferma piano prima su vecchie baracche di legno, a una a una perfettamene allineate, poi su piccole e lunghe colonne di pietre rosse, e ancora su cumuli di sassi abbandonati, su un'enorme bombola di gas sorretta da quello che sembra un altare anche questo formato da pietre rosse, e, all'orizzonte, boschi di faggi e abeti. Infine la strada. E' la "strada della morte" di Birkenau. C'è fango anche qui. Un fango gelido che ad ogni passo raffredda. Se c'è chi dice che l'orrore non ha un volto dovrebbe solo una volta nella vita arrivare fin qui, nel cuore della Polonia, ad Oswiecim, ed entrare ad Auschwitz. Nei campi di Auschwitz.
Osservare questi luoghi così da vicino può appena far percepire la tragedia più grande dell'umanità che si è consumata qui. Si è consumata nei block (i blocchi o baracche) di mattoni con tetti appena spioventi di Auschwitz 1, conosciuto poi come Stammlager (lager principale) reso operativo dal 14 giugno 1940. Si è concretizzata nella follia disumana della "soluzione finale" per il "problema ebraico" dopo la Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 con la programmazione e realizzazione della più grande macchina operativa di sterminio resa pienamente efficiente dall'enorme complesso di Auschwitz 2 - Birkenau operativo dal 7 ottobre del 1941. E che si svela a poco a poco entrando nei vari block del lager.
I primi ad attraversare quel cancello dove campeggia la scritta "Arbeit macht frei" (Il lavoro rende liberi), forse cinicamente ideata da Rudolf Hess, furono prigionieri polacchi. Dovevano solo lavorare come manovali per il riadattamento di quelle che erano caserme, in verità vennero utilizzati per garantire la costruzione di quel complesso che servì per la prima sperimentazione di quei gas letali (di solito Zyklon B, un disinfestante) che sarebbero stati usati poco dopo per sterminare 1 milione e cinquecentomila persone; o forse più, perché non si conosce la cifra esatta delle vittime. E sotto quel cancello, gli uomini che lasciavano il campo per rientrarvi dopo undici ore di lavoro, a servizio nei campi ma anche nelle grandi fabbriche del Reich come veri schiavi, con indosso un'uniforme a righe di cotone leggero, (in Polonia d'inverno si possono sfiorare i 25 gradi sotto lo zero) riconoscibili da tatuaggi (ai bambini che servivano per le sperimentazioni li facevano sulle ginocchia), con quei triangoli rossi, verdi, rosa, viola, gialli e rossi incrociati ad indicare oppositori politici, criminali comuni, omosessuali, testimoni di geova, ebrei, erano costretti a sfilare di fronte a una triste banda di moribondi, anch'essa composta di internati che suonava allegre marce naziste.
Si dormiva così accalcati sul pagliericcio, in stanze che potevano al massimo contenere cinquanta persone e nelle quali ne venivano stipate il doppio, sotto la sorveglianza del Kapò, di solito un criminale comune tedesco più spietato degli stessi nazisti. A colazione un caffè di erbe, a cena trecento grammi di pane frugale con un po' di latte.
Senza contare le sevizie, gli abusi, i ridicoli quanto indegni gesti delle Ss che preferivano a volte far sfilare gli uomini vestiti di quegli stessi abiti sottratti alle loro donne, queste per la maggior parte insieme ai più anziani e ai bambini destinate immediatamente alla sorte più brutale e condotte per lo più a loro insaputa - appena scese dai vagoni blindati che arrivavano ad Auschwitz da tutta Europa - direttamente verso i forni crematori o le camere a gas. E bastava il cenno di un gentile dottore a segnare la loro sorte: a destra la morte immediata, a sinistra una fine più lenta ma altrettanto inesorabile.
Ma la brutalità sembra davvero non aver mai fine quando assume una forma tanto disumana quanto immotivata.
Ecco il "blocco 11" del primo campo, cosiddetto "della morte". Qui un finto tribunale giudicava per i crimini più banali i deportati rinchiusi in celle talmente strette da far sì che i prigionieri dovessero dormire in piedi, alla fine di uno stretto corridoio una forca mobile sta lì come un monumento spettrale e, fuori dalla portata di occhi indiscreti, in un recinto murato, due pali per la tortura dove anche le donne venivano appese con le mani dietro la schiena e sollevate fino a che non esalavano l'ultimo respiro, e quel muro, oggi il "muro della morte", dove venivano fucilati nudi "i ribelli". E ancora la cella di padre Kolbe, e le foto, quelle foto che ora sono testimonianza preziosa della memoria, ritrovate per caso da una ragazza, Lil Jacop, scattate dagli stessi nazisti. Quelle foto hanno fotografato l'Olocausto. Quelle stesse che a Birkenau scuotono fino allo spasimo chi le vede, immerse in quei boschi di betulle e faggi che ritraggono le donne con volti terrorizzati che vengono costrette a correre nude verso le camere a gas. O semplicemente, quando l'azione dello sterminio era giunta alla sua fase finale e le camere e i forni "bruciavano" ventiquattro ore su ventiquattro, arse vive in mezzo alla radura.
E' a Birkenau che le parole "Se questo è un uomo" assumono un altro valore. Perché è qui, tra questi spettri di baracche di legno - erano stalle di cavalli riadattate ad "alloggi" per i deportati - dove il freddo oggi si sente, ma che doveva essere terribile per chi possedeva solo una semplice uniforme di cotone indosso, e spesso senza scarpe; qui, tra i fili spinati elettrici che circondano l'immensa struttura dove si provocavano volontariamente i suicidi di chi non ce la faceva più; qui, dove sulla Judenrampe, la rampa degli ebrei, binario che arriva fino al monumento delle vittime, oggi, come ogni giorno, qualcuno depone una rosa, si comprende davvero che l'umanità ha perso la sua dignità.
A Birkenau nulla sembra aver valore. Non ha valore la vita dei bambini di pochi mesi rasati a zero, con quegli sguardi di un'innocenza sconfinata, utilizzati come cavie umane per esperimenti brutali, di ragazzi poco più che bambini, adolescenti, che a volte sorridono di fronte alla macchina da presa senza sapere che saranno presto sacrificati in quelle camere dove da piccole fessure i gerarchi osservano, si può solo immaginare anche disattenti, alla morte lenta, a volte indicibilmente dolorosa, degli innocenti. Il campo arrivò a contenere migliaia di persone internate in diversi settori suddivisi in altri 39 sottocampi.
Lo scopo primario dei lager fu l'eliminazione di massa ma anche il rifornimento di manodopera gratuita e praticamente a costo zero alle grandi industrie del Reich. Questo il patto scellerato tra borghesia tedesca e nazismo. Ma, come detto, lo sterminio adottato come soluzione finale per gli ebrei fu nel secondo campo di Auschwitz che si compì. Così la "casina rossa" e quella "bianca", in verità forni con annesse camere a gas letali insieme ad altre 4 camere funzionavano costantemente, senza tregua. Qui l'eliminazione definitiva iniziò nella primavera del 1942.
Nel '44 ad Auschwitz erano già stati uccisi più di un milione di esseri umani. Il 27 gennaio del 1945 nel lager entrarono le truppe sovietiche. Trovarono i cadaveri accumulati come legna pronta per essere arsa, donne deturpate, bimbi morti, e montagne di scarpe, occhiali, tonnelate di capelli che servivano per fabbricare sacchi come fosse iuta, centinaia di valigie che i deportati dovevano abbandonare all'ingresso. Quegli oggetti ora sono lì. Perché - si legge sul muro prima di uscire a firma Primo Levi - «Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e i vostri amici: considerate "se questo è un uomo" che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un sì o per un no. Considerate "se questa è una donna" senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d'inverno. Meditate che questo è stato».

 

L'Italia di oggi sta facendo i conti con il suo passato?

di Pupa Garribba

su Liberazione del 27/01/2009

Anche quest'anno, come ormai avviene da quasi un decennio, ci confrontiamo con la Giornata della memoria. La sua celebrazione, dopo un lento avvio e una crescita costante negli anni successivi, si presenta in questo 2009 con caratteristiche diametralmente opposte. Anche quest'anno associazioni di ex deportati, testimoni e istituti storici sono stati contattati con richieste di interventi di ogni genere, talvolta concordati con vari mesi di anticipo, più spesso sollecitati all'ultimo momento; ma si sono udite anche, e sempre più spesso, affermazione del genere "non se ne può più della Giornata della memoria", o "invece di preoccuparci del passato, sarebbe meglio occuparsi dell'orrore che scorre davanti ai nostri occhi".
Mi convinco sempre di più, e mi vorrei proprio sbagliare, che non si tratta solo dell'inevitabile caduta di tensione di fronte ad una data che, con il passare del tempo, ha finito con il perdere significato. Ho l'impressione, e mi vorrei di nuovo sbagliare, che non sorgessero problemi fino a quando si è focalizzata l'attenzione su deportazione e lager, camere a gas e crematori, tutti attribuibili senza possibilità di dubbio a Hitler e alla Germania; mentre oggi risulta più ostico proseguire il cammino per giungere, finalmente e con grande ritardo, a fare i conti con il passato del nostro paese.
Oggi non c'è apparente resistenza ad affrontare lo studio delle leggi antiebraiche che, nella pressoché generale indifferenza, furono emanate dal regime fascista in piena autonomia per ragioni squisitamente interne, con l'obiettivo di colpire una comunità presente nel nostro paese da duemila anni. Tuttavia le numerose mostre documentarie - che da anni circolano spiegando nei dettagli la consistenza numerica del gruppo ebraico, la sua distribuzione sul territorio, le attività lavorative, il contributo alla storia patria, la partecipazione alla vita quotidiana - non sembrano aver scalfito una sostanziale ignoranza sulla storia, passata e presente, degli ebrei italiani. Non sembrano neppure aver ridotto i sentimenti più o meno antisemiti del 44% della popolazione, a quanto risulta dal recente sondaggio del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.
Alla prova dei fatti, non posso che constatare la tendenza sempre più generale a guardare senza vedere, ad ascoltare senza sentire. Lo posso testimoniare di persona: dopo aver fornito un accurato quadro di insieme, pongo sempre alle scolaresche che incontro la domanda se, a loro avviso, gli ebrei presenti in Italia nel 1938 fossero pochi o tanti. Dall'istituzione della Giornata della memoria ad oggi, la risposta corale che ricevo è sempre, inevitabilmente, la stessa: tanti, tantissimi, come se gli studenti di ieri e di oggi avessero succhiato con il latte materno vecchi stereotipi difficili da smantellare. Hai voglia a spiegare che si trattava dell'uno per mille della popolazione, un'entità piccolissima: lo spauracchio del "pericolo ebraico" nella Diaspora o in terra di Israele - poco importa data la generale tendenza ad identificare gli ebrei con gli israeliani - sembra prevalere sulla realtà. Non mi stupisco più nel sentire dire che oggi gli ebrei in Italia si avvicinano al milione, che gli abitanti dello "Stato ebraico" sono svariate decine di milioni; il mio self control invece ha ceduto, e mi sono lasciata andare ad una vivace reazione, quando ho sentito una stimata docente affermare che nel 1946 gli israeliani hanno occupato con la forza lo Stato di Palestina.
L'inconscia volontà di molti a non voler prendere atto delle passate responsabilità nazionali mi pare sia al fondo della crescente irritazione verso il mondo ebraico, che pretenderebbe di ergersi a giudice. Eccesso di sensibilità, la mia? Forse, ma io ho davanti agli occhi la corale e civile ribellione della popolazione romana di fronte alle stelle gialle, attaccate alle vetrine dei negozi di Viale Libia nei primi anni '90, e la tiepida reazione odierna alle violente scritte antisemite e antisioniste, da «A morte gli ebrei» ad «Israele, uno Stato creato da veri assassini». Sono anni che si tenta di spiegare che gli ebrei italiani sono ebrei italiani e, in quanto tali, non hanno collegamenti con il conflitto mediorientale, al di là del costante pensiero per parenti e amici che vivono in Israele in stato di perenne tensione. Sono anni che si tenta di ragionare sulla fondamentale differenza che corre tra un governo che può essere cambiato in qualunque momento secondo le regole della democrazia, e un legittimo Stato che ha diritto di esistere al pari degli altri.
Assuefazione a parole malate? Forse, ma allora ci dovremmo impegnare tutti a combattere le conseguenze di una sottile e pericolosa manipolazione della realtà. Non sarà sfuggito a nessuno neppure il cambiamento di rotta della Chiesa cattolica, che passo dopo passo sta distruggendo il dialogo ebraico-cristiano frutto del Concilio Vaticano II: dalla ripresa della messa in latino con la preghiera che auspica, da parte del popolo ebraico, il riconoscimento del Cristo «Salvatore di tutti gli uomini», fino al ritiro della scomunica ai quattro vescovi ultra-tradizionalisti incluso Monsignor Williamson, decisamente negazionista nei confronti della Shoah (perché allora stupirsi della recente scritta antisemita «Gesù non era ebreo»?). E' chiaro che la tragedia mediorientale ci stravolge tutti, ma non si ottiene nessun risultato positivo soffiando continuamente sul fuoco, e senza prendere atto che i conflitti armati non portano a nessuna vittoria definitiva. Quanto sarebbe più opportuno considerare le sofferenze di entrambi i popoli, invece di schierarsi acriticamente a fianco dell'uno o dell'altro; dare un sostegno a chi non si nasconde le responsabilità dei propri governanti; camminare a fianco di chi cerca di mantenere vivo il dialogo. Una manifestazione che invoca "Due popoli, due stati" può considerarsi riuscita solo perché gli organizzatori sono riusciti a bloccare le iniziative più violente contro Israele massacratore dei "più deboli", e contro gli ebrei suoi fiancheggiatori? A me proprio non basta, e a queste manifestazioni non partecipo nonostante la buona volontà dei promotori, perché preferisco seguire un percorso alternativo: guardare in faccia la realtà cercando di capire i meccanismi che inquinano l'informazione, e riportare ogni slancio emotivo alla concretezza dei fatti e alla ricerca di soluzioni possibili. So che questa è una strada lunga e accidentata, in fondo alla quale però vedo future celebrazioni della "Giornata della memoria" come naturale approdo di ricerche storiche non viziate da tensioni politiche, che con le leggi antiebraiche del 1938 e la Shoah non hanno niente a che spartire.

 

Il giorno dei vivi

di Gennaro Carotenuto

su Gennaro Carotenuto.it del 27/01/2009

Stanotte mi hanno chiamato le parole di Giacomo Ulivi citato da un saggio di Claudio Pavone che mi ha accompagnato fino a tarda ora. Giacomo è uno studente in legge di 19 anni, partigiano, arrestato, torturato, fuggito, riarrestato, ritorturato, infine fucilato dai fascisti a Modena:

Quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi per iniziare una laboriosa e quieta vita dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo […] Ma nel desiderio invincibile di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. E’ il tremendo, il più terribile risultato di un’opera di diseducazione ventennale che è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è lavoro di “specialisti” […]. No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!

Proprio stanotte le parole di Giacomo, ragazzo partigiano, mi son sembrate tirare le fila tra molte preoccupazioni per l’Italia di questi giorni e di questi anni. Quella citazione per l’opera di diseducazione ventennale che stiamo di nuovo vivendo, quell’accusa (ma anche l’incoraggiamento) a noi tutti di non averne voluto più sapere, me le hanno fatte sembrare adatte per il giorno della Memoria.

Il disastro della sinistra con le mani e la mente legate dai professionisti della politica. Il paese e non solo il parlamento ridotto ad un bivacco dei manipoli del padrone della scatola magica. L’attacco oramai sistematico ai diritti civili che viene dall’Oltretevere ratzingeriano, che è giunto con il Cardinal Poletto alla tracotanza perfino di superare il Concordato e sostenere che le loro leggi vengono prima di quelle dello Stato.

Un assedio che oggi prende la faccia impudica del lefebvriano Richard Williamson, antisemita, negazionista ma soprattutto anticonciliare. Se vi è una battaglia che i cattolici democratici dovrebbero combattere è quella per difendere il Concilio Vaticano II dalla valanga reazionaria. Se vi è una battaglia che tutti i democratici di questo paese dobbiamo combattere è quella di Giacomo, studente, partigiano, fucilato dai fascisti: Tutto questo sta di nuovo succedendo perché non ne vogliamo più sapere.

 

«Sei milioni di ebrei disinfettati»

di Iaia Vantaggiato

su Il Manifesto del 30/01/2009

Intervista shock di don Floriano Abrahamowicz, capo dei tradizionalisti a Treviso. Dopo le parole di Williamson, un altro lefebvriano minimizza la Shoah

Le camere a gas? Servivano per disinfettare. Priebke? Non era un boia. E i sei milioni di ebrei morti nei campi di sterminio? Cifre sparate, nella foga, dal capo della comunità ebraica tedesca. Dunque la Shoah non c'è mai stata? C'è stata una tragedia, quella dell'Olocausto, che però non può vantare nessuna supremazia rispetto ad altri genocidi.
Sembra avere pochi dubbi don Floriano Abrahamowicz - capo della comunità dei lefebvriani del Nordest - che con un'intervista rilasciata alla Tribuna di Treviso riaccende la polemica sul negazionismo apertasi con la riabilitazione del vescovo lefebvriano Richard Williamson.
Personaggio affezionato alla ribalta, questo Abrahamovicz , chiamato - nel 2007 - a benedire il crocefisso del «Parlamento del nord» e, sempre nello stesso anno, a celebrare messa in latino a Lanzago di Silea in onore di Umberto Bossi. Frequenti anche le sue sortite su «Radio Padania libera» e più che nota è la sua amicizia con l'eurodeputato Mario Borghezio. Stralci del suo intervento al convegno «Islam come invasione», organizzato a Merano da Forza Nuova e Lega, possono ancora essere rintracciati su alcuni siti di estrema destra mentre sempre di Abrahamovicz è l'iniziativa di celebrare a Verona, durante i giorni del gay pride, una messa riparatrice con tanto di sottotitolo: «Voi Sodoma e Gomorra, noi Romeo e Giulietta».
Questo per dire di un personaggio le cui dichiarazioni non andrebbero nemmeno prese in considerazione non fosse per il momento e il contesto in cui sono state calate. A ridosso del Giorno della Memoria, poche ore dopo le affermazioni negazioniste di Williamson e le scuse tardive di Benedetto XVI. Certo, spiega il prete rappresentante dei tradizionalisti a Treviso, «Williamson è stato imprudente» non certo perché ha negato l'Olocausto, «come falsamente dicono i giornali», ma perché si è fatto strumentalizzare in funzione anti-Vaticano. Del resto, tiene a precisare Abrahamovicz, Williamson ha solo messo in dubbio la «funzione tecnica» delle camere a gas, non certo la loro esistenza..
Come non dar credito a questo prete del profondo nordest che esibisce le proprie origine ebraiche - «anche il mio cognome lo suggerisce» - e che candidamente afferma di non essere antisemita per il sol fatto che nessun « cristiano cattolico» può essere considerato tale. Quanto alle camera a gas, Abrahamovicz - a suo dire - non sisbilancia: «Io so che le camere a gas sono esistite almeno per disinfettare, ma non so dirle se abbiano fatto morti o no, perché non ho approfondito la questione». Stesso dicasi per i numeri della Shoah di cui, concertezza, Abrahamovicz sa solo che non sono importanti e che comunque quella cifra - sei milioni di ebrei «disinfettati» nei campi -è stata semplicemente sparata, sull'«onda dell'emotività», dal capo della comunità ebraica tedesca subito dopo la Liberazione.
Cerca di abbassare i toni l'arcivescovo di Milano, card. Dionigi Tettamanzi che considera definitive le parole del papa sull'argomento pur ammettendo, rispetto al rapporto con i lefebvriani, la necessità e l'urgenza - da parte di questi ultimi - «di aderire a tutti i documenti del Concilio Vaticano II. Alcuni passi sono stati fatti,altri devono essere compiuti».
Affatto tenero il sindaco di Venezia Massimo Cacciari che di Abrahamovicz chiede l'immediata a scomunica pur difendendo la riabilitazione dei lefebvriani (ex) scismatici mentre dal rabbino capo del capoluogo veneto, Elia Richetti, arriva solo un freddo consiglio: «suggerirei a Abrahamovic di leggere 'Sonderkommando Auschwitz, il libro in cui Shomo Venezia, 'Sonderkommando Auschwitz' di Shomo Venezia racconta di come fu costretto a tirar fuori i cadaveri dalle camere a gas».
E non torna indietro il Rabbinato di Gerusalemme: l'incontro previsto a Roma per marzo con alcuni rappresentanti del Vaticano non si farà «a causa dell'attuale stato delle relazioni" mentre la comunità ebraica tedesca interrompe «temporaneamente» il dialogo con la Santa Sede. 

Fuori dai palazzi per una politica di massa

domenica 01 febbraio 2009
di Paolo Ferrero

Vi sono epoche storiche in cui il tempo sembra scorrere più veloce, in cui si producono cambiamenti repentini, in cui ciò che due mesi prima appariva impossibile viene considerato normale. Vi sono epoche in cui i giorni valgono anni. Io penso che oggi stiamo attraversando una di queste epoche. La crisi che ha investito il sistema capitalistico a livello mondiale è destinata a modificare pesantemente le nostre vite. In Italia questa crisi sarà particolarmente pesante e oggi cominciamo ad averne una qualche consapevolezza.

In Italia più di un milione di persone perderanno il proprio posto di lavoro. Di questi la metà non avranno alcuna forma di sostegno del reddito. Molti stavano pagando il mutuo per la prima casa e la perderanno. La paura per il futuro tende a sostituire l'incertezza e l'insicurezza che già caratterizzavano gli ultimi anni.

La crisi non durerà pochi mesi, ma è destinata a durare a lungo perché non è frutto di un incidente di percorso degli speculatori finanziari ma è il frutto maturo della globalizzazione capitalistica. In questi venti anni è raddoppiato il numero di lavoratori salariati a livello mondiale e parallelamente è sceso il salario relativo. In questi anni ovunque nel mondo e in particolare in Italia sono aumentati i profitti e le rendite ed è diminuita la massa salariale e le pensioni. Questa iniqua distribuzione del reddito è all'origine della crisi: i lavoratori non hanno i soldi per comprare le merci che producono. I padroni non hanno nuovi mercati verso cui indirizzare la produzione eccedente. Da questa crisi non si esce senza un rovesciamento della distribuzione del reddito e senza una radicale messa in discussione delle tipologie di produzione e della stessa mercificazione dei valori d'uso.

Nello stesso tempo, il sistema politico italiano vive una crisi irrisolta. Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica non ha dato luogo ad una costruzione stabile, ma piuttosto ad una costruzione fragile. Il ricorso sempre più diffuso al populismo e il continuo scontro tra poteri dello stato ne è un chiaro indizio. Quella italiana, più che una lunga transizione, sembra alludere ad una sorta di crisi della repubblica di Weimar al rallentatore.

Una crisi costituente
Per queste ragioni io penso che ci troviamo di fronte ad una crisi "costituente", ad un punto di passaggio che modificherà radicalmente il quadro dei rapporti sociali, delle culture dominanti, delle rappresentanze politiche. La crisi - questa è la mia tesi - ha una valenza qualitativa simile alla crisi del '29 e - in scala ridotta - alle guerre mondiali. Questa crisi non è un passaggio ma una fucina da cui il materiale che entra viene radicalmente trasformato.

In questa situazione, potenti forze operano per una uscita da destra dalla crisi. Oltre a Confindustria, il governo nel suo impasto di populismo reazionario e politiche economiche antisociali propone nei fatti come sbocco la guerra tra i poveri, o meglio, una gestione autoritaria della frantumazione del conflitto sociale. Il Pd non va oltre alcune suggestioni da borghesia illuminata; accetta la riforma della contrattazione e il peggioramento dell'iniqua distribuzione del reddito isolando la Cgil e risponde alla sua crisi strategica - non è in grado di assumere una posizione chiara su nessun tema - forzando il carattere bipartitico della politica italiana e provando a distruggere la sinistra.

Le altre forze politiche presenti certo non sono in grado di rovesciare questa tendenza. Di Pietro ha accumulato consensi agitando l'antiberlusconismo e costruendosi una posizione di rendita sull'ignavia veltroniana, ma non propone alcun elemento progettuale in grado di prefigurare una uscita dalla crisi. Una parte della sinistra di alternativa - tra cui i compagni e le compagne usciti dal Prc - ha piegato il tema dell'alternativa all'interno della gabbia dell'alternanza, condannandosi così all'impotenza.

Il nostro progetto

Il nostro progetto al contrario propone una uscita da sinistra dalla crisi. Visto il carattere delle classi dominanti e delle rappresentanze politiche, proponiamo una uscita in basso a sinistra dalla crisi, perché non è all'orizzonte nulla di simile a quanto si è prodotto negli Stati Uniti con la vittoria di Obama. In altri termini non è alla portata un governo che persegua un New Deal comunque inteso, per cui la costruzione di uscita da sinistra dalla crisi deve necessariamente passare per una costruzione dal basso, in termini di conflitto, di vertenzialità, di progettualità, di costruzione di relazioni sociali solidali ed egualitarie.

Il nostro progetto si può così declinare: ridistribuire reddito, ridistribuire potere, riconvertire l'economia in senso ambientale e sociale attraverso un intervento pubblico forzato dal conflitto sociale. Questo progetto, per potersi realizzare, deve muoversi su più livelli: il conflitto sociale, la battaglia culturale, la pratica mutualistica della solidarietà, la riproposizione sul terreno della politica della prospettiva dell'alternativa.

A tal fine dobbiamo ripensare completamente il modo di essere e di agire del nostro partito. Occorre evitare qualsiasi continuismo e burocratismo interno. Il peggior ostacolo che oggi noi abbiamo è costituito dall'incapacità di capire che la realtà si è rimessa in movimento e nel pensare che si tratta di resistere, di aspettare che "passi la nottata". Noi non siamo impegnati a fare una traversata del deserto in cui si tratta di resistere. Non siamo gli ultimi sopravvissuti di un esercito sconfitto chiamati a far la guardia a cosa resta di un passato glorioso dopo che la guerra è finita. Siamo dentro una guerra di movimento in cui le identità sociali, politiche e culturali che abbiamo ereditato sono messe pesantemente in discussione, disarticolate dalla crisi, ma anche disponibili al conflitto ed a cercare una via di uscita. Il problema oggi è la capacità di abbandonare completamente un atteggiamento di testimonianza e di propaganda per assumere una linea di massa che sappia interagire con la novità introdotta dalla crisi e su questa costruire le opportune alleanze e convergenze.

Questo, a mio parere, significa fare tre cose. In primo luogo essere costruttori di conflitto. Lo sciopero di Fiom e Funzione pubblica del 13 febbraio e il percorso di lotte pensato dalla Cgil così come le lotte che metterà in piedi il sindacalismo di base, non sono fatti sindacali. Sono la principale risorsa di mobilitazione su cui innervare un tentativo di uscita a sinistra dalla crisi. Dobbiamo lavorare a generalizzare queste lotte e a costruire mille punti di aggregazione, mille vertenze sul territorio. La rivendicazione di estendere gli ammortizzatori sociali a tutti coloro che perdono il lavoro - qualsiasi sia il lavoro, dai precari, ai dipendenti delle aziende artigiane, a tutta la platea del lavoro subordinato - è, da questo punto di vista, obiettivo centrale della piattaforma.

In secondo luogo essere costruttori di pratiche mutualistiche e di solidarietà, di vertenzialità con gli enti locali, per combattere la solitudine delle persone, dare risposte concrete a problemi concreti e creare legami comunitari solidali. Nessuno deve essere lasciato solo nella crisi.

In terzo luogo dobbiamo dare forma al progetto, dobbiamo trasformarlo in bandiere, slogan, ideali, proposta politica. Dobbiamo demistificare il carattere non naturale della crisi e unire le rivendicazioni materiali con la lotta al razzismo e al sessismo. Dobbiamo unire la richiesta della redistribuzione del reddito con la proposta dell'intervento pubblico per la riconversione ecologica e sociale dell'economia. Dobbiamo cioè avere chiaro che il nostro "essere comunisti" deve essere oggi completamente piegato al nostro "fare i comunisti", cioè al nostro costruire qui ed ora il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Non è poco ma non è impossibile. Soprattutto è indispensabile.


1 Febbraio 2009

Auschwitz 2009

di Paolo Nori

su Il Manifesto del 03/02/2009

Il viaggio della memoria di uno scrittore da Fossoli verso i lager tedeschi. Tra due rom con i cappelli da cow boy e un ragazzo con una spilletta con croce celtica sullo zaino, modello Gianni Alemanno

Se due anni fa mi avessero detto Vuoi venire ad Auschwitz?, io avrei risposto, probabilmente, Non ci penso nemmeno. E quando l'anno scorso Silvia Mantovani, della fondazione Fossoli, mi ha proposto di fare il viaggio con loro, di partire in treno da Carpi e arrivar fino ad Auschwitz, in occasione del giorno della memoria, insieme a seicento o settecento tra studenti e professori e politici e scrittori e cantanti, ripercorrendo la strada che avevano fatto settant'anni prima cinquemila italiani, che dal campo di concentramento di Fossoli erano stati tradotti, come si dice, in quei due campi là, Auschwitz e Auschwitz due (così chiamavano Birkenau), io le ho detto Guarda, Silvia, non lo so, io a queste cose come il giorno della memoria sono un po' contrario. E mi aspettavo che lei mi dicesse Ah, va bene, grazie, scusa, e mettesse giù. Invece, mi ricordo, mi ha detto Ma sai che anch'io, sono un po' contraria a queste cose come il giorno della memoria? Ne possiamo parlare sul treno. Allora sono andato. Anche se, l'anno scorso, io ho preteso, in un certo senso, di ripartire poi subito, fare il viaggio con loro, fermarmi una notte a Cracovia e poi prendere un aereo e tornare indietro. Questo per diversi motivi.
Dovevo finire un lavoro, lo dovevo consegnare nei giorni immediatamente successivi, e questo era il motivo principale e la scusa, principale, che queste scadenze, queste date di consegna, per i lavori che faccio io non sono quasi mai rigide, se avessi chiesto di consegnare due o tre giorni dopo mi avrebbero probabilmente detto che andava bene lo stesso. Valeva forse di più il fatto che, tornando il mattino del terzo giorno, non sarei dovuto andare, fisicamente, né ad Auschwitz né a Birkenau, e quindi è vero, avrei fatto il cosiddetto viaggio della memoria, ma non mi sarei trovato di fronte a quella roba lì, ai campi di concentramento che son diventati musei che era una cosa sulla cui opportunità avevo dei dubbi, e in parte li ho ancora. I due giorni di visita ai campi, che volevo schivare, rischiavano di essere, nella mia immaginazione, un estratto di retorica che avrei fatto fatica a sopportare. Poi c'era anche, devo dir la verità, la paura. Un po' mi faceva paura, quella roba lì, che è una roba rispetto alla quale ti viene l'istinto di voltare le spalle. Ma soprattutto, credo, c'era il fatto che io, quelli della fondazione Fossoli, non li conoscevo bene. Non sapevo che atmosfera avrei trovato, in quel viaggio, e avendo provato, qualche volta, andando in giro per l'Italia a presentare dei libri, l'impressione di essere ostaggio di quelli che mi avevano invitato, solo, in una città sconosciuta, a sostenere, e subire, lunghissime conversazioni sulla crisi del mercato editoriale, o sul fatto che in Italia la gente non legge, o su come siano importanti i libri, la prospettiva di trovarmi in una condizione del genere, per cinque giorni, e non Italia, in Polonia, tra Cracovia, Auschwitz e Birkenau, e non a parlare della crisi dell'editoria, ma dell'olocausto e del male assoluto e dell'importanza della memoria e del piantare un seme che crescerà un albero, era una prospettiva che, con tutto che Silvia Mantovani mi era simpatica, farmi tutti e cinque i giorni devo dire che mi sembrava rischioso. Invece poi l'anno scorso, nei due giorni in cui son rimasto, mi son trovato così bene che a quelli di Fossoli ho detto Se mi invitate anche l'anno prossimo vengo anche l'anno prossimo. E loro mi hanno invitato. E questa volta sono stato via cinque giorni, son partito in treno, son tornato in treno, e ho partecipato a tutte le serate e a tutte le visite, son stato ad Auschwitz e a Birkenau e è stato un viaggio talmente strano, son tornato contento, mi vien perfino da dire che mi son divertito, ma cerco di non dirlo, che se dicessi così la gente chissà cosa penserebbero, Sei stato ad Auschwitz e ti sei divertito? Non lo dico, anzi, ero ancora in treno che mi hanno cercato sul cellulare per una cosa e io ho risposto Sto tornando dalla Polonia, mandami una mail per cortesia, che ti rispondo stasera, e nel dire così mi son ricordato che già prima di partire, io andavo ad Auschwitz, e dicevo a tutti Vado in Polonia, e adesso, che stavo tornando, tornavo da Auschwitz e dicevo a tutti Norm dalla Polonia. Che Auschwitz è un nome che si fa fatica a farci dei ragionamenti intorno, a raccontare le cose come le si è viste, perché una cosa che succede ad Auschwitz uno ha l'impressione che debba sempre e comunque essere una cosa che ha, in sé, un qualche orrore, la faccia automaticamente si atteggia al dispiacere, come se Auschwitz non fosse anche, prima di tutto, mi vien da dire, un posto, dove vive della gente come noi, normale, o meglio, come noi, sia normale che poco normale. Come se uno che, per esempio, nasce, ad Auschwitz, dovesse portare per sempre, con la sua carta d'identità, quel marchio lì: te sei nato lì, e quindi devi portare con te sempre un po' di orrore.
Per via del viaggio di quest'anno, è vero, ci sono stati dei momenti, in questo viaggio, che mi veniva da voltare le spalle, come quando, alla fine della visita a Birkenau, con una guida che senza nessuna enfasi ti racconta com'era organizzato il campo, e ti dice che quelli che vedi, quella distesa di camini, è quel che è rimasto delle baracche, e ogni baracca ne aveva due, e non funzionavano quasi mai, perché non c'era niente con cui accenderli, e sembra che li abbiano fatti per dimostrare che i detenuti venivano trattati bene, che stavano al caldo, e non lo sai se è vero, ma se fosse vero sarebbe stranissimo il fatto che quel che è rimasto, quel che è durato più a lungo, la testimonianza, per così dire, è la cosa che non serviva, la cosa finta, mentre la cosa vera, il legno delle baracche, il legno dei letti a castello, per la maggior parte è marcita. Alla fine di questa visita, stavo dicendo, dopo che ti hanno spiegato come era organizzato il campo, e da dove arrivavano i deportati, dove si fermavano, e le strade che prendevano, la maggior parte verso le camere a gas, gli altri verso le baracche, dopo che hai visto le foto dei deportati in divisa, quella famosissima, a strisce, con i triangoli di colori diversi a seconda delle categorie, dopo che hai visto i forni crematori, che erano gli strumenti per lo smaltimento dei rifiuti, in un certo senso, dopo che hai in testa tutta questa metafisica dell'orrore, in un certo senso, tu ti trovi davanti a un muro con le fotografie dei deportati, quelle che si erano portati loro da casa, fotografie della vita di prima, e ti accorgi che quella gente lì era della gente che fumavan la pipa, e andavano al mare, e stavano sopra le sdraio con degli accappatoi bianchi, e guardavano in macchina, trattenendo un sorriso, e si vestivano bene per andar dal fotografo, e guardavano in macchina come se fossero sicuri, come per dire Fotografami, che mi son preparata. Ecco io, lì, ancora, mi è venuto l'impulso di voltare le spalle, e una volta uscito ho guardato lontano, fuori dai confini del campo, e ho visto una casa, che sembrava recente, costruita al massimo negli anni sessanta, e ho pensato Ma questa gente qua come fa, a vivere qui? E dopo, uscito dal campo, è passato un autobus, polacco, pieno di polacchi, com'è naturale, che abitavano lì, e che usavan quell'autobus per andare a casa, o per andare in città, e mi guardavano, e io li guardavo e mi sembrava stranissima, la loro tranquillità. Solo che il giorno dopo, quando siamo tornati a Birkenau dopo essere stati ad Auschwitz, ad Auschwitz uno, che è tutto diverso, un museo, e dove mi era successo ancora di voltare le spalle dopo che la nostra guida polacca ci aveva indicato una specie di baldacchino di legno e ci aveva detto, in ottimo italiano, e con un tono deciso che tradiva una certa soddisfazione, che l'ex direttore nazista del campo, Rudolf Franz Höss, dopo essere stato arrestato in Germania, dove si era nascosto sotto falso nome, era stato trasferito in Polonia e lì processato e condannato all'impiccagione e la sentenza era stata eseguita ad Auschwitz ed era stata costruita appositamente una forca Che è quella lì, ci aveva detto la nostra guida indicando il baldacchino, quel pomeriggio, quando siamo tornati poi a Birkenau, io mi sono trovato a entrare nel campo di Birkenau parlando con un mio amico e senza far caso per niente al posto in cui eravamo, l'avevo visto il giorno prima e era già un paesaggio abituale, e io mi meravigliavo dei polacchi.
È vero, dicevo, ci son stati quei momenti lì, che ti veniva da voltare le spalle, ma ce ne son stati degli altri uguali e contrari, quando per esempio, durante la cerimonia ufficiale, i primi che si sono avvicinati al monumento che c'è alla fine del viale di Birkenau, per deporre le loro corone di fiori, era un gruppetto di dieci-dodici ex deportati, dei vecchietti, e delle vecchiette, con i fazzoletti bianco-azzurri al collo, e uno camminava con le stampelle, e facevan fatica, e uno ha fatto cadere il lumino che aveva, e a me è venuto da pensare che bisognava far delle fotografie a quelle facce lì e metterle in tutte le case e negli uffici pubblici. E quando poi, tra tutte le altre delegazioni ufficiali degli stati che si son succedute, rappresentanti dei paesi che hanno avuto delle vittime ad Auschwitz, armeni, croati, ungheresi, francesi, slovacchi, maltesi, cechi, serbi, svedesi, tedeschi, sloveni e altri ancora (l'Italia non era rappresentata), si sono avvicinati due signori, rappresentanti del popolo rom, che avevan due cappelli a tesa larga, come si dice, un po' da cow boy, e uno dei due aveva il pizzetto e il codino, e un'aria un po' da puttaniere, e uno si immaginava una Mercedes un po' impolverata che l'aspettava fuori, e vedere la proprietà con la quale quei due stavan lì dentro, era una cosa che riempiva gli occhi, e non ti stancavi mai di guardarli.
E, per esempio, mi viene in mente adesso, c'era un ragazzo partito con noi che aveva una spilla con una croce celtica sullo zaino. E prima di entrare a Birkenau gli han fatto notare che forse non era il caso. E lui ci ha pensato poi ha detto Va bene, la tolgo.

Lo scambio tra Strasburgo e Rai

di Micaela Bongi

su Il Manifesto del 29/01/2009

Affare fatto. Escludere dal parlamento europeo chi non siede nel parlamento italiano si può fare. Lo chiede Veltroni e Berlusconi lo concede. Per essere il primo partito anche nel Ppe a Strasburgo e controllare ancora meglio la Rai nel prossimo biennio elettorale

L'accordo è fatto. Di più: già calendarizzato per l'aula di Montecitorio, dove la discussione partirà martedì. L'approvazione a larghissima maggioranza (contrari solo Mpa e minoranze linguistiche) è prevista già per la prossima settimana, dopodiché la palla avvelenata passerà agilmente al senato. A giugno, dunque, le liste che si candideranno alle elezioni europee potranno avere accesso all'assemblea di Strasburgo solo superando la soglia di sbarramento del 4 per cento. Il ministro per i rapporti col parlamento, il forzista Elio Vito, che da tempo seguiva per conto di Silvio Berlusconi la trattativa con il Pd, ieri, dopo il via libera arrivato dai democratici, dall'Italia dei valori e dall'Udc (ma soprattutto dallo stesso Cavaliere), ha ottenuto l'ultimo assenso. Quello della Lega, che in cambio si è assicurata una data precisa per il sì della camera al federalismo fiscale: il 13 marzo. E così, detto fatto, la conferenza dei capigruppo di Montecitorio ha messo in calendario la nuova legge elettorale per le europee, e i presidenti dei deputati, soddisfatti, hanno assicurato che se i termini dell'intesa saranno modificati (si introduce solo la soglia, ma non si toccano le preferenze né le circoscrizioni elettorali) salterà tutto il tavolo. Dopo tanta insistenza, il segretario del Pd Walter Veltroni ottiene dal Cavaliere l'agognato sbarramento che, nei suoi piani, gli consentirà di fare terra bruciata a sinistra recuperando quei punti percentuali necessari a puntellare la sua leadership e a sventare eventuali assalti dalemiani. Non che Silvio intenda fare un regalo disinteressato a Walter, ovviamente. Dal Pd il Cavaliere - tramite l'intercessione della Lega che a sua volta dai democratici non ha avuto problemi sul federalismo fiscale - ottiene un no ammorbidito al ddl sulle intercettazioni: resta la contrarietà ma senza barricate. Senza contare che alle europee il Pdl potrà ambire, grazie alla sterilizzazione delle liste minori, a diventare il primo partito del Ppe o quantomeno a tallonare la Cdu. Il leader di Arcore, al quale Veltroni a questo punto mette in mano il suo futuro politico, intende anche risolvere qualche grana con i suoi soci del Pdl, i nazional-alleati. Accelerando verso il bipartitismo. In questo senso, più che con un accordo su un preciso organigramma con nomi e cognomi, rientra nell'intesa anche il futuro della Rai. Come, non a caso, disse Veltroni il 30 novembre, dopo l'incontro alla camera con Berlusconi, per arrivare al «nuovo bipolarismo», in senso appunto bipartitico, «si comincia dalla legge elettorale». Dunque, se l'«autosufficiente» Veltroni ha bisogno della legge elettorale per sgominare la concorrenza a sinistra, il Cavaliere punta a sua volta a colpire sia la sinistra che Antonio Di Pietro. Per questo l'Idv dovrebbe essere esclusa dal consiglio d'amministrazione di viale Mazzini. L'ex pm assicura di non avere un suo candidato per il cda Rai, sostiene che l'Idv vuole un consiglio d'amministrazione «composto da professionisti che sappiano controllare i partiti e non siano da questi controllati». Il che, naturalmente, non significa che non punti a un consigliere vicino al suo movimento. Quello che non vuole Berlusconi e che, almeno fino a ieri, non gli ha concesso Veltroni. Che forse non a caso, dopo la manifestazione di piazza Farnese e l'incidente tra l'ex pm e il Quirinale, dichiara: «Chiunque attacchi Giorgio Napolitano indebolisce quella capacità di garanzia e di rispetto delle regole che lui ha assicurato in questi anni». Dal canto suo, l'Idv continua a tenere bloccata la vigilanza Rai (che dovrà procedere all'elezione di sette consiglieri d'amministrazione dando anche il via libera al presidente) rifiutandosi di indicare i due commissari dipietristi necessari, in base agli equilibri parlamentari, alla composizione della commissione bicamerale. Il Cavaliere però punta a chiudere il primo tempo della partita Rai (nomina del cda e del direttore generale) prima che la Corte costituzionale, entro febbraio, si pronunci sulla legittimità della legge Gasparri per quanto riguarda il potere di revoca (quindi di nomina) di un consigliere di viale Mazzini da parte del ministero dell'economia, azionista della tv pubblica. Ma per reti e testate, il totonomine potrebbe essere rinviato anche a settembre. Il premier non ha interesse a aprire ora lo scontro nella sua maggioranza e nel futuro Pdl. Al contrario, An punta invece a trattare sulle postazioni mentre si discute sulla creatura del predellino. Allo stesso modo Veltroni intende evitare ulteriori scontri nel partito democratico, rinviando la pratica a tempi che spera migliori per la sua leadership. Sul cda, invece, se per la direzione generale torna il nome di Stefano Parisi, ex direttore generale di Confindustria che due settimane aveva però comunicato a Sua emittenza di voler restare a Fastweb, per la presidenza perde quota Pietro Calabrese, ex direttore del Messaggero e di Panorama sponsorizzato da Goffredo Bettini. Contro di lui si era già rivoltato un bel pezzo di Pd e le resistenze non sono state superate. Saldo, dunque, Claudio Petruccioli, che vanta anche un buon rapporto con il Quirinale, oltre che con Confalonieri. Per il cda, escluso un dipietrista, Veltroni punterebbe ancora sul «suo» ex assessore Gianni Borgna , insieme a Nino Rizzo Nervo, ma c'è anche chi fa il nome di Giovanna Melandri.

 

 Il valore reale del lavoro non c'è più

di Massimo Roccella *

su Il Manifesto del 25/01/2009

Il modello contrattuale doveva essere riformato per affrontare una situazione che, da più parti, veniva definita in termini di «emergenza salariale», ma evidentemente l'obiettivo, strada facendo, dev'essere stato perso di vista o forse i firmatari dell'accordo hanno ritenuto opportuno mutarlo senza darsi la pena di avvertire esplicitamente del cambiamento di rotta. Alla fine, tuttavia, non si può dire che essi non siano stati sinceri, se è vero che l'accordo quadro siglato a Palazzo Chigi sancisce che «obiettivo dell'intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l'aumento della produttività», senza neanche un cenno all'esigenza di difendere (non diciamo di incrementare) il valore reale dei salari. Vero è che sviluppo economico e crescita occupazionale dovrebbero essere sostenuti da una «efficiente dinamica retributiva»: che però è concetto ambiguo, sicuramente non omologabile a quello di difesa del potere d'acquisto dei salari. Dal punto di vista delle imprese, ad esempio, la dinamica retributiva potrebbe apparire efficiente quanto più contribuisca a mantenere basso il costo del lavoro; altri potrebbe aggiungere che la compressione salariale è una necessità ineludibile se si vuol sperare in un incremento dell'occupazione.
Andiamo al merito. Al contratto collettivo nazionale si attribuisce la «funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore». Non si dice però quale sia il livello del trattamento certo o, per meglio dire, non si esplicita con la dovuta chiarezza che d'ora in avanti si firmeranno contratti nazionali che non garantiranno neppure l'obiettivo minimo della salvaguardia del potere d'acquisto. I salari, anzi, a livello nazionale dovranno essere negoziati sulla base di un parametro previsionale (elaborato da un fantomatico soggetto terzo, che l'accordo neppure ha individuato) depurato della cosiddetta inflazione importata, legata alle variazioni dei prezzi dei beni energetici, e dunque a priori non coincidente con il tasso d'inflazione effettiva; perché l'indice previsionale sarà applicato non sull'intera retribuzione, ma su un valore convenzionale da individuarsi, a quanto pare, nei singoli settori. Con evidente possibilità che per questa via si consegua il risultato di una più accentuata svalorizzazione della retribuzione globale (quanto previsto per il pubblico impiego, con buona pace del modello unico di contrattazione, rende più evidente il problema, essendosi precisato che l'indice previsionale sarà applicato «ad una base di calcolo costituita dalle voci di carattere stipendiale», con effetti dirompenti se l'indicazione dovesse essere riferita ai soli minimi tabellari); e infine perché è prevista un'inedita possibilità che il ccnl subisca deroghe peggiorative ad opera della contrattazione territoriale o aziendale: possibilità che dovrebbe essere funzionale anche a «favorire lo sviluppo economico e occupazionale».
Quanto alla contrattazione di secondo livello, tutti coloro, la Cisl in primis, che in questi anni hanno sostenuto la necessità di garantirne l'effettività e una più ampia diffusione, non si sono mai preoccupati di chiarire come l'obiettivo avrebbe potuto essere conseguito. I commentatori del Sole-24Ore continuano ad enfatizzare la funzione di incentivo che dovrebbe essere svolto dall'«elemento di garanzia retributiva», pensato per assicurare attraverso il contratto nazionale un incremento salariale aggiuntivo ai lavoratori (la stragrande maggioranza) dipendenti da imprese dove la contrattazione aziendale non viene praticata: accettando di negoziare sui salari in sede aziendale - era l'idea - le imprese non sarebbero state tenute ad erogare quella voce salariale aggiuntiva. Fatto è che, giunti all'approdo finale, la novità è degradata a mera eventualità, la cui traduzione operativa resta affidata a scelte discrezionali dei singoli contratti. L'unico impulso alla contrattazione di secondo livello, in definitiva, continuerà a riposare sul consistente sconto fiscale graziosamente elargito da Tremonti, col decreto legge del novembre scorso, alle imprese che concordino aumenti retributivi legati alla «produttività». Si può scommettere che d'ora innanzi non ci sarà incremento retributivo aziendale che non venga rubricato sotto la voce «salario di produttività»: come dire che le imprese, che sino a ieri erano disposte a concedere ai propri dipendenti 10 euro netti di aumento in busta paga, continueranno anche domani a corrispondere la stessa cifra, ma risparmieranno sull'incremento lordo (ovvero sul costo del lavoro) a spese del bilancio pubblico. Se poi, per effetto di questa dissennata politica di tagli fiscali, sarà necessario ridurre la spesa pubblica sociale, con tutte le ovvie conseguenze sul reddito dei lavoratori, che importa? Preoccupazioni del genere non toccano la sensibilità dei negoziatori dell'accordo del 22 gennaio. C'è comunque una terza possibilità: le imprese che lo vorranno potrebbero anche decidere di erogare unilateralmente «salario di produttività», dal momento che il beneficio fiscale prescinde dal carattere, negoziato o meno, dello stesso: in questo modo il cerchio si chiuderebbe e la tanto sbandierata effettività della contrattazione di secondo livello rivelerebbe appieno il suo carattere puramente declamatorio.
A fronte della crescita delle disuguaglianze, che verosimilmente discenderà dall'applicazione dell'accordo, ha fatto bene la Cgil a dissociarsi, così come giustamente reclama adesso che l'intesa raggiunta a Palazzo Chigi sia almeno sottoposta a referendum. E' assai improbabile che sia ascoltata, né c'è da aspettarsi che a Corso d'Italia giungano convinti attestati di solidarietà dall'opposizione parlamentare. Qui, forse, si tocca proprio la radice ultima di quanto sta accadendo. Un accordo sulle regole senza l'adesione della maggiore organizzazione sindacale si è potuto concludere evidentemente perché Confindustria e governo hanno ritenuto il momento propizio per isolare la Cgil. La solitudine dei lavoratori e l'isolamento della Cgil rappresentano, in fondo, le due facce della stessa medaglia: l'una e l'altro si spiegano bene in un contesto in cui è venuta meno la rappresentanza politica del lavoro. Il sostegno più convinto alla Cgil è ovviamente, per parte nostra, fuori discussione: ma se non si saprà colmare il fossato fra rappresentanza sociale e rappresentanza politica, sarà davvero difficile risalire la china.

* giuslavorista, ordinario del diritto del lavoro all'università di Torino

Il Congresso costituente del Parti de Gauche: nessun "oltrismo" e Fronte della sinistra alle europee

mercoledì 04 febbraio 2009

 

di Bruno Steri
(Responsabile Europa Prc-Se)

“Ci dicono: prima di redistribuire, occorre produrre la ricchezza. Loro! Che hanno ingrassato le multinazionali e un pugno di ricchi nel mondo!”, “Concittadini, vogliamo cambiare radicalmente la società: non siamo disposti a ricominciare a produrre non importa cosa, non importa come…”, “Noi crediamo alle rivoluzioni dove si vota, come in Venezuela, come in Bolivia”, “La nostra filosofia è quella dei lumi, della repubblica, della sinistra; con un obiettivo concreto: unire la sinistra per battere il neoliberismo”, “E al Partito socialista dico: non agitate il voto utile. L’unico voto utile è quello che porterà nel Parlamento europeo deputati nettamente contrari al Trattato di Lisbona”. Sono queste alcune delle battute con cui Jean-Luc Mélenchon ha concluso il congresso del suo partito: lo ha fatto con una dialettica scaltra e vivace, che coniuga il furore iconoclasta con richiami illuministici e repubblicani (di quelli che scaldano i cuori del patriottismo francese); e che, al contempo, colloca questo transfuga del Ps nel campo della sinistra anticapitalista.

In una struttura periferica situata a sud di Parigi, da venerdì a domenica scorsi, il Parti de Gauche (PdG) ha celebrato il suo “congresso costituente”: una forza politica che, appena nata, conta sul contributo di 4mila militanti (ma il trend è in ascesa) e che, essendosi staccata solo un paio di mesi fa dal Partito socialista, ha trovato un suo spazio nella gauche anticapitalistica francese. Nell’ampia sala congressuale, il clima è quello dei grandi momenti. Ma, in generale, è la situazione politica transalpina che mostra chiari segnali di risveglio e offre alle forze della sinistra consistenti opportunità. La Francia ha appena visto mobilitarsi due milioni e mezzo di persone, chiamate allo sciopero generale da tutti i principali sindacati, di nuovo uniti, contro i tagli di Sarkozy e la sua gestione della crisi: come è stato rilevato anche sulla nostra stampa, erano presenti nelle piazze tutti i settori della società. Non a caso, la relazione introduttiva del congresso ha reso omaggio a questa formidabile giornata di sciopero, ringraziando esplicitamente le forze sindacali per la loro determinazione e la loro inequivoca volontà di lotta. Per comprendere quanto il quadro politico francese sia oggi spostato a sinistra rispetto al nostro, è sufficiente considerare la presenza nel corteo parigino della stessa segretaria del Ps, Martine Aubry. Da noi, al contrario, un pezzo di sindacato firma accordi separati con padroni e governo; e il segretario del maggior partito di centro-sinistra tace davanti ad un’operazione regressiva che tenta di isolare e mortificare il più grande sindacato italiano.

Ma è il tema dell’Europa a marcare la più visibile distanza. Mentre in Italia, al livello dell’opinione diffusa, tale questione è sostanzialmente evanescente, in Francia essa coincide con il nervo scoperto di un referendum tradito. In Francia si è votato; e si è votato “No” al Trattato europeo. Ciò ha consentito alle forze della sinistra di radicare questa tematica nel vivo del dibattito politico. Ed oggi la consapevolezza maturata in quella battaglia referendaria è pienamente disponibile, per dare nerbo all’imminente contesa elettorale (“L’80% delle leggi francesi sono trascrizioni di direttive europee!”). Così - accanto alla proposta politica di un Fronte delle sinistre per la prossima scadenza elettorale continentale - sul piano analitico-programmatico, la crisi del capitalismo e l’Europa hanno del tutto naturalmente costituito l’asse centrale della discussione e dei documenti congressuali; e l’intransigente rifiuto del Trattato di Lisbona (“copia conforme del Trattato costituzionale rigettato nel 2005”) ha orientato l’intero dibattito. Di qui passa eminentemente la stessa critica al Partito socialista, “complice” nell’approvazione del suddetto Trattato-fotocopia. Come detto, la radicale critica a questa Europa, “costruzione liberista e autoritaria”, si è intrecciata con quella del vigente sistema capitalistico e con la necessità storica di un suo superamento: necessità resa ancor più inderogabile dalle drammatiche urgenze (sociali, democratiche, ambientali) indotte dal precipitare della crisi. Su questo, la posizione del PdG è parsa molto netta: “Non si esce dalla crisi rilanciando il capitalismo, ridando fiato ai meccanismi che hanno condotto al disastro sociale e ad una spaventosa crisi ambientale”. Occorre proporre un’alternativa al capitalismo, un altro orizzonte, “precisando le transizioni che vi conducono”. Non sarà una passeggiata: “La sinistra non convincerà il capitale finanziario a rendere quel che ha estorto attraverso un’amabile discussione tra gente di buona compagnia”. Ma deve essere la sovranità popolare a determinare la realizzazione di ciò che corrisponde all’ “interesse generale”: precisamente come sta accadendo in America Latina, in Venezuela, in Bolivia.

Sulla base di tali orientamenti generali, i documenti presentati alla discussione hanno articolato il programma del partito (da proporre successivamente ad un’eventuale coalizione elettorale). Innanzitutto, sul versante interno, quello delle concrete risposte alla crisi sociale. La ricchezza c’è: tant’è che le imprese francesi, nel 2007, hanno incamerato 650 miliardi di utili. Contrariamente a quello che fa il Ps, occorre intervenire con decisione e presto sugli squilibri di classe, proponendo misure strutturali a livello nazionale ed europeo. Anche sul versante esterno, il PdG non sembra fare sconti: neanche ad Obama. Gli Stati Uniti - ha infatti osservato la responsabile del dipartimento sui problemi internazionali - si sono resi responsabili dell’azzeramento del diritto internazionale; e le teorie dello Scontro di civiltà e della Guerra al terrorismo hanno di fatto “fornito un nuovo abito” all’imperialismo. Pur essendo diverso da Bush, Obama non smentisce tali pseudo-teorie: e rafforza le truppe in Afghanistan.

Al grido di “Unità, unità!”, il congresso ha approvato l’appello per un Fronte della sinistra alle prossime europee. Il Pc francese ha già accolto l’invito: e l’ovazione tributata dai delegati alla segretaria comunista Marie-George Buffet ha simbolicamente sigillato l’intesa. La decisione tocca ora al sin qui riluttante Olivier Besancenot, leader del Nuovo Partito Anticapitalista (Npa), che ha raccolto e rinnovato l’eredità della Ligue Comuniste Révolutionnaire, il quale celebrerà il suo congresso nel prossimo week-end. A Besancenot si è direttamente rivolto Mélanchon: “Non ti chiediamo di sciogliere il tuo Npa. Tu dici che ci sono cose che vi distinguono da noi. Confermo: anche noi su alcune cose divergiamo da voi. Ma, appunto, non vogliamo una fusione, bensì un’unione tra forze distinte”. Niente oltrismi, dunque; niente superamenti. E niente scissioni. Così si prova a costruire l’unità. E la si costruisce su punti ben determinati. Mélanchon ne indica due, in particolare: rifiuto netto del Trattato di Lisbona e gruppo parlamentare collocato a sinistra del Ps europeo. Unità nel rispetto delle identità e nella chiarezza dei contenuti: questa è la strada maestra che prova a percorrere la sinistra francese. E un sondaggio dà l’eventuale ressemblement al 14,5%... 

In fuga da Lampedusa verso un sogno di dignità

di Stefano Galieni

su Liberazione del 06/02/2009

Bisogna inerpicarsi sulla strada che costeggia il porto vecchio di Lampedusa fra i bunker della seconda guerra mondiale e le case diroccate che si confondono con il paesaggio aspro e arido di un isola spazzata da maestrale e scirocco per incontrarli. Hassan e Rahman (nomi di fantasia) evitano accuratamente la zona più abitata dell'isola, attraversata in continuazione da automezzi pieni di gente in divisa. Ma nei pressi del porto capita solo qualche volante, quando attraccano le navi dirette verso la Sicilia.
Hassan, è seduto sui gradoni del monumento ai caduti.E' giovane, alto, una barbetta che gli incornicia il bel volto segnato da notti di insonnia. Fuma nervoso una sigaretta dopo l'altra, intabarrato in una giacca a vento nera con la scritta "Italia" su cui risaltano diversi scudetti tricolori. Attorno a lui tre lampedusani: «Ha fatto bene a scappare - afferma il più anziano, il volto segnato da rughe profonde - Al "centro" faceva una vita infame, lo picchiavano, non gli davano da mangiare. Pane e acqua glie li abbiamo dati noi. Avrei fatto come lui».
Rahman ci osserva, da lontano, decide di fidarsi e appare all'improvviso, come se fosse emerso dalla terra. Un punto che corre agile fra le rocce. Si ferma a scrutarci, poi ci raggiunge. Ha l'aria furba di un adolescente, i capelli ricci, indossa un pesante maglione verde acido. Si siede accanto al suo compagno di avventura.
Hassan e Rahman hanno sete, vogliono parlare. Con gli occhi inquieti non cessano di scrutare l'orizzonte. Il rumore di un elicottero li fa trasalire. Sono scappati tutti e due dal "centro" e a loro poco importa se fino a pochi giorni orsono era "di prima accoglienza e soccorso" e improvvisamente, con atto di imperio, è diventato "di identificazione ed espulsione", ovvero una galera a tutti gli effetti. Nei fatti nulla è cambiato: da lì uscire è impossibile, si vive ammassati, nel degrado e nella sporcizia. Nell'attesa. Basta un nulla per scatenare tensioni, per accendere la scintilla e allora si ottengono pugni e schiaffi, dati con metodo.
Si colpisce uno per evitare che altri seguano l'esempio.
Due fuggiaschi, anche se, per il presidente del Consiglio, chiunque esce in continuazione dal centro, magari per andare a bere una birra in paese. Mai accaduto, è impossibile anche entrare: «Io non ci rientro - ripete con rabbia Hassan - sono venuto in Italia per lavorare, non per finire in galera».
Compie in questi giorni 24 anni, Hassan. Proviene da un quartiere della periferia di Tunisi e mantiene quasi tutta la famiglia. In Tunisia aveva un lavoro, nella conceria di un'azienda spagnola che ha delocalizzato lì la produzione, 210 dinari al mese. Neanche 140 euro, in un paese in cui il costo della vita cresce ogni giorno. È da tanto che cerca di arrivare in Europa, ci ha provato da Tunisi 19 volte, ma lo hanno sempre ripreso sulla nave che collega la capitale con l'Italia rispedendolo a casa. Poi ha provato, a cambiare rotta.
Hassan continua a fumare sigarette nervosamente, una dopo l'altra. Rahman sembra prendere tutto in maniera più scanzonata, ma anche la sua vita non è stata facile. Coetaneo dell'amico, lavorava nei mercati di Nabeul, nei pressi della a noi più nota Hammamet. Nell'isola è già una celebrità e ne va orgoglioso: durante una prima fuga dal centro era riuscito a superare le transenne del vicino aeroporto e a salire su uno degli ATR42 che fa rotta verso il continente. Si era accovacciato nei pressi della toilette e per poco il suo tentativo non era riuscito. Uno steward, poco prima del decollo, aveva scorso la sua testa spuntare da un contenitore e inizialmente aveva reagito con spavento. Rahman era stato immediatamente riportato al centro.
Non c'è rimasto per molto. Quando s'è accorto che stavano notificando i provvedimenti di trattenimento e di espulsione a tutti i tunisini. ha pensato bene di utilizzare una delle mille vie di fuga per ridiventare uccel di bosco con la stessa determinazione dell'amico. Mentre lo racconta, ride di un riso contagioso.
«Dentro ci fanno mangiare solo macaroni crudi e in bianco e pane duro - racconta -. Dentro abbiamo dormito su materassi zuppi d'acqua. Se chiedevamo di potere andar via rispondevano sempre "domani, domani" e allora ho detto basta. Fuori ho incontrato persone che mi hanno dato da bere, da mangiare e da cambiarmi, che mi hanno aiutato. La gente che sta fuori è migliore di quella che ci tiene rinchiusi dentro». Hassan aveva invece ricevuto il 28 gennaio il decreto di espulsione. Racconta di essere stato avvisato, da una persona che aveva libero accesso al centro, dell'accordo che si stava stipulando fra Italia e Tunisia, e che questo avrebbe portato al rimpatrio degli oltre 1200 tunisini presenti nella struttura. La persona che li aveva avvisati, compiendo solo il proprio dovere, è stata allontanata.
Si mangia un boccone insieme, i ragazzi sono preoccupati per il proprio futuro immediato, cercano un posto sicuro in cui trascorrere la notte, in attesa di potersi dileguare e lasciare Lampedusa. «Alcuni miei amici hanno detto che i padroni italiani cercano lavoratori per raccogliere la frutta, in Sicilia ma anche da altre parti - riflette Hassan -. Se riusciamo a uscire di qui è fatta. Però c'è una cosa che non capisco: se vi servono lavoratori, perché quando proviamo a venire ci cacciate o ci mettete in gabbia?». Bisognerebbe far parlare Hassan con i tanti che si sono sperimentati a costruire leggi perfide e stupide nei confronti di ragazzi come lui. Come risponderebbero al suo semplice quesito?
Per arrivare in Italia Hassan e Rahman hanno speso una fortuna: il primo ha ipotecato casa, si è fatto prestare soldi che deve restituire: «Mio fratello aveva 700 dinari. Ho dovuto implorarlo: dammeli o mi suicido! Ne ho avuti 500». Rahman invece è arrivato a lavorare fino a spezzarsi la schiena, poi qualcosa ha ricevuto dalla famiglia. Hanno speso 3000 dinari a testa per un viaggio d'inferno.
L'unico varco per raggiungere l'Italia è costituito ancora dalle coste libiche, ma il confine più facile da attraversare con la Tunisia è oggi presidiato. Allora bisogna affidarsi ad un passeur che provvede al viaggio. Si viaggia in direzione sud per 70 chilometri, in pieno deserto, si attraversa il confine in un punto impervio, poi si risale, a nord, fino al mare.
Hassan e Rahman non hanno viaggiato insieme. Hassan era con un gruppo di 500 persone, si è ritrovato chiuso in un capannone, aspettando giorni e giorni prima di poter partire, stipato con altri 120 come lui, mangiando pane e pomodoro, dividendosi la poca acqua che l'intermediario forniva loro ogni tanto. «Avevo pagato, come gli altri solo una quota del viaggio, - ricorda Hassan-. Mano a mano che arrivavano i soldi pattuiti chi gestiva il viaggio stabiliva l'ordine delle partenze, chiamandoci per nome. Una notte ha fatto il mio nome. Sono salito su un gommone con cui abbiamo raggiunto una barca più grande. Dovevamo essere in 400 ma la polizia libica è intervenuta fermando quelli che erano rimasti a terra e così ci siamo ritrovati in 160. A noi è andata bene, la benzina è terminata a 2 chilometri dalla costa di Lampedusa, una nave militare ci ha raggiunto e ci ha portato nel centro. Mi avevano detto che entro due giorni saremmo stati portati in Sicilia, ne sono trascorsi 21».
Rahman ha fatto un percorso simile con altri ragazzi del suo quartiere. Quelli che si sono imbarcati prima di lui sono stati catturati e ora sono nelle carceri libiche. Rahman si è ritrovato stipato in una barca con il mare in tempesta: «Eravamo oltre 360 e siamo rimasti in mare per 3 giorni: tunisini, egiziani, eritrei e sudanesi - ricorda -. Ho temuto di morire mille volte invece ci siamo salvati. Sono rimasto rinchiuso per 38 giorni qui nel centro lampedusano, forse ci drogavano perché dopo aver mangiato ci veniva a tutti un gran sonno».
Quando i lampedusani hanno fatto la prima dimostrazione il Cie era molto affollato. Ai primi rumori della manifestazione gli ospiti del centro hanno divelto le inferriate e in molti sono usciti accolti dalla popolazione.
Qualche isolano ha cominciato a urlare hurrià, hurrià (libertà in arabo) storpiando, probabilmente, l'accento. Alcuni fuggitivi hanno cominciato a gridare una delle poche parole italiane che conoscevano: "libertà".
«La gente ci dava acqua fresca, focacce e frutta secca - raccontano quasi all'unisono Hassan e Rahman -, Poi da un altoparlante hanno cominciato a diffondere musica araba e mentre si radunava la polizia il sindaco ha parlato bene di noi, ci ha invitati rientrare e di stare calmi. Ci ha assicurato che saremmo stati trasferiti. Abbiamo fatto come chiedeva ma appena entrati al centro ci hanno fatti spogliare completamente e perquisiti. Ci hanno anche tagliato le scarpe per vedere se nascondevamo qualcosa nelle suole. Allora abbiamo capito che dovevamo parlare con gli abitanti di Lampedusa, che erano loro i nostri amici. Per questo il giorno dopo siamo usciti tutti insieme e siamo andati in piazza, per parlare».
Hanno scoperto, Hassan e Rahman, di non essere i soli a pensarla così. Fra mille contraddizioni, si è stabilito un legame nuovo fra migranti e autoctoni, fra interessi ed egoismi momentaneamente convergenti e atti di vera solidarietà. Risulta - se ne parla nell'isola - che siano almeno 40 quelli che non hanno fatto ritorno al centro. Una fonte autorevole presume che una parte consistente di loro abbia già raggiunto la Sicilia dopo essere stata ospitata e aiutata dai lampedusani. L'isola è militarizzata, i controlli, giorno e notte, sono minuziosi ma non sono bastati.
Anche Hassan e Rahman, sfuggiti per un soffio alla cattura, se ne sono andati sfruttando l'unico diritto fondamentale che potevano esercitare da "clandestini": il diritto di fuga.

Il tronco nella democrazia

di ----

su Peacereporter del 07/02/2009

Negli ultimi giorni questo Paese è molto cambiato. I senza fissa dimora, che sono i popoli nomadi, ma anche i barboni, i disperati, quelli che come sempre più spesso accade non hanno i soldi per pagarsi un affitto, ma anche - poniamo - chi decidesse di vivere in una casa mobile, in un camper o in una rulotte come il poliziotto Mel Gibson in Arma letale, non avranno più diritto ad avere la residenza in una città. Saranno, sui documenti e per gli ospedali e per le scuole, solo dei "senza fissa dimora".

Il tuo sindacato strappa un nuovo contratto? Nessun problema, il tuo padrone lo potrà stracciare, perché i contratti nazionali del lavoro non saranno più quel punto di riferimento inprescindibile che stabiliscono salari e diritti e doveri di chi lavora. Saranno fatti tuoi di contrattare con il tuo padrone (pardon, datore di lavoro) stipendio ferie, diritti e doveri. E se sei forte buon per te. Se invece (come la stragrande maggioranza dei dipendenti italiani) lavori in una piccola o media impresa, il tuo potere di contrattazione sarà pari allo zero.

Il migrante irregolare che avrà bisogno di cure mediche (magari perché ha la schiena spezzata da 12 ore di lavoro in nero gentilmente offerto dall'imprenditore italiano) dovrà pensare bene prima di andare a chiedere aiuto in ospedale: rischia di finire espulso.

A meno di non incappare in una ronda (padana o del tavoliere delle puglie che sia) di cittadini dotati di camicie modello "giustizia fai da te", nere, verdi, azzurre o chissà. E allora rischierà ancora del peggio.

Vuoi morire in pace? Ti attacchi al tram: il Papa non vuole e quindi i medici saranno costretti a mantenerti in vita, anche se tu sei ridotto ad un tronco e non avresti mai voluto sopravvivere ridotto così al nulla. Alla faccia dello Stato laico e sovrano.

E' impressionante come in un mese questo Paese si sia trasformato. Ci stanno precipitando nel medioevo, ma non importa. Tutto va ben, madama la marchesa. L'importante, per Veltroni, Di Pietro e soci (cioé quelli che dovrebbero istituzionalmente opporsi) è avere garantita una poltrona in più alle elezioni europee. Su quello si accende il dibattito, anche quello dei cosiddetti piccoli partiti della sinistra radicale che le poltrone si vedono sempre più sottrarre. Vero, sottrarre in modo ladresco. Ma è più importante una poltrona o sono più importanti i diritti dei cittadini?

Ma la cosa più impressionante è che questo orrore che ci sta travolgendo è frutto di anni e anni di lavoro, di paletti spostati sempre più in là, sotto gli occhi complici di tutta la casta politica italiana. Oggi tutti questi paletti spostati si sono trasformati in una grande trave, che si è infilata negli ingranaggi, per dire così, della nostra democrazia.
Ma tutto va ben, madama la marchesa.

P.S. Capisco che la chiusa di questo articolo sia forte. Ma i gruppi di Facebook, che stando all'informazione è l'unico luogo di aggregazione e opposizione rimasta, sono davvero una reazione troppo debole.

 

Una norma stolta prima che perversa

di Gino Strada

su Peacereporter del 07/02/2009

A oggi, in Italia, una legge vieta al personale sanitario di denunciare gli immigrati conosciuti per ragioni di cura, anche se la loro presenza in Italia non fosse regolare.
Un emendamento approvato al Senato intende sopprimere questa norma.
Si metterebbero così gli individui nella condizione di scegliere fra l'accesso alle cure e il rischio di una denuncia; si spingerebbe parte della popolazione presente in Italia nella clandestinità sanitaria, con grandi rischi per sé e per la collettività.
Si vuole affidare ai singoli medici la scelta se garantire lo stesso diritto alla cura a tutti gli individui, nel miglior interesse del paziente e nel rispetto del segreto professionale, oppure se esercitare la facoltà di denunciare i loro pazienti "irregolari".

Secondo tutti i medici che ho conosciuto e apprezzato, l'unico modo giusto e civile per fare medicina è garantire a tutti la miglior assistenza possibile, senza distinzione alcuna riguardo a colore della pelle, sesso, convinzioni politiche, religiose o culturali, nazionalità o status giuridico.

Questo è il modo in cui Emergency ha lavorato, per quindici anni in tredici diversi paesi, curando tre milioni di persone senza distinzioni. Questo è il modo con cui continuiamo a lavorare, anche in Italia, nel Poliambulatorio per migranti e persone indigenti di Palermo.

Anche di fronte all'inciviltà sollecitata da una norma stolta prima ancora che perversa, sono certo che i medici italiani agiranno nel rispetto del giuramento di Ippocrate, nel rispetto della Costituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Nel rispetto, soprattutto, di chiunque si rivolga a loro avendo bisogno di un medico.

 

«Norme illegali, ora disobbediamo»

di Cinzia Gubbini

su Il Manifesto del 07/02/2009

Cresce il fronte della protesta contro la norma che prevede la possibilità per i medici di denunciare i clandestini. La Puglia prepara un decreto che contraddice le norme del governo. Si oppongono anche le altre regioni di sinistra, spianata la strada a una pioggia di ricorsi alla Corte Costituzionale. E tra gli immigrati c'è solo tanta incredulità La regione Puglia vieterà ai medici di denunciare gli irregolari. Intervista al governatore Vendola

Non starà a guardare la Puglia di Nichi Vendola: alla probabile approvazione della norma che lascia libero il medico di decidere se segnalare alla polizia un immigrato senza permesso di soggiorno, risponde con un decreto che invece vieterà esplicitamente la denuncia.

La regione Puglia si pone dunque in contraddizione con una legge dello Stato?

Chi sottoscrive convenzioni con noi dovrà sottostare a questa regola: non denunciare mai gli immigrati clandestini di cui eventualmente si farà carico. Convocheremo a breve un apposito comitato con i medici di base in cui lo spiegheremo.

Pena?

Il rischio è quello del deconvenzionamento. Ma devo dire che le associazioni dei medici e i sindacati si stanno schierando in modo compatto a fianco della regione. D'altronde è un principio che fa parte dello spirito con cui la regione regola la sanità pubblica. Nei mesi scorsi abbiamo approvato un piano della salute, su questo punto con l'astensione di parte dell'opposizione, in cui si stabilisce che sul territorio pugliese gli immigrati irregolari accedono gratuitamente e anonimamente alla medicina d'urgenza e al medico di base.

Eppure nel senso comune si sta imponendo il concetto secondo cui non è giusto che un irregolare acceda al servizio sanitario

Ma questa è una questione che precede il dibattito sul welfare. Dal punto di vista del medico riguarda il giuramento di Ippocrate e dal punto di vista di un amministratore pubblico l'esercizio di diritti fondamentali degli esseri umani. Il diritto alla cura a mio avviso è prioritario rispetto ad altri beni di cui si vuol discutere, come quello della sicurezza collettiva. Anzi, se da un lato c'è una questione di principio, dall'altro c'è una questione assolutamente pratica: spingere i clandestini completamente fuori da qualsiasi struttura pubblica, compresa quella sanitaria, significa determinare la nascita di un mercato della salute in nero.

Sarà semplice spiegarlo ai suoi cittadini?

Io penso che abbiamo il dovere di alzare una voce, di non cedere a questo vento maleodorante, di non rinunciare a un punto di vista che riguarda la dignità dell'essere umano. L'immigrazione oggi è diventata una specie di casa degli spettri: questo crea un avvelenamento del clima culturale e civile del nostro paese. Ogni giorno di abbatte una soglia di civiltà, e a poco a poco ci si abitua. La schedatura dei clochard ha troppo un'evocazione nazista per non produrre una reazione. La tassa sui permessi di soggiorno, le ronde padane...siamo a provvedimenti che c'entrano poco con il tema materiale della sicurezza, che è tema che riguarda la precarietà della vita e del lavoro, la precaria della convivenza nelle periferie. Ha invece molto a che vedere con una simbologia cupa, melmosa e cattiva, con cui si cerca di colloquiare con le viscere di un paese spaventato.

A questo proposito: Berlusconi di solito ha un fiuto infallibile per l'aria che tira nel paese. Come spiega, allora, la sua decisione di appoggiare il decreto d'urgenza sul caso Englaro, quando secondo i sondaggi la maggioranza degli italiani è d'accordo con la sentenza della Cassazione, per quanto lui dica di essere in possesso di dati di diverso segno?

Siamo da mesi alle prese con il tema della crisi e della recessione. Alla vacuità assoluta delle ricette anticrisi del governo corrisponde un'implementazione di atti politico-ideologici. Come se fossimo alla seconda parte del libro di Tremonti, a chi cioè in chiave anticrisi pensa di immettere una robusta dose di valori tradizionali, di codici regressivi nelle vene della società italiana. Un «dio, patria e famiglia» che taglia in modo spiccio nodi assai complessi come quello della vicenda di Eluana. Che recupera tutto il repertorio delle paure alimentate dall'intolleranza xenofoba. E per questa via si incarica di fornire non risposte materiali, ma capri espiatori che possono moltiplicarsi e consentirci non di risolvere la crisi ma quanto meno di regolare qualche conto simbolico e privato.

Tornando al decreto della Puglia sulla sanità, di fatto lei sta utilizzando lo strumento federalista per rispondere a una norma approvata dal parlamento...

Io penso che ci sia una legge suprema dello Stato, che è la Costituzione. E il parlamento sta legiferando con spirito contrario a quello della Costituzione. Credo inoltre che al di sopra della Costituzione ci siano principi e valori come quelli scritti nella Convenzione dei diritti dell'uomo che ritengo inviolabili. Non agisco quindi in un'ottica federalista, viceversa è nell'ottica dell'universalismo dei diritti delle persone che io mi ritengo renitente a questa leva.

Pensa di creare un fronte con altre regioni?

Vediamo, stiamo a vedere. Di certo questa nostra iniziativa sta creando una buona mobilitazione.

 

Un altro passo verso il baratro

di Annamaria Rivera

su Il Manifesto del 07/02/2009

Il culto delle feste in costume sboccò nel fascismo, scrive Adorno in «Minima moralia»: aforisma perfetto a illustrare l'approdo fascistoide del folclore padano e con esso dell'Italia berlusconiana. Approdo perfettamente incarnato da uno degli artefici più entusiasti del ddl sicurezza: quel senatore Bricolo che alterna gli interventi in aula in dialetto veneto con l'esaltazione di Mussolini, le vecchie battute da osteria su questioni serie come i matrimoni misti - «Moglie e buoi dei paesi tuoi» - con la trovata della norma che invita il personale sanitario alla delazione contro i «clandestini», ovvero gli ebrei di oggi.
Un certo Cicchitto trova che evocare gli anni '30 sia fare dell'umorismo involontario. Solo un poveretto ignaro della storia, dimentico della democrazia e della civiltà giuridica, nonché privo del senso del tragico, può non cogliere che in effetti vi è qualche vaga analogia.
C'è un sentore di fascismo -non più solo il consueto razzismo trasandato all'italiana - nelle norme-manifesto approvate l'altro ieri dal Senato: al di là del loro contenuto, pur grave, l'intento è anzitutto quello d'imbarbarire ancor di più il clima del paese, additargli un capro espiatorio, imprimergli lo stigma del reietto, renderlo più docile e sfruttabile come forza lavoro, legittimare il sospetto, la discriminazione, la delazione come normali comportamenti di massa.
La sollecitazione, di fatto, al personale sanitario perché denunci gli irregolari che accedono alle cure; la legalizzazione delle ronde padane quantunque non armate. Il reato d'immigrazione clandestina. La gabella fino a 200 euro per il permesso di soggiorno. Il carcere fino a quattro anni per gli irregolari che non rispettino l'ordine di espulsione. Il rafforzamento e l'estensione della possibilità di sottrarre la potestà genitoriale (indovinate a chi?). Il divieto d'iscrizione anagrafica e la schedatura non solo dei clochard, come si dice, ma anche di un buon numero di cittadini italiani -rom, sinti e non solo- che, abitando in dimore diverse da appartamenti, saranno schedati in un registro del ministero dell'Interno. Tutto questo configura un intento persecutorio verso migranti e minoranze, dettato più che da razionalità politica, da meschino calcolo economico e demagogico, connesso con quelle forme di psicosi di gruppo -fobia, ossessione, mitomania- che spesso contraddistinguono le élite politiche populiste e autoritarie.
C'è un sentore di fascismo nell'incoraggiamento alla delazione, ora sancito per legge, estendendo così sul piano nazionale ciò che da tempo è norma e prassi soprattutto nelle repubbliche delle banane governate dalla Lega Nord: per esempio in quel di Turate, monocolore leghista, dove il comune invita ufficialmente i cittadini alla denuncia, anche anonima, degli stranieri irregolari.
A onor del vero, un bell'esperimento di delazione anonima di massa è anche l'accordo siglato a Torino fra il Comune e la rete delle farmacie, presso le quali dal 1° ottobre scorso si raccoglievano (forse si raccolgono ancora) informazioni su rom, poveri, senza-casa, mendicanti, posteggiatori abusivi. A dimostrazione che, davvero, la cultura sicuritaria e razzista egemone nel paese è trasversale agli schieramenti politici come alla società detta «civile» per esagerare.
La pratica delle squadre speciali e della delazione, anonima e non, sono, come si sa, strumenti insostituibili di ogni regime dittatoriale. Suvvia, non parliamo di nazismo, dice quel tal Cicchitto. Va bene. Ma certo, se non ci si lascia ingannare da ciò che permane dell'involucro democratico, alcuni elementi che connotano lo stato del paese appaiono allarmanti. Preoccupante è la saldatura, ormai anche «sentimentale», che lega il discorso e l'operato di istituzioni centrali e locali con il senso comune più diffuso o almeno reputato più degno di esprimersi: attraverso la delazione e le azioni squadristiche.
Insomma, la connessione fra il razzismo di stato e quello popolare, fra la persecuzione e il pogrom, ma anche, benché più sottilmente, fra la cultura politica della destra e quella di buona parte dell'opposizione parlamentare non fanno presagire niente di buono. Chi si è trastullato con retoriche e misure sicuritarie nel corso della passata legislatura ha evocato mostri che oggi minacciano non solo di rendere l'Italia un paese strutturalmente razzista ma anche di divorarne la democrazia.
Lo sfaldamento del tessuto sociale, un ceto politico da operetta, la volgarità imperante nei mezzi di comunicazione, il degrado profondo della società civile, l'avanzare, insieme alla crisi economica, di quella forma di incertezza e di disgregazione morali, oltre che sociali, che accende il desiderio di capi carismatici: no, non siamo nel '29 né in Germania, ma di sicuro sull'orlo di un precipizio.
Spetta alle minoranze, malgrado tutto disseminate nella società italiana, tentare di agire perché si faccia quel passo indietro che impedisce di precipitare nel baratro.

 

Forum a Liberazione con Gianni Rinaldini e Carlo Podda

 

Riparte il conflitto sociale: pubblici e metalmeccani uniti

 

Il forum si è tenuto l'8 febbraio presso la sede di Liberazione. Vi hanno partecipato Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom, Carlo Podda, segretario generale della Fp-Cgil, Dino Greco, direttore di Liberazione e Fabio Sebastiani.

Fabio Sebastiani
Il 13 febbraio sarà formalmente lo sciopero generale di due categorie, pubblico impiego e metalmeccanici, ma anche la prima reazione pubblica all'accordo separato sul nuovo modello contrattuale del 22 gennaio. Quindi, è una giornata in cui si concentrano temi sindacali, a partire dal salario, passando per il nuovo regime di deroghe e finendo con la bilateralità, ma anche temi politici visto che, come è stato detto, è in atto un forte attacco alla democrazia. Liberazione intende accompagnare questo percorso con un approfondimento puntuale di tutti gli elementi sul tappeto.

Dino Greco
C'è una prima questione. Una manifestazione con sciopero generale indetta da Fiom e Fp, le due più forti categorie della Cgil, è un fatto inedito. Come lo è la circostanza che mentre si prova a contrapporre il lavoro pubblico al lavoro privato si dia un segnale in chiara controtendenza. Come e perchè è maturata questa scelta?

Gianni Rinaldini
Ci troviamo di fronte a una situazione eccezionale, caratterizzata da accordi separati che non hanno precedenti e dentro una operazione costruita con l'obiettivo esplicito di contrapporre lavoratori pubblici e privati. La nostra iniziativa nasce da una riunione congiunta del mese di luglio 2008 dei due direttivi a Torino che ragionavano sul fatto che era partita la campagna contro i cosiddetti fannulloni e, contemporaneamente, una trattativa con la Confindustria sul modello contrattuale. Era chiaro che questo preannunciava un intervento a tutto campo. Da qui la necessità di costruire una discussione ed una iniziativa comune, che non era scontata. E questo ha pesato anche nella discussione in Cgil, tanto è vero che lo sciopero del 13 non è che l'inizio di una ulteriore fase di mobilitazione che coinvolgerà l'insieme della Cgil fino alla manifestazione nazionale prevista per il 4 aprile. E' di assoluto valore che questo sia avvenuto sulla base di scelte di merito che hanno superato discussioni che c'erano state in passato tra le due categorie.

Carlo Podda
L'idea semplice è poter contrapporre al "divide et impera" l'altrettanto vecchia regola secondo cui insieme ci si intende meglio. Parlandoci un po' più da vicino, senza dimenticare, come diceva Rinaldini, che prima c'erano stati punti di vista diversi su alcune questioni, che probabilmente in parte permangono. Abbiamo tuttavia scoperto che erano molte di più le ragioni che potevano spingerci a metterci insieme e soprattutto ad individuare un terreno di azione comune. In particolare ci è sembrato che a differenza di quanto hanno fatto in questi anni i partiti della sinistra politica valesse la pena ricercare cosa fosse utile fare piuttosto che con chi farlo. E se questo qualcosa si potesse fare assieme. Ora, detto questo, penso che la precarietà è un dramma che attraversa sia il mondo del lavoro privato che il mondo del lavoro pubblico. La totale mancanza di sicurezza nella continuità del rapporto di lavoro e di qualsiasi ammortizzatore sociale, soprattutto nel caso di persone che non sono nemmeno più giovanissime, è una questione drammatica. Ricordo che le amministrazioni pubbliche sono considerate il maggior datore di lavoro precario. Si è scambiata la flessibilità per precarietà e si sono scambiati i lavori con forme di lavoro temporaneo per mansioni che non sono assolutamente temporanei, dalle maestre d'asilo agli infermieri, per passare ai poliziotti. Abbiamo segnalato noi al Viminale che c'erano duemila agenti della pubblica sicurezza che si trovavano in scadenza di contratto e che rischiavano di ritrovarsi in mezzo a una strada. Solo nel settore dell'auto più di cinquemila precari sono andati a casa. Nel pubblico impiego in gran parte si tratta di lavoratori della sanità e degli enti locali, persone che hanno un rapporto diretto con i cittadini, di gestione di erogazione dei servizi. A giugno sessantanovemila andranno a casa. Potrebbero diventare centoventimila nel 2010 per arrivare a più di duecentomila nel 2011.

Greco
E' evidente che l'attacco è frontale. Ma allora perchè venerdì scendono in campo solo Fiom e Fp? State svolgendo, oggettivamente, un ruolo di traino nei confronti della confederazione? E' così?.

Podda
Più che un ruolo di traino, preferisco pensarla così: ci ritroviamo nella condizione di avere il bisogno, e forse anche la forza, di provare a mettere in campo una iniziativa come questa. Lo sciopero in un periodo come questo è una cosa complicatissima. Si tratta di andare a chiedere alle persone di perdere dalle settanta alle cento euro a seconda della qualifica. Va poi detto che questa necessità, dopo il 22 gennaio, ce l'hanno tutte le categorie. Il 31 ottobre c'era già stato un accordo separato nel pubblico impiego. E lì giàerano già presenti tutti gli elementi che poi si sarebbero ripresentati: dall'alleggerimento delle forme di tutela e garanzia del contratto nazionale allo strozzamento della contrattazione integrativa. C'è la riduzione della democrazia, perché si pretende di concludere accordi con sindacati minoritari. Abbiamo visto tutto un po' prima degli altri, così come abbiamo vista prima la crisi del Welfare perché quando i lavoratori delle cooperative sociali si sono visti ridurre nell'arco di pochi mesi da trentasei a dodici ore settimanali, così come un lavoratore dell'auto ha percepito prima degli altri la crisi perché ha cominciato a subire il ricorso alla cassa integrazione. Poi, certo, c'è una discussione, la Cgil è una organizzazione complessa e multicentrica, molto plurale al suo interno e bisogna che maturino le condizioni per tutti e nello stesso momento.

Rinaldini
Aggiungo il fatto che come meccanici abbiamo indetto una manifestazione nazionale e uno sciopero per il giorno 12 dicembre e la Fp aveva previsto lo sciopero per lo stesso giorno. E tutto poi era confluito positivamente nello sciopero generale proclamato dalla Cgil per la stessa giornata. E' vero che le due categorie avevano messo in campo una serie di iniziative di carattere generale, cosa non prevista da altri sindacati di categoria. Va da sè che, a fronte dell'accordo separato sul modello contrattuale, Fiom ed Fp abbiano ragionato su una iniziativa comune. Capisco che questo si è prestato alle più svariate letture, ma sarebbe stato assurdo se a quel punto i metalmeccanici e la funzione pubblica facessero due scioperi generali con manifestazioni nazionali nell'arco di una settimana.

Greco
Torniamo al 22 gennaio, alla madre di tutti gli accordi separati, quello sulle regole. Non è più il confronto di merito su questo o quel contratto. Qui siamo davanti a una accordo che disciplina l'intero sistema della contrattazione e ne esclude il maggior sindacato italiano. E una dichiarazione di ostilità contro la Cgil, un vero e proprio patto ad escludere, voluto da governo, confindustria, con Cisl e Uil corrive. Nel merito, il primo punto che balza agli occhi è la messa in mora del contratto nazionale attraverso la riduzione programmata del salario e le deroghe territoriali al contratto nazionale. Una attacco dall'alto e dal basso. Che valutazioni fate?

Rinaldini
Intanto, noi siamo di fronte a un accordo separato sulla struttura contrattuale, che è cosa diversa dalla stipula, pur grave, di un accordo separato su un singolo contratto. Tanto è vero che una cosa simile non era mai avvenuta, nemmeno negli anni '50, in un momento di massima divisione sindacale. Quell'accordo precostituisce adesso e per il futuro un assetto che comporta la definizione di limiti assai pesanti per i contratti nazionali. Nel merito, c'è la riduzione, secca, del potere di acquisto dei salari. Aggiungo, già a partire dalla riduzione del valore del punto oltre che rispetto all'inflazione. Per capirci, si passerebbe dai diciotto euro attuali ai quindici euro. Oltre al fatto che c'è l'apertura ad un processo di scardinamento del contratto nazionale con le deroghe e la messa in discussione del diritto di sciopero, soltanto per ora limitata ai dipendenti pubblici. Non caso tra quindici giorni il Consiglio dei ministri discuterà le regole sul diritto di sciopero. Qui torna la questione cruciale della democrazia, che è in questa fase assolutamente decisiva. Bisogna prendere coscienza che siamo di fronte all'espropriazione totale dei lavoratori e delle lavoratrici del diritto di decidere su piattaforme ed accordi dei futuri contratti. Siamo di fronte ad un passaggio che rende esplicita una idea di utilizzo della crisi per ridefinire l'assetto delle relazioni sociali, reinscrivendole dentro una pesante torsione autoritaria. Chi sta dentro il quadro bene, chi non sta dentro è considerato un nemico da distruggere. Credo che questo sia un aspetto dei processi a livello sociale che sta in rapporto con una idea complessiva di assetto istituzionale del Paese che vede pesantemente compromessa la democrazia.

Podda
Aggiungo che c'è una riduzione della base di calcolo del 30%. Di solito facciamo riferimento ad una base di 25mila euro lordi, comprensiva del salario accessorio. Nell'accordo c'è scritto che d'ora in poi si farà riferimento ai cosiddetti elementi stipendiali. Ciò significa che questo 30% non potrà più essere calcolato. Una diminuzione programmata del potere di acquisto delle retribuzioni.

Greco
Già miserabili...

Podda
Si, già miserabili. L'ha ricordato Carniti qualche giorno fa. Noi avevamo presentato una piattaforma unitaria che doveva cominciare ad invertire questa tendenza. Il risultato è che ci hanno cucito addosso un modello contrattuale che è nettamente peggiorativo rispetto a quello del 23 luglio. Quanto alla democrazia, è utile ricordare che, pur con tutti i limiti e le difficoltà, Cgil, Cisl e Uil, anche con giudizi diversi, erano sempre ricorse alla prova di un giudizio generalizzato da parte dei lavoratori. Questo diritto viene oggi negato con motivazioni risibili. La stessa struttura contrattuale tende ad allontanare i lavoratori dal proprio contratto. Pensate al ruolo delle categorie, dove l'incremento delle retribuzioni viene fatto in base a un indice stabilito da un'autorità terza, e il riallineamento avviene con un accordo interconfederale. Il ruolo del sindacato di categoria mi sembra mortificato.

Greco
Stai dicendo che si è voluto disegnare un sistema di relazioni industriali imperniato su una fortissima centralizzazione che lede in profondità l'autonomia delle categorie...

Podda
Assolutamente. Ricordo che l'accordo del 23 luglio consentiva aumenti largamente al di sopra dell'inflazione programmata, come è avvenuto nel caso dell'ultimo contratto dei metalmeccanici. Non era un vincolo, ma una scelta di automoderazione a condizione che ci fosse un accordo di politica generale su prezzi e tariffe e politica generale di tutti i redditi. Poi ne è stata data una lettura che ha provocato un effetto di contenimento dei salari che ha provocato quegli effetti distorsivi che ricordavo prima. Oggi siamo in presenza di una cosa molto diversa. Il governo affronta la crisi con questo sistema ridisegnando una nuova distribuzione del reddito e un nuovo modello sociale più autoritario prospettando di far uscire il Paese dalla crisi ancora più diseguale e ancora più autoritario. Non a caso Sacconi ha detto che con questo accordo ci liberiamo di uno degli ultimi orpelli del '68. E questo perché l'ideologia che guida l'azione di questo Governo è esattamente questa, demolire il riscatto del lavoro e delle classi sociali.

Greco
L'accordo separato è stato venduto spiegando che il depotenziamento del contratto nazionale sarebbe compensato dallo sviluppo della contrattazione integrativa che si vuole vincolata ad incrementi di produttività. Oltretutto non si capisce in virtù di quale prodigio essa dovrebbe estendersi. L'unica cosa che si introduce è questa sorta di mancia di cui beneficerebbero i lavoratori delle aziende ove non si esercita la contrattazione integrativa.

Rinaldini
Il fatto che adesso ci sarebbe una contrattazione integrativa legata alla produttività è tutta una bugia perché già c'é. Quale è la novità, se non il fatto che ci troviamo di fronte a uno schema sulla parte retributiva che prevede un contratto nazionale che non copre il potere di acqusto e aumenti aziendali completamente variabili. Si fa presto a capire cosa vuol dire questa dinamica sul piano redistributivo generale e sulla condizone di lavoratori. L'altro aspetto che lì è esplicitato è che nel livello aziendale c'è solo ciò che viene rinviato dal livello nazionale. Quindi c'è anche una riduzione del ruolo della contrattazione articolata, altro che valorizzazione. Ed è un ruolo che la riconduce alle condizioni di bilancio e di redditività delle imprese. Scompare l'autonomia del sindacato e una contrattazione aziendale che sia in grado di intervenire complessivamente sull'organizzazone del lavoro in fabbrica. Tra l'altro, anche per quanto riguarda le piccole imprese, non c'è alcun elemento di novità se non una flebile copertura in tutte le situazioni dove non c'è la copertura aziendale. E' quello che nei metalmeccanici è chiamato elemento perequativo.

Podda
Tutte cose vere, ma noi abbiamo un tema in più. Il testo della riforma Brunetta prevede che il contratto potrà derogare da leggi, statuti e regolamenti. Così addio al contratto nazionale.

Greco
...Con buona pace del giuslavorismo moderno che vede proprio nell'indisponibilità della norma lo strumento per proteggere la parte più debole dalla sua stessa debolezza. C'è un terzo punto di quell'accordo: la proliferazione di strutture bilaterali che trasformano il welfare universale in welfare contrattuale. Mi pare si inauguri una pratica corporativa, consociativa e aconflittuale che cambia in rdice la natura del sindacato. E' così?

Podda
Credo che la prima conseguenza riguardi la cittadinanza. Così ci apprestiamo a liquidare lo Stato sociale. Ci sarà anche chi l'ente bilaterale non ce l'avrà affatto e chi ce l'avrà di serie B. Tutto in perfetta continuità con il Libro verde di Sacconi.

Rinaldini
Gli enti bilaterali sono parte di un progetto complessivo che usa la crisi per ridefinire l'assetto delle relazioni sociali. Uso il termine che ha usato Sacconi nel presentare l'accordo: passare da rapporti conflittuali a rapporti di complicità tra lavoratori e imprenditori. Il conflitto in questo schema è un fatto eversivo e non la linfa stessa della democrazia. Esso viene eliminato non in forza di buoni accordi tra le parti, ma con dispositivi di legge. Dal diritto di sciopero agli enti bilaterali c'è un percorso di frantumazione dei diritti universali. In questo sta a mio avviso il rapporto con le vicende istituzionali e politiche. Il nostro non è un Paese granitico nella sua storia democratica e nell'equilibrio dei diversi poteri. Non a caso tutte le scelte odierne vengono sempre presentate esplicitamente come una svolta o una rottura rispetto alle fasi delle conquiste democratiche nel nostro Paese. La democrazia, insisto, diventa una questione centrale. Impedendo ai lavoratori di intervenire sulle loro condizioni si palesa un' aggressione alla costituzione materiale del paese.


Greco
In effetti, con l'attacco al diritto di sciopero, siamo al compimento di un progetto reazionario. E si comincia dai lavoratori pubblici.

Podda
Lo sciopero è un diritto individuale esercitato collettivamente. Mi pare che tutto sia molto chiaro rispetto al profilo autoritario che il governo va assumendo su democrazia e contrattazione, senza parlare delle contrapposizioni tra nativi e migranti e tra uomini e donne. Come disse Epifani quando si insediò il governo Berlusconi, siamo in una fase diciannovista. C'è una mutazione autoritaria del nostro Paese.

Greco
Due domande conclusive. La prima riguarda, la proposta di un contratto "unico" unico, avanzata da Tito Boeri che di fatto toglie di mezzo l'articolo 18.

Rinaldini
C'è la proposta di Boeri ma anche quella di Ichino, che mi pare peggiorativa rispetto alla prima. A me pare che le vicende della crisi ci indichino che tutta la legislazione sul lavoro e sul mercato del lavoro vada rivista. E questo perché ormai è chiaro che la questione non è più quella dei picchi produttivi. Il lavoro precario viene usato come polmone e i lavoratori soggetti a ricatto quotidiano. Noi dobbiamo ricondurre tutto al rapporto a tempo indeterminato. La proposta di Boeri, tra l'altro, è aggiuntiva, cioè si somma e non sostituisce le forme di precariato oggi esistenti.

Greco
Per un momento, guardiamo oltre oceano. Obama fa una operazione "roosveltiana" che prevede il rafforzamento del sindacato come funzionale alla ripresa dello sviluppo. In Italia si marcia nella direzione opposta.

Sebastiani
Ancora una cosa. Credo che la fase precedente, quella del '93 sia in continuità con quella attuale. Non è che il sindacato abbia perso del tempo prezioso per rafforzare il vincolo democratico con i lavoratori?

Podda
Obama introduce l'idea del tetto nelle retribuzioni dei manager privati. Bisogna riguadagnare la possibilità di rovesciare la piramide sulla quale siamo stati seduti fino adesso. Per fare questo abbiamo bisogno di grande consenso delle persone in carne ed ossa e di rinsaldare i vincoli democratici. Abbiamo perso del tempo? Se stiamo in queste condizioni non è bene dare sempre tutta la responsabilità agli altri. Ci sarà tempo e modo di discuterne. Statutariamente non siamo molto lontani dal congresso della Cgil. Dovessi provare a spiegare a un lavoratore quale possa essere il modello condiviso in tutta la Cgil avrei qualche difficoltà. Il 13 vorremmo cominciare a dire alcune cose: continuità del rapporto di lavoro, ammortizzatori sociali più ampi e più estesi, e defiscalizzazione del salario nazionale. E poi bisogna che la piantina cresca e duri almeno quanto questa legislatura perché è chiaro che il Governo vuole far fuori la Cgil. Considero sbagliata la ricetta proposta da Boeri, considererei però un errore chiudere la ricerca su quel tema.

Rinaldini
Per quanto riguarda Obama, occorrerà vedere se sarà in grado di cambiare le leggi vigenti sul sindacato. Un passaggio delicato e di grande importanza per capire il segno sociale di quel processo. Sull'altra questione, quella del '93 e la discontinuità. Oggi c'è un elemento da cui non si può prescindere: siamo in una fase in cui si mettte in discussione la Costituzione. Dal punto di vista delle vicende sindacali va considerato che prima del '93 c'è stato il '92 e ancor prima il lodo Scotti, quando è iniziativa la concertazione. Il problema del sindacato e dell'intera sinistra politica è non aver mai affrontato una discussione vera sul processo che veniva avanti, sui caratteri della globalizzazione e sulla ridefinizione degli assetti sociali e del ruolo del sindacato.


Liberazione 11/02/2009

 

Il partigiano e gli studenti: come i bambini di oggi ricordano un eccidio nazista

di Giuseppe Caliceti

su Il Manifesto del 15/02/2009

Il 14 febbraio del 1945 i nazisti trucidarono 20 detenuti del carcere di Parma. È l'eccidio di Ponte Cantone, a Sant'Ilario d'Enza. Nel sessantaquattresimo anniversario a ricordarlo sono gli studenti di una scuola elementare del luogo del massacro. In un incontro con un maestro ex partigiano, Fausto Calestani

Ieri a scuola è venuto il maestro Calestani che è stato un ex partigiano. In questo cerchio vorrei che ognuno di voi dicesse quello che si ricorda dell'incontro, quello che ha capito. Se c'è qualcosa che non ha capito bene può fare delle domande e possiamo provare a rispondergli insieme.
- Io mi ricordo che lui da giovane era un partigiano, ma quando dopo è finita la guerra ha iniziato a fare il maestro elementare. Ho anche capito il suo nome. Fausto. Si chiama Fausto Calestani.
- Adesso lui ha 78 anni, per questo sa tante cose.
- Io mi ricordo che lui tanti anni fa, nel 1945, ha detto che aveva 19 anni.
- Io mi ricordo che lui da giovane è stato una staffetta partigiana.
- Io questa cosa non l'ho capita bene. Noi in palestra facciamo le gare di corsa a staffetta...
- Ma no, lui era una staffetta perché correva anche lui, ma non per vincere una gara, per vincere la guerra. Lui doveva correre per portare delle cose o delle notizie segrete ai suoi amici partigiani. La sua non era proprio una gara.
- Io mi ricordo quando ha detto che se lo scoprivano, dopo, i fascisti, lo uccidevano, ma non l'hanno mai scoperto e infatti adesso è ancora vivo.
- Io mi ricordo quando ha detto che la sua famiglia era tutta di contadini, che loro si trovavano tutte le sere dopocena nella stalla dove c'erano le mucche per parlare. Andavano lì vicino alle mucche perché le mucche col loro fiato facevamo come un termosifone e in inverno la stalla era la stanza più calda di tutta la sua casa.
- Però non parlavano e basta. In stalla i bambini potevano anche giocare, non solo parlare. E le donne mentre parlavano stavano sempre a cucire qualcosa.
- A me è piaciuto quando ci ha raccontato l'avventura del febbraio del 1945, quando i partigiani avevano sabotato i fili del telefono al Cantone di Calerno, qui vicino alla nostra scuola, vicino alla via Emilia. Avete capito cosa vuol dire?
- Vuol dire rompere, distruggere, non far funzionare più.
- Posso continuare? Lui ci ha detto che loro avevano tagliato i fili del telefono per un motivo: perché così a Sant'Ilario non potevano più arrivare notizie dei comandati tedeschi ai fascisti che avevano preso Sant'Ilario. Allora i tedeschi e i fascisti si erano arrabbiati molto perché Calestani e i suoi amici partigiani gli avevano rotto il telefono e avevano fatto una rappresaglia, che poi era come una vendetta. Calestani ci ha detto che i tedeschi uccisero 19 partigiani.
- Ci ha detto che dovevano essere 20 partigiani, perché la legge dei tedeschi diceva che per ogni tedesco morto dovevano morire dieci italiani. Però un partigiano si è salvato perché i tedeschi avevano preso male la mira e lui aveva fatto finta di morire ma non era morto.
- Loro avevano rotto ai tedeschi i fili del telefono e loro non gli avevano rotto un'altra cosa, avevano ucciso 19 uomini. Che schifo!
- Questo perché i tedeschi erano molto cattivi.
- Ma chi aveva fatto entrare in Italia i tedeschi? Perché non stavano a casa loro?
- E' stato Mussolini, il capo dei fascisti.
- Ma se i fascisti erano anche loro italiani perché non stavano con i partigiani che erano anche loro italiani e invece stavano con i tedeschi che erano tedeschi.
- Ah, io questo non lo so.
- Ma perché Hitler e Mussolini si erano messi d'accordo di stare insieme contro tutti.
- Anche contro gli italiani? Anche contro i tedeschi?
- Sì, contro tutti. Perché loro erano dei dittatori. I dittatori sono contro tutti perché vogliono avere sempre ragione loro.
- Mia madre il maestro Calestani lo conosce.
- Anche mio padre se è per questo.
- Io ho visto anche una foto di Mussolini.
- io mi ricordo quando lui era giovane e c'era la guerra e ha detto che c'era molto poco da mangiare e avevi male alla pancia non perché avevi mangiato male, ma perché non avevi mangiato niente e allora la tua pancia aveva fame e ti faceva male. Il pane non era come adesso, ma era nero e anche un po' bagnato.
- Anch'io mi ricordo quello. Ha detto che si mangiavano soprattutto delle patate perché costavano poco.
- Poi c'era il coprifuoco, cioè dalle ore 20 non potevi più uscire di casa ma chiuderti solo dentro casa dentro a chiave.
- Non potevi neppure accendere le luci della casa perché se i nemici le vedono dopo ti sparano e ti uccidono.
- Oppure ti tirano una bomba dall'aereo e sei morto.
Come era la vita a quel tempo?
- I bambini e i ragazzi giocavano a calcio ma non con un pallone vero, ma con una palla fatta di stracci legati tra loro. Quando lui giocava era felice ma aveva sempre un po' paura che c'era un nemico o una bomba perché durante la guerra non sei mai sicuro.
- C'erano già le corriere ma non andavano a benzina, ma a metano.
- No, a gasogeno, che è un misto di legna e metano.
- Cosa è il metano?
- Un gas che costa poco. Mio zio ha l'auto a metano.
- A me la cosa che mi ha colpito di più è stata sempre quella che se moriva un tedesco, loro uccidevano venti italiani. Però non venti fascisti, venti partigiani.
- Io ho capito bene quando ha detto che da bambino era andato alla scuola fascista come tutti i bambini della sua età. E certe volte a scuola c'erano dei controlli fascisti.
- No, c'erano dei controlli a casa sua.
- Quando c'erano questi controlli lui aveva paura.
- Anche io. Perché ha detto che aveva le gambe come pezzi di legno.
- Da Calerno dopo è andato a Neviano, però.
- Io ci sono stato.
- Dov'è?
- E' un paese della montagna di Parma.
- Io ho capito quando ha detto che non erano bravi soldati, erano un po' improvvisati, non sapevano sparare giusto, non avevano mai sparato.
- Loro avevano imparato a usare le armi da soli.
- Io mi ricordo quando lui ha detto che tutti i partigiani avevano dei soprannomi per non farsi riconoscere e il suo era partigiano Mitra.
- Lui però non ha mai ucciso nessuno.
- Mi ricordo quando lui ha detto che non aveva mai ucciso nessuno, ma io non ci credo.
- Perché?
- Perché se hai un mitra e ti vogliono uccidere tu ti fai uccidere o gli spari? Io gli sparo. Se lui è vivo e non è morto è perché gli ha sparato per primo, altrimenti non diventava neanche vecchio, era già morto.
Provate a riassumere meglio la storia dei morti di Ponte Cantone?
- Allora, inizia che una sera il prete di Calerno ha sentito bussare alla porta della chiesa: era un camion tedesco con dei morti e dei feriti. Lui li ha aiutati. Li ha curati.
- Erano stati mitragliati dai partigiani. Allora dopo i tedeschi volevano uccidere della gente di Calerno.
- Perché erano morti due tedeschi, allora la legge dei tedeschi diceva che per ogni morto loro dovevano essere dieci morti partigiani, così 2 x 10 fa venti.
- Però non hanno ucciso delle persone di Calerno.
- Hanno preso venti partigiani che erano rinchiusi nel carcere di Parma e li hanno portati a Calerno, poi li hanno fucilati. Però uno si è salvato.
- Sì, lui si chiamava Tosini.
- Era giovane anche lui, come gli altri. Hanno sparato anche a lui, a una gamba. Lui ha fatto finta di morire però era vivo. Si era salvato.
- E' stato tutta la notte nella neve. Al mattino il nonno di un nostro compagno di classe ha sentito dei lamenti nel campo, si è accorto che era vivo.
- Dopo ha avvertito il prete, l'hanno portato in parrocchia per curarlo. Però dopo sono arrivati i tedeschi.
- Il prete di allora, don Italo, non voleva che lo prendessero. Loro hanno detto che non lo avrebbero ucciso, ma poi l'hanno fatto salire sopra.
- A un certo punto mentre andavano si sono fermati col camion, hanno ucciso anche lui, anche Tosini, hanno buttato il suo corpo nel fiume.
Che effetto vi fa sentire questa storia?
- A me ha sorpreso molto, perché io sapevo che c'era stata la guerra dei fascisti ma non pensavo che c'era stata anche in un paese così piccolo come il nostro, ma solo in quelli grandi.
- Io a Calerno avevo già visto il monumento ai morti di Ponte Cantone ma non sapevo bene la storia. Mi fa piacere che adesso almeno la conosco.
- A me mia mamma un po' me l'aveva detta questa storia, ma adesso la so meglio.
- Io ho capito che i partigiani erano italiani. Loro erano giovani, io non pensavo che erano così giovani, dei ragazzi.
- Io ho capito che loro sono stati fucilati per le loro idee. Per vendetta ma anche per le loro idee, perché i fascisti e i nazisti ammazzavano chi non la pensava come loro.
- Per me è stato bello scoprire una storia del mio paese che non sapevo ancora, anche se non è una storia molto bella perché muoiono tutti.
- Io ho pensato che i nazisti erano cattivi.
- Io ho capito che in tanti sono morti per avere più libertà e anche per avere un mondo migliore come quello che abbiamo noi oggi e un po' mi sono commosso.
- Io avevo visto che lì alla posta c'era un monumento ma prima non sapevo niente, mi ha fatto piacere saperlo.
- Io ho capito che i partigiani non volevano le leggi razziste. Me lo aveva già detto mia nonna.
- Io ho imparato che non bisogna comandare sempre uno o due, ma tutti. Ho imparato che bisogna condividere le cose, non tenerle solo per uno.
- Io quando ho saputo questa storia sono rimasto di stucco perché non mi sarei mai immaginato che era così.
- Io ho pensato che se allora c'ero io, avevo paura. Io non lo so se facevo il partigiano o no. Secondo me quei ragazzi che hanno fatto i partigiani erano molto coraggiosi perché poi molti sono anche morti.
Secondo voi perché è importante ricordare questo fatto?
- Perché ti fa imparare cosa è giusto e cosa è sbagliato.
- Perché è la storia del nostro paese, ci riguarda.
- Perché ormai siamo grandi e dobbiamo sapere tutto, non solo le cose migliori.
- Secondo me è importante ricordare questo fatto perché ci dice come comportarci.
- Se conosci bene le cose del passato, anche quelle brutte, mio nonno dice che dopo è più facile che non succedono più cose brutte.
- Mio padre invece dice che la storia si ripete, è sempre uguale.
- Però adesso non ci sono i fascisti.
- Neanche i partigiani, se è per quello. Ma prima c'erano perché c'erano anche i fascisti, c'erano i nazisti, c'era la guerra. Adesso invece la guerra non c'è più. Almeno qui a Calerno. In altri posti del mondo c'è, ma qui no.
- Secondo me è importante sapere la storia del passato perché così uno oggi impara a essere più prudente.
- Se uno sa questa storia è vero, è più difficile che adesso l'Italia diventa prigioniera di altri popoli, di altre nazioni. Perché quella era la prima volta, ma se cercano di farlo ancora, adesso noi lo sappiamo e non vogliamo.
Cosa vi ha colpito di più di questa storia?
- A me ha colpito molto il prete di Calerno, don Italo, il prete di prima, il prete che c'era durante la guerra. Mi ha colpito perché lui cercava di curare tutti, sia i tedeschi sia i partigiani. Lui non voleva che moriva nessuno, però non c'è riuscito molto.
- A me ha colpito come erano furbi e anche come erano giovani i partigiani, io pensavo che erano molto più vecchi.
- A me ha colpito molto che questa è una storia vera, perché me la ha detto anche mio nonno. Io pensavo che non era vera, invece è una storia vera perché è accaduta veramente. Io non pensavo che a scuola studiavamo anche storie vere.
- Sì, però in prima o in seconda, adesso siamo più grandi e non possiamo studiare solo favole.
- Io prima non facevo mai caso al monumento quando passavo da Ponte Cantone, invece adesso ho capito a cosa serve.
- A me ha stupito che questa cosa dei morti è successa proprio qui. Mentre sentivo, io pensavo: ma perché è successa proprio qui e non da un'altra parte?
- A me hanno colpito i partigiani perché io non so se morivo per la libertà, io credo di no...
- Anche io. Io credo che adesso nessuno vuole più morire.
- Ma anche loro non volevano morire, allora.
- Sì, sì, ma io adesso penso che un ragazzo di venti anni non farebbe mai il partigiano anche se c'è una guerra che scoppia adesso. Perché adesso tu non muori, tu speri di campare.
- Mio padre e mia madre però una volta mi hanno detto che loro, per me, morirebbero.
- Ma loro non sono partigiani.
- Cosa vuol dire? Però loro morirebbero per un altro, per me.... Allora...
- Ma quella è un'altra cosa. Adesso non c'è la guerra.
- Poi io ho sentito che quando c'è il parto una donna può anche morire, magari il figlio nasce e lei però muore...
- Ma cosa c'entra? Io dico solo che una volta erano più coraggiosi.
- Io penso di no, perché se c'era una guerra magari erano coraggiosi anche dei giovani di oggi.
- Sì, erano coraggiosi, però non morivano, non morivano per gli altri.
- Sì, però per i loro figli morivano? Secondo me sì. Perciò il coraggio è sempre uguale.
- Per me no, è di meno. Comunque, adesso non c'è guerra e perciò non deve morire nessuno.


Parliamo di razzismo Cinzia Gubbini e Eleonora Martini :: il manifesto 15/2/2009

«Stop alla politica xenofoba» La società civile contro il governo

di Cinzia Gubbini

su Il Manifesto del 03/02/2009

Le fiaccole dei medici a Montecitorio. I giuristi democratici riuniti alla fondazione Lelio Basso. L'appello delle associazioni cattoliche. Il pacchetto sicurezza (l'ultimo pezzo) oggi approda al Senato e le organizzazioni della società civile sono in fibrillazione. Chi vive ogni giorno a contatto con le persone immigrate - i medici negli ambulatori, le associazioni del terzo settore nelle strade, i magistrati e gli avvocati nelle aule di tribunale - lancia l'allarme senza mezzi termini: il complesso di norme che sta per essere approvato è inutile. Anzi, è dannoso. Non fermerà l'immigrazione irregolare, peggiorerà la situazione di chi vive in clandestinità, e aprirà un vulnus irreparabile che prima o poi coinvolgerà anche gli italiani che vivono in situazioni giusto un po' più svantaggiate della media. Se per l'associazione Sant'Egidio «durante le crisi economiche c'è sempre qualcuno con cui prendersela. Nel '29, ad esempio, ci fu una recrudescenza dell'antisemitismo e tutti sappiamo cosa è successo dopo» (il direttore Marco Impagliazzo), per il presidente dell' Agenzia per i diritti umani della Unione europea, Stefano Rodotà, intervenuto all'incontro organizzato da Magistratura Democratica, le misure in discussione «sono il sintomo della decomposizione della cultura politica» di questo paese. Che ristabilisce un principio antico e pericoloso: «La cittadinanza come dispositivo di esclusione». Ed è ancora Rodotà a dirsi «pessimista» circa la possibilità di fermare il ddl, ma non rinuncia all'ultima possibilità di trovare delle convergenze in un parlamento che pare macinare insensatezze senza troppo rumore: «Spero che il senatore Pisanu faccia valere nel dibattito la sua lucidità e la sua riconosciuta autorità per evitare l'approvazione di norme che violano diritti fondamentali e la stessa dignità della persona . È inammissibile che, in un paese democratico, vengano negati agli irregolari diritti fondamentali come quello alla salute e a contrarre matrimonio». Il riferimento è all'intervista dell'ex ministro dell'Interno al Corsera, in cui Pisanu attacca la Lega e boccia «misure volte a tranquillizzare l'opinione pubblica e a giustificare slogan elettorali»
Ieri è stato il giorno delle parole ferme, dei no senza appello: «Saremo sulle barricate contro una norma incivile», promette la deputata del Pd Livia Turco che nel pomeriggio si è unita alle fiaccole di fronte Montecitorio organizzate da Medici Senza Frontiere. Qui si discute innanzitutto della norma che chiede ai medici di denunciare un irregolare che si presenti per essere curato: «Si tratta di una misura ingiusta e dannosa: non si combatte così l'immigrazione clandestina, è invece così che aumenterà l'emarginazione sanitaria», dichiara Antonio Virgilio, responsabile dei progetti italiani per Msf. Ci sono circa duecento candele accese, molte le persone che indossano le magliette con su stampato il giuramento di Ippocrate: «Non possiamo venire meno al nostro giuramento - dice il medico palestinese Foad Aodi, presidente dell'Associazione dei medici stranieri - che ci impone di assicurare cura a chi ne ha bisogno. Le conseguenze di questa norma saranno gravissime, e già sono in atto: registriamo un calo degli stranieri che si rivolgono ai presidi medici per paura di essere segnalati».
Ma che fare se il ddl verrà approvato? Alla fondazione Lelio Basso i giuristi annunciano che non si arrenderanno: ricorreranno al diritto italiano e internazionale, si rivolgeranno alla corte costituzionale. I punti messi a fuoco sono moltissimi, tutti raccolti in un documento che condanna sia l'ulteriore «torsione delle garanzie costituzionali» ai danni degli irregolari, sia «l'abbandono della logica binaria a favore dell'immigrazione regolare»: «Sul piano dei diritti civili assistiamo alla chiusura di ogni varco, l'immigrato in quanto tale è sottoposto a una prova perpetua», osserva il professor Paolo Morozzo della Rocca. In una parola: l'unica ratio del pacchetto sicurezza sembra essere l'esclusione. I cui risvolti forse non sono stati accuratamente considerati: «Cosa significa che occorrerà il permesso di soggiorno per accedere agli atti civili? - chiede Salvatore Fachile dell'Asgi - che un irregolare non potrà riconoscere suo figlio?». E sul che fare è ancora Fachile a suggerire «l'intervento di chi deve garantire la Costituzione»: il Presidente della Repubblica che può rifiutarsi di firmare questa legge.

 

Il Partito Democratico lascia sola la Cgil

di Dino Greco

su Liberazione del 22/01/2009

Veltroni si schiera e va all'attacco del lavoro. Su tutto il fronte. La lunga intervista concessa ieri al Sole 24 Ore , malgrado qualche passaggio criptico, non lascia margini d'equivoco. La latitudine dell'intervento è vastissima. Innanzitutto le pensioni, tema sensibile su cui da oltre tre lustri si sforbicia a oltranza. La disponibilità dichiarata è quella ad un «adeguamento dei coefficienti che darebbe un po' di respiro ai conti pubblici». In soldoni, ciò vuol dire che per destinare qualche risorsa all'estensione degli ammortizzatori sociali per la platea che ne è ancora priva bisogna decurtare il valore delle pensioni. Ancora una volta la tesi è che l'operazione si deve fare "a costo zero", spalmando quel che c'è, togliendo da una parte ciò che si mette dall'altra: tutto rigorosamente dentro il perimetro del lavoro. Poi Veltroni si allarga, e in una esternazione dall'afflato formalmente unitario chiede al sindacato di superare vecchie incrostazioni ideologiche e riprendere il cammino unitario. Ma l'appello, con tutta evidenza, non è neutro. E' sulla Cgil che si fa pressione. Dopo una sequenza impressionante di accordi separati (commercio, lavoratori pubblici, scuola, Telecom, ecc.) ed altri in gestazione (sul testo unico in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro e in alcuni grandi gruppi industriali), Cisl e Uil si apprestano ora a sottoscrivere con le associazioni imprenditoriali - complice il governo - un accordo generale sul modello contrattuale. Veltroni non può non saperlo. Ma proprio mentre Guglielmo Epifani spiega le robuste ragioni che impediscono alla Cgil di unirsi al coro, egli rivolge alla Cgil l'invito a piegarsi al diktat confindustriale. Che, come è noto, delinea e formalizza un modello negoziale imperniato sulla progressiva eutanasia del contratto nazionale, sulla riduzione programmata dei salari, su una contrattazione integrativa limitata ad un'area ristretta di lavoratori e di lavoratrici, subordinata ad un aumento della fatica, delle ore lavorate e legata alle performance dei bilanci aziendali. Veltroni non può non vedere che quell'intesa incide nella carne viva delle relazioni industriali, muta il carattere stesso del sindacato, ne compromette l'autonomia, prefigura un sindacato consociativo che sostituisce la contrattazione con una rete di commissioni bilaterali. Ma è esattamente questo sindacato, aconflittuale, collaborativo, sterilizzato della sua identità progettuale, ad inscriversi perfettamente nella cosiddetta cultura "riformista".
Fa una certa impressione osservare come l'ostentato obamismo, condito in salsa veltroniana, al dunque si traduca in un plateale ripiegamento sulle posizioni della Confindustria e del governo che dell'attacco ai diritti del lavoro hanno fatto il focus del proprio condiviso disegno strategico. Né si capisce come la cecità si possa spingere sino al punto di ignorare che dall'impoverimento salariale, da un ulteriore freno ad una più giusta redistribuzione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale, vengono guai, guai seri, per tutta l'economia e per la coesione dei rapporti sociali. Poi, la chicca finale. Veltroni mette il marchio del Pd sulla riforma del rapporto di lavoro modello Tito Boeri e Pietro Ichino: un contratto «tendenzialmente» a tempo indeterminato per tutti, ma con tutele dai licenziamenti illegittimi che si guadagnano solo strada facendo, nel tempo. Ci risiamo: è di nuovo l'attacco all'articolo 18, è la riedizione del sogno confindustriale di disporre di uno zoccolo di lavoratori da poter licenziare senza giusta causa. E', di nuovo, l'idea malsana che per estendere i diritti a chi ne è privo sia necessario toglierli a qualcun altro. Sotto traccia, ma neppure tanto, vive la convinzione che i giovani debbano passare attraverso le forche caudine di una selezione delle imprese. Le quali, solo dopo, confermeranno a propria discrezione il posto a chi avrà garantito fedeltà. O complicità, come piace dire al ministro Sacconi. «Patto fra produttori» lo ha definito Veltroni: bizzarra idea della reciproca convenienza.

 Intervista di VELTRONI_al Sole24Ore.pdf (282,6 kB)

 

I cattivi modelli

di Alessandro Portelli

su Il Manifesto del 03/02/2009

Per fortuna, neanche stavolta c'entra il razzismo. Un poliziotto ammazza a fucilate il vicino senegalese a Civitavecchia: è una banale lite di condominio. Tre ragazzi bruciano vivo un senza casa indiano a Nettuno: è una ragazzata, magari quasi omicida, ma si sa, i ragazzi si annoiano e tutti siamo in cerca di emozioni. E davvero, sono quasi tentato di crederci: il razzismo c'entra, ma non è un ingrediente isolabile, un'ideologia motivante; è piuttosto una componente ormai intrinseca e indistinguibile di un senso comune di violenza e sopraffazione che se non è diventato egemonico, poco ci manca.
Coltellate, fucilate, violenze sessuali fanno tutte parte di un'unica grammatica dell'annientamento e dell'umiliazione dell'altro (anche la violenza sessuale è una forma di assassinio, in cui nonostante le strizzate d'occhio del nostro presidente del consiglio il desiderio sessuale non c'entra per niente). E questo senso comune è condiviso tanto dai cinque romeni stupratori di Guidonia o dai tre marocchini che avrebbero violentato una donna (romena) a Vittoria in Sicilia, quanto dall'italiano stupratore di una cilena, dai ragazzetti di Campo de' Fiori accoltellatori di un americano, dal bravo ragazzo violentatore di Capodanno a Roma. E da tanti episodi meno sanguinosi ma diffusi nelle famiglie, nelle strade, negli stadi, nelle scuole, nelle caserme...
La sola differenza - e qui il razzismo c'entra espressamente - è la strategia di depistaggio messa in modo da politici e media. Quando, sempre a Guidonia, nel 2006, fu una donna romena a essere violentata per ore da un italiano la notizia non riempì le prime pagine ma si esaurì in due righe in fondo a un comunicato Ansa e a un trafiletto del Corriere della Sera. Non ci furono ronde di patrioti indignati nei bar e nelle carceri, circondate da simpatia e complicità della brava gente circostante. Perciò far credere che la violenza sia un portato dell'immigrazione, è un modo per parlare d'altri e non di noi - a cominciare dall'altra cosa che tutti questi episodi hanno in comune: il genere maschile degli aggressori e la debolezza delle vittime.
Molti anni fa, il sociologo David Riesman diceva che nella società di massa la fiaba di Pollicino ammazza-giganti si sarebbe trasformata nella fiaba di Pollicino ammazza-nani. Infatti adesso siamo tutti dalla parte di Golia: anche le guerre, dall'Iraq a Gaza, esibiscono e addirittura vantano la sproporzione tra i deboli e i forti.
Essere o sembrare deboli, nella modernità della competizione, della deregolazione, dell'individualismo e del mercato elevati a religione, è una colpa in sé. È una colpa essere donna, è una colpa essere senza casa, è una colpa essere nero. E forse la colpa peggiore di tutte queste minacciose debolezze sta nel fatto che mettono a nudo la debolezza profonda dei «forti», la precarietà del loro diritto, la tranquillità del loro dominio. I potenti non riescono a vincere davvero le guerre, i violenti non fanno che mettere in scena la loro paura, i razzisti non riescono a sentirsi superiori alle loro vittime, la finanza globale va in rovina e porta rovina con sé. La rabbia frustrata di chi si crede forte e si accorge di non esserlo più produce violenza.
Fermarla, o almeno porvi un limite, è un lavoro di profondità e di lungo periodo, una costruzione di socialità nuova, di rapporti civili fa le persone, di politica coraggiosa e anticonformista. Altro che «essere cattivi» con i «clandestini» - cioè, essere come quelli che li bruciano vivi - come vaneggia nella sua frustrazione il povero Maroni. Non la fermeranno certo i poliziotti per le strade, i vigili urbani con la pistola e la licenza di sparare: anzi, saranno un'ulteriore modello di ruolo per i futuri aggressori, un'altra esibizione di forza impotente, e un altro esempio di quella politica bipartitica - quella sì, «cattiva» politica - che alimenta queste paure e se ne nutre.

 

Crisi, il taglio dei posti è l'unica politica delle aziende

di Fabrizio Salvatori

su Liberazione del 17/02/2009

Le aziende internazionali per affrontare la crisi tagliano i posti di lavoro. A dirlo è uno studio condotto lo scorso gennaio da Ernst & Young, dal titolo "Opportunity in Adversity", che ha coinvolto 350 aziende mondiali. Oltre l'80% delle aziende mondiali ha approntato analisi per favorire i risparmi, e due terzi di queste hanno avviato un programma di riduzione del personale e circa la metà ha scelto di razionalizzare la spesa per information technology (it). Le imprese europee sono più inclini rispetto a quelle Usa a tagliare i costi per immobili e it, piuttosto che quelle inerenti al personale.
Quasi il 40% delle imprese intervistate ha affermato di aver assistito a un peggioramento del proprio mercato di riferimento e oltre un terzo ha osservato uscite dal mercato da parte dei concorrenti e un aumento dei fallimenti. Il credit crunch, è emerso sempre dalla ricerca che in Italia, Spagna e Portogallo è stata coordinata da Donato Iacovone, ha obbligato il mondo imprenditoriale a cercare alternative per aumentare la liquidità. Circa la metà di tutte le aziende ha disposto o ha già provveduto alla chiusura di alcune aree di business, il 43% sta valutando supporti finanziari alternativi a breve termine, il 23% sta pensando di rinegoziare gli accordi di finanziamento comunicando in maniera pro-attiva con i creditori, gli analisti e le agenzie di rating. Solo un quarto ha dichiarato che la disponibilità di liquidi non costituisce un problema. Sempre dallo studio è emerso che oltre la metà delle aziende (per l'esattezza in Europa circa il 60%) ha rilevato un peggioramento nell'affidabilità creditizia da parte della clientela e oltre il 50% ha riscontrato alcuni clienti chiave in difficoltà. Sul fronte dei fornitori, invece, gli intervistati si sono equamente divisi in base a due strategie molto diverse: da un lato quelli che hanno ridotto la base dei fornitori, dall'altra quelli che li hanno estesi. Per correre ai ripari le aziende intervistate hanno dichiarato che nei prossimi 12 mesi vedono la necessità di proteggere gli asset, migliorare la performance e ristrutturare il proprio business. Per il 58% degli intervistati i risparmi più significativi saranno prodotti da operazioni di "supply chain", per il 42% dalle aree di vendita e marketing, per il 56% dalle operations e per il 42% dalle funzioni it. Il 40% dell'intero campione (53% in Europa), sempre per incrementare i costi, sta valutando la vendita di divisioni aziendali non strategiche e non performanti.
Notizie di tagli arrivano un po' da tutte le parti del mondo, l'ultima riguarda la compagnia aerea Singapore Airlines (Sia) che ha annunciato che quest'anno taglierà il 17% della propria flotta a causa del rallentamento economico che ha fatto crollare il traffico passeggeri e cargo. Il vettore ritirerà in sostanza 17 velivoli nel corso dell'anno fiscale che si chiuderà nel marzo 2010, mentre inizialmente aveva previsto di tagliarne solo quattro.
Intanto, il "diario della crisi" oggi segnala che l'economia britannica quest'anno si contrarrà a un ritmo doppio rispetto a quanto stimato in precedenza. Ad annunciarlo è la Confederation of British Industry, secondo cui quest'anno il Pil registrerà un calo del 3,3%, contro il -1,7% ipotizzato solo a novembre.«Il mondo - ha affermato il direttore generale della Cbi, Richard Lambert, è cambiato drammaticamente. Di fronte a una crisi globale della fiducia, a un rapido calo della domanda e alla stretta del credito, le aziende britanniche sono state costrette a ridurre gli investimenti e a tagliare posti di lavoro».
Proprio nell'unico impianto che fabbrica la Mini (gruppo Bmw), quello di Cowley, nei pressi di Oxford, verrà ridotto del 19% l'organico eliminando 850 posti. Ad annunciarlo è la capogrupppo Bmw, spiegando che «anche se Mini ha resistito alla crisi economica, non è immune dalle sfide dell'attuale situazione». Il sito, che l'anno scorso ha prodotto 235mila unità, sarà adesso operativo per cinque giorni alla settimana invece che sette.
Peggio della Gran Bretagna sta sicuramente il Giappone, che ieri ha segnato un vero e proprio tonfo del Pil, come non accadeva da 35 anni: il prodotto interno lordo del quarto trimestre 2008 ha avuto un tracollo annuo del 12,7% e uno congiunturale del 3,3%, un ritmo più pesante si è avuto soltanto a gennaio-marzo del 1974, quando per la prima crisi petrolifera si ebbero tonfi rispettivamente del 13,1% e del 3,4%.

 

Crolla il pil, su i bicchieri Pio D'Emilia :: il manifesto 17/2/2009

 

«E' più efficace tassare i capitali investiti»

di Fabio Sebastiani

su Liberazione del 17/02/2009

Intervista ad Alessandro Santoro, Ricercatore Bicocca di Milano

Cosa ne pensi della proposta della Cgil di aumentare l'aliquota fiscale per i redditi superiori ai 150mila euro?

Dico sinceramente che ne capisco e ne condivido il senso. Però mi sembra un po' datata come proposta perché parte da un presupposto che non è più così vero come lo era in passato, ed è che la ricchezza si possa valutare e intercettare andando a guardare i flussi dei redditi. Non credo che ciò oggi rappresenti una certezza matematica, anzi. Probabilmente quello di cui abbiamo bisogno è rovesciare un po questo paradigma. E' una visione semplicistica quella che individua le fasce di ricchezza sopra i 150mila-200mila euro. Non perché non siano ricchi, sia chiaro, ma bisogna considerare che ormai sono una parte minimale dei ricchi.

Cioè?

Cioè vuol dire che una parte minimale della loro ricchezza transita nella dichiarazione dei redditi. Pur condividendone lo spirito bisognerebbe pensare a qualcosa di più strutturale, da un lato, e più radicale dall'altro. Bisognerebbe pensare a una tassazione dei capitali, degli stock e non dei flussi di reddito. Occorre reintrodurre forme di tassazione dei capitali, dei patrimoni, degli asset, delle ricchezze investite anche al di là della capacità di produrre reddito. Bisogna tornare in quella direzione anche perché nel frattempo lo scenario è cambiato.

Unas sorta di Tobin tax?

La Tobin tax è una tassa sui cambi di valuta, che è ancora un'altra tipologia di intervento.

Quale è la tua proposta?

Proviamo a ripensare a forme di tassazione dei capitali, per esempio. Anziché discettare continuamente di questa questione anche un po' speciosa delle rendite finanziare, perché non proviamo a pensare a una tassazione sul capitale investito e non sul reddito prodotto? Questo darebbe un grossso vantaggio allo Stato, quello di avere un gettito garantito che prescinde dal mercato borsistico. Per tornare alla proposta della Cgil, anche considerato il rapporto tra costo politico e rendimento effettivo si può pensare a qualcosa di un po' più adatto al mutato panorama nel quale molti redditi non sono intercettabili, non passano tra le dichiarazioni.

C'è qualche calcolo che ci faccia capire che tipo di gettito può dare una tassazione organizzata in questo modo?

Il gettito dipende dall'aliquota. Lo stock di ricchezza complessiva mobiliare e immobiliare in Italia è circa sei volte il Pil. Questo vuol dire che con un'aliquota dell'1 per mille potrebbe derivare un reddito di nove-dieci miliardi di euro. E' chiaro che con questa impostazione poi vanno tolte le tasse sul reddito. L'ipotesi Cgil non è fortissima nei risultati, al massimo poterà un miliardo di euro.

E' dagli anni ottanta che è stata introdotta una disciplina fiscale fatta sostanzialmente di tagli alle aliquote più alte. Che tipo di bilancio se ne può trarre?

Il trend negli ultimi quindici anni è stato il taglio delle aliquote fiscali. Escluso un caso in Gran Bretagna, che poi ha ispirato la proposta della Cgil. In realtà gli esperimenti tentati di riduzione delle imposte hanno dato esiti incerti. Ancora oggi è difficile capire quale impatto abbiano avuto. La vera scoperta di questi ultimi anni è che i presupposti su cui si basava quel tipo di ragionamento, ovvero che bisognasse tagliare la tassazione dei redditi alti, in realtà si è scoperto che sono falsi. Sono i contribuenti più poveri che reagiscono di più alla tassazione. Quindi in un certo senso il ragionamento va rovesciato. Se vogliamo un sistema impositivo più efficiente dobbiamo tagliare i redditi medio-bassi. Poi, in realtà bisogna dire che nei redditi medio-bassi troviamo i redditi dichiarati tali.

A livello di lotta all'evasione ci sono dei segnali di controtendenza?

A livello internazionale mi sembra che qulcosa si stia muovendo soprattuto sul fronte della lotta ai paradisi fiscali. In Gran Bretagna, e forse di più in Francia, c'è un movimento di opinione pubblica che, sulla base del coinvolgimento delle banche nella crisi finanziaria legata ai mutui subprime e tutto quel che ne è derivato, è riuscito a premere sui governi. Ci sono novità sul superamento del segreto bancario, per esempio, a livello comunitario. A livello domestico invece non mi aspetto niente di nuovo. In Italia l'evasione è una sorta di ammortizzatore sociale e non credo che il governo vorrà metterci mano. Stiamo parlando di una evasione che tende a fornire livelli di sussistenze alle piccolissime aziende a conduzione famigliare.

UNITI CONTRO CHI SEPARA

Lo sciopero della FIOM e della FP CGIL è un successo. I lavoratori e le lavoratrici dimostrano che l'unità è possibile, soprattutto contro i contratti separati e i sindacati che li approvano

https://esserecomunisti.it/dati/ContentManager/images/Lavoro%20e%20economia/cgilrifoarc.jpg

 

 

Democrazia al lavoro

di Dino Greco

su Liberazione del 14/02/2009

Quello che speravamo e che era sommamente necessario per scuotere l'inquietante atmosfera in cui imputridisce la politica italiana è infine accaduto. Il lavoro, non nella sua astratta espressione sociologica, ma con i volti di donne e uomini "in carne ed ossa" ha fatto sentire la propria voce. Talmente forte e chiara da rendere risibile l'ennesima, stucchevole querelle sul numero dei partecipanti. Il fatto incontrovertibile è che per le vie di Roma è scorso un fiume in piena: lavoratrici e lavoratori sono scesi in sciopero nel bel mezzo di una crisi devastante che mette in gioco i loro posti di lavoro, la loro vita, il loro futuro, disposti a farsi carico di un'ulteriore decurtazione salariale per render chiaro a tutto il Paese, ad un governo imbelle e protervo, ad una tracotante Confindustria, che non sarà facile scaricare sui più deboli i costi del disastro economico. E che quanti hanno stipulato l'accordo separato che li deruba di salario, diritti, democrazia troveranno pane per i loro denti. Merito di Fiom e Fp quello di avere compreso la natura e la profondità di questo attacco. Rivolto, sì, in primo luogo, contro le persone che lavorano, ma luciferinamente organizzato anche per colpire quella parte del sindacato che non intende rinunziare ad un'autonoma rappresentanza del lavoro, che non si piega ad un ruolo servile nei confronti dell'impresa. La storia patria, da quella più antica a quella più recente, come quella continentale e d'oltre oceano, ci rende avvertiti che ogniqualvolta il sindacato è stato sconfitto (i controllori di volo nell'America di Ronald Reagan, i minatori di Arthur Scargill nell'Inghilterra di Margaret Thatcher) è l'insieme dei rapporti sociali che ne è uscito sconquassato, generando povertà, solitudine, disuguaglianza. E una drammatica implosione della democrazia. Oggi, siamo noi a vivere su questo crinale. Reso ancor più ripido dal più organico tentativo mai messo in atto, da sessant'anni a questa parte, di archiviare la Costituzione Repubblicana. Siamo cioè di fronte ad una riedizione di quella che lo storico Giovanni De Luna ha definito come «la latente tentazione antidemocratica della borghesia italiana», che oggi si sposa al sovversivismo clerico-fascista di una classe politica dirigente ignorante, corrotta e aggressiva. Credo che tutto questo abbiano capito - con quell'immediato istinto politico di cui tante volte hanno dato prova - le proletarie, i proletari che ieri sono così in tanti convenuti a Roma. Essi hanno avvertito il pericolo mortale, il bisogno di reagire direttamente, subito, in proprio, senza deleghe. Viene da lì un messaggio che è politico e morale insieme: provare ad ostruire una strada e ad indicarne un'altra, con una intelligenza dei fatti ed una determinazione che altrove latitano. Allora servono due cose: la continuità della lotta sociale, battendo colpo dopo colpo, ancora e poi ancora, finché il ferro è caldo. Ed un ruolo politico della sinistra, a partire dal Prc, sempre più necessario di fronte allo sconfortante cerchiobottismo del Pd.

 

Una giornata particolare

di Loris Campetti

su Il Manifesto del 14/02/2009

Un operaio metalmeccanico che decide di scioperare, in piena crisi, paga un prezzo esorbitante. Non perde soltanto una giornata di salario: se l'azienda in cui lavora è in cassa integrazione - il beneamato ammortizzatore sociale che si mangia il 40% dello stipendio - consegna alla lotta anche un pezzo di tredicesima e di ferie. Un impiegato pubblico che sciopera, dopo un contratto separato siglato da Cisl e Uil e il taglio dello stipendio deciso dall'immarcescibile ministro Brunetta, fa una scelta quasi eroica. E se la tuta blu e il colletto bianco partono uno dal Sulcis in pullman, poi in nave e ancora in treno e l'altro viaggia per ore e ore da Aosta per venire a manifestare a Roma, vuol dire che non pensano solo al loro salario. Non pensano esclusivamente ai diritti di chi vive di sola busta paga con cui paga le tasse anche di chi vive del suo lavoro, o agli accordi separati e al contratto nazionale. Pensano all'intera collettività, a un paese che un governo autoritario e quasi golpista sta impoverendo e rendendo più ingiusto, un paese aggredito nella sua costituzione materiale e in quella formale. Pensano ai loro ex compagni di lavoro, giovani precari e migranti rimandati a casa per primi perché non hanno diritti. Pensano all'edile romeno, arruolato al nero da un caporale, che è precipitato da un'impalcatura ma non può andare in ospedale a farsi curare perché rischierebbe di essere denunciato ed espulso con il marchio di clandestino. Pensano persino a Beppino Englaro e alle migliaia di uomini e donne, corpi e cervelli sequestrati dai padroni di uno stato che si pretende onnipotente («volete far vivere i morti e far morire i vivi»). Una volta, con un po' di retorica, si parlava dei lavoratori come classe generale, quelli che liberando se stessi dall'oppressione del capitale avrebbero liberato tutti. Ripartiamo da dov'eramo rimasti: lo sciopero e la manifestazione di ieri, organizzati con coraggio dagli operai metalmeccanici della Fiom e dalla Funzione pubblica Cgil, sono gesti di grande generosità e, al tempo stesso, sono il primo atto d'opposizione di massa al peggior governo d'Europa, un governo che prima nasconde la crisi, poi la sottovaluta, quindi la usa per ridisegnare i rapporti di potere e redistribuire la ricchezza, taglieggiando i salari per ingrassare i profitti e le rendite. Ieri a Roma erano diverse centinaia dimigliaia le tute blu e i colletti bianchi che hanno compiuto questo gesto di generosità per difendere i diritti sociali, civili, di cittadinanza di tutti noi. Una speranza, una scommessa, un atto d'orgoglio hanno messo le gambe alla parte migliore del paese che ha attraversato Roma lungo tre direttrici, dalla Tiburtina, dall'Ostiense e dall'Esedra per convergere su piazza San Giovanni. Molte più persone di quante la piazza storica delle manifestazioni nazionali potesse accoglierne. C'erano tutte le facce del lavoro a Roma, uomini e donne con cittadinanza italiana, con visti di soggiorno osenza niente, con contratti di ogni tipo, colore e tutela, o senza alcun contratto. C'erano i sik di Reggio Emilia con il turbante il testa e la bandiera della Fiom in mano, qualche cordone più in là ecco i vigili di Bari e i dipendenti delle Finanze di Pistoia, le vittimee i parenti delle vittime e il popolo inquinato dalla diossina e dall'amianto dell'Italsider di Taranto o dei cantieri navali diMonfalcone. C'erano tanti cassintegrati delle famiglie bene del capitalismo italiano: Agnelli (dagli stabilimenti Fiat di tutta la penisola e della Sicilia), Marcegaglia (nelle cui fabbriche si continua amorire di lavoro), Merloni (i vari fratelli elettrodomestici uniti nei licenziamenti), Montezemolo (leggi Ferrari oppure Maserati, dove si espellonoi precari e si licenziano i delegati e i militanti Fiom che sostengono la lotta dei loro compagni meno «garantiti). C'erano le tante persone che si occupano di garantirci i beni comuni e quelli il cui lavoro è finalizzato alla cura di tutti noi, c'era anche chi ci fa lemulte e chi ci fa le lastre all'ospedale. Uguali e diversi, direbbe Moretti. I piemontesi, quelli che lavorano alla linea di montaggio gomito a gomito con quelli che prestano servizio nella corsia di un ospedale, scendonodalla stazione Ostiense verso la Piramide Cestia dietro uno striscione unitario con i simboli dei due sindacati promotori. Lo striscione dice ai romani che c'è chi cerca di dividere - i padroni e il governo - e chi unisce - la Fiom e la Funzione pubblica. E dire che una volta l'operaio alla linea dimontaggio e quello al pronto soccorso, o al catasto, si guardavano quasi in cagnesco. E' avvenuto un quasi miracolo. «Fannullone sarà lei», scrivono a Brunetta. Fanno tenerezza e danno speranza i due operai della Bonfiglioli di Bologna che alzano con rabbia e orgoglio le bandiere della Fim- Cisl. A chi si congratula con loro per il coraggio con cui hanno rotto una disciplina talmente ferrea da far pensare al sindacato bulgaro nel 1960 più che al sindacato cattolico italiano del 2009, rispondono «è undovere e una scelta essere qui». All'esagitato che grida «buttate quella bandiera», invece, fanno notare: «siamo qui a lottare con voi, che vai cercando?». Per tutti suona la banda Bassamusica di Bari Carbonara. Uffici e officine, operai e impiegati: sono loro stessi un bene comune. Producono ricchezza per tutti, crisi permettendo, e pagano per tutti. Producono servizi e cioè maggiore ricchezza. Sono i lavoratori, quelli che per decreto di Bonanni e Angelettinonpossono neanche dire la loro con un voto su un accordo separato che distrugge il sistema contrattuale italiano. Quelli chequando protestano vengono manganellati e denunciati dalla polizia, com'è capitato agli operai dell'Alfa di Pomigliano che rischiano il lavoro «in una regione in cui il lavoro è merce rara», o a quelli di Innse di Milano. Riescono persino a occuparsi dell'ambiente i dipendenti della Fiat: vorrebbero fondi per la ricerca per liberare l'automobile dal petrolio, non regalie a pioggia con la rottamazione. Non si accontentano di sopravvivere alla crisi, vogliono tentare di costruire un mondo post-crisi un po' più vivibile per tutti, meno puzzolente, meno disoccupato, meno ingiusto. Gli ospedalieri, dal canto loro, vorrebbero fare gli infermieri e i medici per curare imigrantimalati, certo non i delatori per farli espellere da un governo razzista, «come dice Famiglia cristiana». Sono tutti molto, ma molto incazzati, non sono rassegnati né minoritari, anche se Cisl e Uil li hanno abbandonati per salire sul carro del vincitore, anche se la sinistra non c'è più, intendendo per sinistra una forza politica parlamentare solidale con il mondo del lavoro, dunque di parte, senza «ma anche». Ci sono frammenti di sinistra, qua e là si incontrano in corteo o sul palco,ma hannoaltro a cui pensare: le elezioni europee. A un importante dirigente del Pd che guarda dal palco una piazza san Giovanni stracolma, rossa ed esperta, chiedo in amicizia e non da cronista: «Cosa pensa di tutto questo il tuo partito?». La risposta, in amicizia, è agghiacciante: «Dipende dacomeandranno le elezioni sarde. I sondaggi sonoincoraggianti. Soru ha rimontato 10 punti». Nonostante lui e nonostante tutti gli assenti, ieri i lavoratori pubblici e imetalmeccanici scesi in campo per difendere salari e diritti, democrazia e Costituzione. Hanno battuto un colpo. Speriamo che non siano diventati tutti sordi.

 

«La solidarietà fa bene al lavoro e alla lotta»

di Fabio Sebastiani

su Liberazione del 14/02/2009

La guerra feroce su cifre delle adesioni allo sciopero e presenze in piazza, la sfilata dei vip all'interno del cordone di sicurezza, lo sciamare dei fotografi ad ogni stretta di mano tra politici e sindacalisti. Il copione della grande manifestazione sindacale di ieri a Roma si è ripetuto puntualmente. Tutto, meno la lotta, nuova di zecca, di metalmeccanici e dipendenti pubblici, insieme, su democrazia, salari e stabilità del posto di lavoro. Una alleanza che il segretario della Fim-Cisl Farina definisce bizzarramente «improbabile» perché, dice, «i pubblici, per loro fortuna, non rischiano il posto di lavoro». Tutti, meno i 200mila precari che nel giro di due anni saranno buttati fuori, ovviamente.
Basta ascoltare i pochi interventi "di spalla" ai tre segretari generali di Fiom, Funzione pubblica e Cgil nazionale per rendersi conto dei frutti di questa nuova solidarietà. Interventi accorati e densi da cui esce un quadro drammatico delle condizioni in cui versa il Paese. «Peggiorano il presente e ipotecano il futuro», dice una studentessa universitaria che praticamente apre il comizio in una piazza San Giovanni che proprio in quel momento sta arrivando al massimo della capienza con i tre cortei che confluiscono da piazza della Repubblica, stazione Tiburtina e piazzale dei Partigiani. Marta parla della durezza della precarietà, della paura della crisi, e dell'impossibilità di avere un luogo in cui poter rappresentare questo disagio. E' un discorso appassionato su un "paese inesigibile", che termina con una promessa: «Se l'autunno è stato caldo, la primavera sarà torrida». Dopo di lei interviene Samantha, un'assistente socio-sanitaria che lavora in una cooperativa. Parla di una retribuzione di 800 euro a fronte di un lavoro che «senza amore non puoi fare». Sul palco va in onda anche la rabbia dei lavoratori di Pomigliano, una vita perimetrata dalle false promesse della Fiat, le botte "a freddo" della polizia e la cassa integrazione. Khadigia urla la sua adesione alla Costituzione italiana. «Basta leggerla per rendersi conto che noi lavoratori abbiamo il diritto a un sindacato vero e non a un ente bilaterale», dice. Rosalba fa l'infermiera a Parma. Dal palco dichiara la sua obiezione di coscienza alla denuncia "sanitaria" dei migranti.
«A noi piace la sobrietà» in questo momento «e ci accontentiamo di essere oltre 700mila», dice il segretario nazionale della Funzione pubblica della Cgil, Carlo Podda accendendo la piazza. Ma il punto non sono le cifre, oggi. Il Dipartimento della Funzione pubblica in serata comunicherà addirittura che l'adesione allo sciopero è stata del 7%, mentre Confindustria parletà del 14%. La questura ferma il suo conteggio a cinquantamila. Il punto è dove guarda questa massa di gente che ha deciso finalmente di battersi contro la precarietà e reclama di poter votare sui contratti di lavoro. Insomma, lavoratori e lavoratrici che non ci stanno a pagare questa crisi.
«Avevamo chiesto di non lasciare soli i lavoratori, di guardare ad anziani e pensionati, di programmare una politica industriale, ammortizzatori sociali per tutti, di sanare la precarietà nel pubblico impiego e un fisco amico dei lavoratori dipendenti, gli unici a pagare più tasse nonostante il loro reddito si riduca. Ma dal governo non è arrivata una idea sul come gestire la crisi. È arrivato invece l'accordo separato sul contratto», spiega Guglielmo Epifani nel corso dell'intervento di chiusura. Epifani incassa il potenziamento delle risorse per gli ammortizzatori sociali ma non manca di far notare il grosso ritardo accumulato. «Quanto abbiamo dovuto aspettare, quante lotte abbiamo dovuto fare per arrivare a questo?», dice sollecitando ora l'esigibilità immediata dell'accordo perchè «il fattore tempo è decisivo». La lotta, però, proseguirà. «Sono convinto che sciopero dopo sciopero riusciremo a far cambiare la politica economica al governo», dice il leader Guglielmo Epifani ai cronisti che lo attendono sul palco alla fine dell'iniziativa.
Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom, usa parole piuttosto dure nei confronti della crisi e dei rischi per l'assetto sociale del paese, a cominciare dalla cultura dell'odio che sembra affermarsi. «C'è ormai una cultura dell'odio e dell'intolleranza - ha scandito Rinaldini - particolarmente visibile per ciò che riguarda l'atteggiamento della maggioranza di centrodestra verso i lavoratori stranieri». «C'è una cultura dell'odio e dell'intolleranza - aggiunge Rinaldini - che sta alla base anche del trattamento inflitto ai lavoratori in lotta in casi come quelli verificatisi, nei giorni scorsi, a Pomigliano d'Arco o all'Innse di Milano. E questa è quella stessa cultura che porta il Governo ad agire per stravolgere il Testo Unico sulla sicurezza, e ciò mentre gli incidenti mortali continuano a verificarsi giorno dopo giorno».
«A questa cultura - afferma Rinaldini - noi contrapponiamo la cultura e la pratica della solidarietà. Così come contrapponiamo la rivendicazione del valore della democrazia e del valore del conflitto, l'unico strumento che i lavoratori possono utilizzare per difendere i propri diritti».
Ma ovviamente, la requisitoria è tutta politica ed indirizzata soprattutto contro il Governo. «Ho un sospetto - dice - che l'intezione del Governo sia quella di togliere il diritto di sciopero ai lavoratori. Si tratta di un progetto autoritario che traspare anche dalle dichiarazioni già fatte in passato», ai tempi degli strali di Berlusconi contro l'articolo 1 della Costituzione, «quella in cui si dice che la Repubblica italiana è fondata sul Lavoro». E tocca ancora una volta all'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro pronunciare dal palco una accorata difesa della carta costizionale pronunciando una forte minaccia a «lasciar stare i sindadacati».
Il nuovo grande appuntamento è al Circo Massimo, il 4 aprile, giorno per il quale la Cgil ha in programma una manifestazione nazionale. Che sarà preceduta, a marzo, dalla mobilitazione dei pensionati (il 5 marzo) e della scuola (il 18). Intanto proseguono le assemblee nei luoghi di lavoro.

 

Trovato l'accordo tra governo e regioni sulla copertura 
   Andrea Del Monaco :: il manifesto 14/2/2009

 

Non ci fermiamo qui

di Antonio Sciotto

su Il Manifesto del 14/02/2009

Grande corteo a Roma, con pubblici e meccanici. Podda e Rinaldini: «Il governo risponda». Epifani: «Il 4 aprile al Circo Massimo»

Un fiume di persone, per la prima volta pubblici e metalmeccanici insieme. Un bel colpo d'occhio, soprattutto perché ieri non si manifestava solo per il salario e il contratto, contro la precarietà e la crisi, ma al centro delle preoccupazioni dei lavoratori ci sono anche i diritti, la Costituzione, il rispetto dei migranti. Tutto quello che il governo sta velocemente erodendo. Lo ha spiegato Gianni Rinaldini, leader della Fiom, nel suo intervento dal palco davanti a una piazza stracolma, almeno 700 mila persone secondo il sindacato: «Dobbiamo contrapporre la solidarietà all'odio, l'intolleranza e la divisione che diffondono il governo e la Confindustria: attaccano il diritto alla salute, con la misura sugli extracomunitari, manganellano gli operai di Pomigliano e dell'Innse, vogliono sterilizzare il Testo Unico sulla sicurezza perché - dicono - costa troppo alle imprese».
E così il segretario della Fp, Carlo Podda, ha invitato i medici all'«obiezione di coscienza»: «Io curo, non denuncio», è l'efficace adesivo che i medici di tutta Italia sono invitati a esporre davanti agli ambulatori, per comunicare agli immigrati di non avere paura. E il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, ha detto che «la mobilitazione continuerà»: «Sciopero dopo sciopero riusciremo a far cambiare la politica economica del governo». Ed ecco i prossimi appuntamenti: «Il 5 marzo la manifestazione dei pensionati, poi uno sciopero della scuola, e il 4 aprile tutta la confederazione al Circo Massimo».
A colpire la Cgil, in mattinata, le dichiarazioni del cislino Raffaele Bonanni, che aveva bollato lo sciopero come «politico, dal sapore di sinistra novecentesca». Epifani ovviamente non ha fatto nomi, ma dal microfono ha parlato di «qualche grillo parlante che non rispetta i lavoratori che fanno sciopero». Poi è passato a criticare il governo, ricordando lo «sciopero generale del 12 dicembre»: «Abbiamo chiesto tanti interventi, ma finora cosa abbiamo visto? La crisi è eccezionale, e tutti gli altri paesi hanno stanziato cifre molto più grandi del nostro: sta sbagliando tutto il mondo o sbaglia il nostro governo? Mancano sostegni a chi perde il lavoro: la gran parte dei lavoratori non ha sostegni dopo che perde il posto, e molti sono costretti a vivere con una cassa di 650 euro al mese per diversi mesi. Per loro che si sta facendo? Grazie anche alle nostre lotte, c'è un accordo sugli ammortizzatori, ma allora che siano subito esigibili questi 8 miliardi, non si aspettino i tempi della Ue». Epifani ha poi proposto che altre risorse vengano trovate «alzando la tassazione, anche solo per due anni, a chi ha redditi sopra i 150 mila euro annui», anche perché, sul fronte tasse, nel 2008 «quelli che hanno pagato di più sono stati dipendenti e pensionati, anche a causa del fiscal drag, mentre si allentano i controlli sugli evasori fiscali».
Quanto al modello contrattuale, Epifani attribuisce la maggiore responsabilità al governo, «che ha voluto dividere», ma poi aggiunge che «lo ha voluto anche la Confindustria». «Entrambi - spiega - hanno fatto un errore imperdonabile». Su questo fronte ha insistito molto anche Rinaldini: «L'accordo firmato è brutto, e per quanto ci riguarda non siamo disponibili ad applicarlo. Però siamo venuti con spirito unitario: Cisl e Uil accettino di sottoporlo al voto dei lavoratori, e se loro diranno sì, allora noi firmeremo quell'accordo». Rinaldini ha aggiunto che «è importante che la Cgil abbia chiesto il referendum, e siamo a uno spartiacque: è chiaro che d'ora in poi tutti gli accordi, per tutte le categorie, dovranno essere chiusi con un voto unitario».
Sul tema della democrazia, è tornato quindi anche Epifani, rivolgendosi a Cisl e Uil: «Possiamo avere opinioni diverse, ma è proprio questo il momento di andare davanti ai lavoratori e farli votare. Che senso ha chiamarli a esprimersi solo quando siamo d'accordo?». Sempre sul fronte democrazia, ma estendendola a tutto il Paese, Epifani ha attaccato la misura della Lega che permette di denunciare gli immigrati, e le ronde: «Chi mi assicura che una ronda non attaccherà l'altra? Avremo ronde di diversi partiti? Potenziamo piuttosto la sicurezza pubblica». Poi, contro le ultime uscite del presidente Berlusconi, ha detto che la Cgil «difenderà la Costituzione con le unghie e con i denti».
Altri riferimenti ai progetti del governo li hanno fatti Rinaldini e Podda. Il segretario Fiom ha messo in guardia rispetto al consiglio dei ministri che si terrà tra 10 giorni, quello che si propone di riformare il diritto allo sciopero: «Vogliono far passare gli accordi separati inibendo anche il diritto di sciopero. E' un disegno contro la democrazia». E Podda: «Nel pubblico impiego i lavoratori stanno bocciando nei referendum gli accordi separati, ma il governo mantiene un'impostazione autoritaria, e ha in mente di dare gli aumenti solo se e quando sono disponibili delle risorse. Ma non faremo passare il ministro Brunetta. Ci devono dare risposte sui 60 mila precari che perderanno il posto in questi mesi: siamo per la stabilizzazione, ma intanto almeno proroghino i contratti ed estendano a tutti gli ammortizzatori».

 

700 MILA PER LE VIE DI ROMA

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"Siamo in 700.000"

di ----

su Corriere della Sera ed. internet del 13/02/2009

E' iniziato lo sciopero generale dei metalmeccanici e dei lavoratori del pubblico impiego della Cgil. Fiom e Fp, infatti, in una inedita alleanza, incroceranno le braccia per otto ore contro la politica economica del governo per fronteggiare la recessione in atto. Un no che si allarga anche ad altri temi sull'onda dello scontro politico di queste settimane, dalla riforma sullo sciopero abbozzata dall'esecutivo alla riforma del modello contrattuale chiusa senza la firma della Cgil, dalla politica sull'immigrazione alla difesa della Costituzione.
È stata in media del 50%, secondo la Fiom, l'adesione di operai e impiegati dello stabilimento Fiat di Mirafiori allo sciopero. Per la Fiat l'adesione media è del 16% in tutti gli stabilimenti italiani. «Questo sciopero costa molto ai lavoratori - sottolinea il segretario generale della Fiom torinese, Giorgio Airaudo - perchè questa è una delle due settimane in cui alla Fiat non c'è cassa integrazione. I lavoratori sono stati lasciati soli dal governo e stanno pagando duramente la crisi, noi abbiamo voluto dare voce alle loro paure».

LA MANIFESTAZIONE - E, in piazza, sotto l'esplicito logo «unità anticrisi», stanno sfilando insieme, tute blu e ministeriali, in una manifestazione a Roma. Sono partiti infatti da Piazza della Repubblica, da piazzale dei Partigiani e dalla stazione Tiburtina i tre cortei organizzati in occasione dello sciopero e lentamente stanno confluendo in piazza San Giovanni. In testa ai cortei uno striscione dalla scritta «la dignità del lavoro è un bene pubblico, basta precarietà, più salario, più diritti e legalità». Ad appoggiare la mobilitazione, che è solo la prima di una lunga lista di manifestazioni che culmineranno il 4 aprile prossimo in un grande raduno della Cgil, anche una nutrita pattuglia di politici, oltre 100, riuniti sotto un appello della sinistra del Pd, rappresentanti dell'Idv , di Rifondazione comunista ed un manipolo di nomi della cultura e dello spettacolo.
«Siamo oltre 700mila» ha dichiarato il segretario generale della Fp cgil Carlo Podda.

EPIFANI - E lo sciopero è stata occasione di rinfocolare la polemica intersindacale. Il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, replica infatti al numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, che aveva definito lo sciopero di oggi antagonista: «E’ uno sciopero per chiedere un cambiamento della politica economica del governo, per le tutele ai precari e sostegno di occupazione e imprese. Non capisco cosa ci sia di antagonista. Lui deve dirlo perché se riconoscesse la verità poi dovrebbe giustificare perché non si muove». Secondo Epifani «sulle regole non si possono fare accordi separati. E non dico solo o contro la Cgil. Noi non avremmo fatto un accordo sulle regole senza o contro Cisl e Uil o Confindustria. Trovo giusto dire che - prosegue Epifani - come in Francia, c’è bisogno di una mobilitazione dei sindacati e trovo corretto che un partito come il Pd dica che anche le imprese devono rivendicare politiche più adeguate. Occorre però che i soggetti siano d’accordo. Oggi ci stiamo muovendo solo noi. Cisl e Uil non fanno né scioperi né mobilitazioni. Nelle imprese c’è qualcosa in qualche settore ma ho impressione che la presidenza di Confindustria non ci pensi proprio. Per mobilitarsi contro il governo bisogna avere autonomia nei confronti del governo: la Cgil ce l’ha, sfido gli altri ad averne».
SACCONI - «In questo momento riteniamo che interrompere l'attività produttiva è un errore, ci auguriamo che la situazione di isolamento con gli altri sindacati induca la Cgil a riflettere. Dopo questo costoso rito mi auguro che la Cgil rifletta su questo e sia indotta a ricongiungersi con le altre organizzazioni». Così Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, commenta lo sciopero. «La migliore risposta alle critiche dei manifestanti - afferma Sacconi - è l'accordo tra Governo e Regioni, c'è un percorso che procede sulla base di dialogo con le parti sociali».

 

 

Avanti, fino allo sciopero generale

di Paolo Ferrero

su Liberazione del 13/02/2009

Salutiamo gli operai e le operaie, gli impiegati e le impiegate che hanno scioperato e oggi manifestano per le strade di Roma. Li salutiamo e li ringraziamo. Molti di loro sono in cassa integrazione, sono precari, vedono il loro posto di lavoro a rischio. Sono i lavoratori che stanno pagando per primi il prezzo della crisi e stanno pagando il prezzo più alto. A questi lavoratori Berlusconi e Confindustria vogliono ridurre strutturalmente il salario in virtù di un accordo separato firmato da Cisl, Uil e Ugl. Un salario che già oggi è vergognosamente basso a fronte di profitti altissimi e di scandalosi stipendi dei manager e degli alti dirigenti dello stato. La manifestazione di oggi è quindi una grande risposta di massa - dopo quella degli studenti - al tentativo di governo e padroni di scaricare interamente sui più deboli i costi della crisi. Un tentativo che non solo è ingiusto socialmente ma è anche dannoso sul piano economico.
Ogni riduzione dei salari e delle pensioni, ogni riduzione dello stato sociale non fa che aggravare la crisi. Questa non è il frutto di qualche speculazione finanziaria ma proprio il risultato di vent'anni di compressione salariale: i lavoratori non hanno i soldi per comprare i prodotti che fabbricano e gli imprenditori chiudono perché non riescono a vendere le merci e i servizi che le aziende producono.
Per questo l'accordo separato è una porcheria e questa manifestazione è sacrosanta.
La manifestazione di oggi è anche la prima risposta di massa all'offensiva berlusconiana che è andata in scena in questa ultima settimana. E non si dica che la manifestazione è su altri temi. L'attacco al contratto nazionale di lavoro e il tentativo di distruggere il sindacato di classe sono il presupposto dell'attacco alla Costituzione portato avanti dal piduista che abbiamo a Palazzo Chigi.
Berlusconi infatti non vuole solo cambiare la Costituzione formale, vuole distruggere la Costituzione materiale del paese. Così come vuole un potere sovrano incontrastato da realizzarsi con l'elezione diretta del presidente della Repubblica, così vuole consegnare in mano ai padroni il potere assoluto sui lavoratori. Nel progetto di Berlusconi ogni contropotere, ogni opposizione, ogni limitazione del potere - politico o imprenditoriale che sia - deve essere spazzato via.
Berlusconi vuole estendere a tutta la società quell'idea totalizzante di potere sovrano dell'impresa che Romiti ha reintrodotto a suon di casse integrazioni e licenziamenti a partire dalla Fiat negli anni '80. Non esiste oggi nessuna possibile separatezza tra lotta sociale e lotta democratica perché l'offensiva governativa è sui due fronti. La democrazia si difende anche lottando per il salario e una difesa della Costituzione che non chieda l'estensione della cassa integrazione per ogni lavoratore che perde il posto di lavoro rischia di essere completamente inefficace.
Dalla lotta di oggi contro l'accordo separato riparte quindi il movimento di opposizione nel paese e va a merito della Fiom e della FP della Cgil di aver indetto questa iniziativa. Adesso occorre allargare questa lotta, sia sui territori che arrivando allo sciopero generale. La costruzione dell'opposizione al governo Berlusconi e alla Confindustria, sul piano nazionale come su quello locale è infatti lo sbocco obbligatorio di questa manifestazione. L'opposizione è da costruire principalmente nel paese perché l'opposizione parlamentare procede a corrente alternata ed è sostanzialmente inutile. Mentre nel 2003 l'opposizione stava tutta quanta insieme alla Cgil a difendere l'articolo 18, oggi il Pd non ha aderito a questa iniziativa perché nella sostanza condivide i contenuti dell'accordo separato. La linea politica del Pd è oggi assai più in sintonia a quella della Cisl e di Confindustria che a quella della Cgil.
Dobbiamo quindi costruire l'opposizione di massa nel paese, sia sul piano sindacale che sul piano politico, nella piena consapevolezza che il Pd non sarà dalla nostra parte. Lavorare a costruire l'opposizione dal basso: questo è l'impegno che assumiamo come Rifondazione Comunista e in questa prospettiva dobbiamo lavorare nei prossimi mesi, ufficio per ufficio, fabbrica per fabbrica, quartiere per quartiere.

 

 

Speciale Liberazione: L'ACCORDO DELLA ROTTURA

- L'accordo della rottura  

Dino Greco (Liberazione del 01/02/2009)

- Riduzione scientifica dei salari, il cuore dell'accordo  

Fa. Seba. (Liberazione del 01/02/2009)

- «La democrazia nasce sul luogo di lavoro»  

Fabio Sebastiani (Liberazione del 01/02/2009)

A colloquio con Gianni Rinaldini, segretario generale della FIOM

- «Le donne già penalizzate. E l'accordo toglie garanzie»  

Fabrizio Salvatori (Liberazione del 01/02/2009)

A colloquio con Rosa Pavanelli

- Ebbene sì, agli accordi separati si può resistere  

Piergiovanni Alleva (Liberazione del 01/02/2009)

- Attacco al diritto di sciopero. S'inizia dai lavoratori pubblici  

Carlo Podda * (Liberazione del 01/02/2009)

- Con le deroghe la crisi sarà pagata dai lavoratori 

Fausto Beltrami * (Liberazione del 01/02/2009)

 

"Padroni all'arrembaggio. Serve una Cgil di lotta"

Intervista a Giorgio Cremaschi

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di Fabio Sebastiani

su Liberazione del 28/01/2009

A colloquio con Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom

Sul salario siamo alla guerra di cifre tra Cgil e Confindustria. Dove sta l'inghippo?
Il fatto che la Confindustria imbrogli così clamorosamente sui soldi indica che ha paura. Non c'è un lavoratore in Italia che creda davvero che avrà più salario. Il centro studi della Confindustria è gente poco seria. Mescolano statistiche con promesse. Le stesse dell'abolizione della scala mobile. Questo accordo separato taglia i salari e distrugge il contratto nazionale.

Nel merito?

Taglia i salari perché assume come riferimento rigido e obbligatorio un indice di inflazione dato da un ente esterno e depurato dai costi dell'energia. Questa è matematicamente la riduzione del salario. E' bene ricordare che l'inflazione programmata del Governo era più o meno la stessa cosa, solo che allora c'era la possibilità di non tenerne conto quando non fosse stata concordata. Così invece avremmo una inflazione programmata che diventa obbligatoria. Per fare un esempio sul contratto dei metalmeccanici, l'ultimo accordo ha dato 127 euro su due anni e mezzo. Se avessimo dovuto applicare il nuovo accordo, dove tra l'altro si dovranno prendere a riferimento per gli aumenti paghe più basse di quelle che abbiamo preso a riferimento noi, avremmo avuto un aumento tra i 70 e gli 80 euro su tre anni.

Confindustria trucca le carte?

Sono degli imbroglioni. E l'imbroglio purtroppo verrà fuori alla prima trattativa contrattuale perché loro calcolano come se tutti i lavoratori lavorando di più guadagnassero di più. Nella sostanza, tagliano i soldi del contratto nazionale promettendo che azienda per azienda lavorando di più prenderanno di più. E' tutto finto. Mentono sapendo di mentire.

E comunque hanno un'arma in più, la deroga. Giusto?

Il principio della deroga al contratto nazionale è incostituzionale. Mi vergogno per quei sindacalisti che l'hanno firmato. Sottoscrivere che a livello aziendale e territoriale si possono fare accordi, nel nome dell'occupazione, che non applicano più i minimi salariali, gli orari, i diritti previsti del contratto nazionale, significa distruggere l'essenza stessa del contratto nazionale e cioè che esso vale sempre e comunque e per tutti e tutte. D'altra parte il senso dell'accordo è quello di cambiare la Costituzione del sistema sindacale, dagli enti bilaterali all'arbitrato alla centralizzazione burocratica delle relazioni sindacali si scrive un nuovo modello autoritario. Autoritario anche nella forma, visto che viene concordato escludendo la Cgil e negando il diritto dei lavoratori a decidere.

Questo sembra essere un accordo senz'anima. E se ce l'ha è nera. Almeno nel '93 c'erano degli obiettivi.

Quest'accordo è solo peggiorativo del '93. Quello del '93 andava migliorato. Qui si risolvono in peggio i punti critici. A livello aizendale non si estende di un centimetro quadrato l'area della contrattazione aziendale che resta esattamente quella di prima, ma in più si vincola il salario alla produttività. E' una vittoria su tutta la linea degli industriali più aggressivi cioè, per essere chiari è un disegno sociale che dice che la crisi la pagano i lavoratori con il loro costo della lavoro e che la competitività si fa tagliando i salari e aumentando lo sfruttamento.

Se si esce dalla crisi si esce dalla porta di servizio?

Questo è l'accordo della complicità. Si punta all'idea che imprese e lavoratori azienda per azienda devono essere complici dimenticando qualsiasi diritto universale. Nella sostanza questo accordo è il proseguimento delle politiche liberiste che stanno fallendo in tutto il mondo. E' come se alla borsa di New York non fosse successo nulla.

Evidentemente, in Italia le notizie di New York non arrivano...

In Italia è stato possibile per l'arroganza e l'arretratezza del padronato, perché abbiamo al governo una destra che per sua natura nega la crisi e, soprattutto, le sue cause; e perché una parte del sindacato e gran parte dell'opposizione politica sono ancora totalmente subalterni all'ideologia liberista che ci ha portato al disastro.

La politica sembra volersi tenere distante dal merito di questo accordo separato...

Mi ha colpito l'intervista di Veltroni sul Sole 24 ore dove sostiene che per pagare la cassa integrazione ai precari bisogna tagliare i rendimenti delle pensioni. Se il segretario dell'opposizione è più berlscuoniano di Berlusconi è chiaro perché si finisce in questi accordi. L'Italia è un paese dove l'unico conflitto che si vuole impedire ed esorcizzare è quello dei lavoratori contro le imprese; mentre si alimentano tutti gli altri conflitti. Un accordo così ridicolo e pericoloso è possibile solo perché la politica e una parte del sindacato italiano sembrano ancora la succursale di propaganda della Lehman Brothers.

Succederà come con l'Alitalia, per la Cgil ci sarà un secondo tempo?

E' su questo che sta provando Veltroni. Dio ce ne scampi e liberi. La verità è che la Cgil si è trovata nella posizione di interpretare un ruolo molto più ampio, quello di rispondere a tutta quella parte dell'Italia, che non è solo nel mondo del lavoro, che non crede più alle ricette berlusconiane e che è molto più ampia di quello che appare nelle istituzioni. Proprio per questo la tenuta della Cgil è ciò che può scardinare il disegno liberista. Che può funzionare solo con la complicità di tutti, altrimenti salta. Ripeto, le imprese hanno paura che l'accordo non funzioni e per questo sperano che nel giro di qualche mese la Cgil torni all'ovile sottoscrivendo domani quello che oggi respinge.

Però in Cgil c'è molto dibattito proprio su questo.
E' chiaro che c'è stata una evoluzione nelle posizioni della Cgil, che è sciocco negare. Così come è sbagliato dimenticare gli errori anche gravi fatti. Insomma, la Cgil è entrata dentro questa trattativa con una linea di prudente concertazione che è stata travolta dai fatti, e che ora la pone di fronte a un bivio. O fare un po' di chiasso e poi andare a Canossa, oppure costruire una linea di conflitto sociale duratura che facendo saltare l'accordo della complicità apra la via a un diverso modo di affrontare la crisi. E' chiaro allora che la lotta contro l'accordo è assolutamente parallela a quella contro i licenziamenti, il precariato, la chiusura delle aziende, le privatizzazioni. Su entrambi i fronti, quello del salario e dell'occupazione ci battiamo contro lo stesso disegno liberista di politica economica e sociale.

Questo accordo con la Fp/Cgil che prospettive apre?
Fiom e Funzione pubblica hanno il merito di aver detto basta per primi, credo che un po' alla volta lo faranno anche altri. Sotto questo aspetto il 13 febbraio va considerato non solo come, giustamente, il primo appuntamento del no all'accordo della complicità, ma anche l'avvio di un processo più ampio di ricostruzione del conflitto e della solidarietà nel mondo del lavoro.

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Ronde come contractors in una logica di assedio della cittadinanza 
   Pietro Ancona ::  21/2/2009

   

DL varato, ronde legali, ma il premier ammette "E' frutto del clamore"


Superate le perplessità del Colle e quelle di La Russa, alla fine il decreto legge anti-stupri, comprensivo di ronde, è stato approvato all'unanimità dal consiglio dei ministri

 

Romina Velchi
Superate le perplessità del Colle e quelle di La Russa, alla fine il decreto legge anti-stupri, comprensivo di ronde, è stato approvato all'unanimità dal consiglio dei ministri.
Alla conferenza stampa finale erano tutti visibilmente soddisfatti. Berlusconi per primo per aver portato a casa l'ennesimo decreto: «E' uno strumento essenziale - torna a ripetere - affinché un governo possa intervenire tempestivamente». Peccato che il fenomeno degli stupri, nel 2008, risulti in «calo del 10% anche nella Capitale», ammette il premier. Ma il provvedimento è giustificato lo stesso, chiarisce il premier, dal «clamore» suscitato nell'opinione pubblica dagli ultimi gravissimi fatti. Come dice l'Unione delle camere penali, il decreto, per bocca dello stesso Berlusconi, serve solo a «soddisfare gli umori della piazza». Tant'è.
Soddisfattissimo è il ministro La Russa, che non ha mancato di sottolineare che il decreto è stato modificato su indicazioni di An. Si riferisce alle ronde, approvate nella versione soft: ne faranno parte prevalentemente ex componenti delle forze dell'ordine e delle forze armate (come chiedeva lo stesso La Russa) e saranno sotto la responsabilità di prefetto e Comitato per l'ordine e la sicurezza, «una assoluta garanzia».
Ma è forse il ministro dell'interno il più contento: questo decreto era soprattutto un suo chiodo fisso. Anche se Napolitano e La Russa gli hanno dato filo da torcere, Maroni è riuscito a portare a casa un provvedimento che anticipa molte delle misure ancora ferme al parlamento. Anzi, rende noto, «quando sono tornato a presentare il testo al presidente della Repubblica, lo abbiamo concordato senza nessuna difficoltà, obiezione o forzatura di alcun tipo»: nessun veto, insomma. Ma quel «concordato» deve essere andato di traverso al presidente della Repubblica se, qualche ora dopo, in un comunicato il Quirinale afferma che i contenuti del decreto legge sono «esclusiva responsabilità del governo» e che la presidenza della Repubblica si è limitata a «verificarne i profili di costituzionalità, oltre che la coerenza e correttezza legislativa nel rapporto con l'attività parlamentare».
Le ronde, innanzitutto. Secondo Maroni, il dl non fa che regolamentare «la presenza dei volontari della sicurezza», un fenomeno «che già oggi si svolge sul territorio con una sorta di "ronde fai da te"». Tali "volontari per la sicurezza" (li hanno già ribattezzati così) «non verranno pagati» e «saranno armati solo di ricetrasmittenti» per segnalare a chi di dovere eventuali situazioni pericolose. Gli stanziamenti aggiuntivi previsti nel decreto (100 milioni) verranno utilizzati per l'incremento degli organici delle forze di polizia (saranno assunti altri 2.500 operatori) e per il potenziamento dei mezzi in uso. Seguirà un altro decreto «per stabilire ambiti operativi requisiti e disciplina degli elenchi dei cittadini, che saranno tenuti dalle prefetture».
Per non dire che Maroni è riuscito nell'intento di aggirare il parlamento. Il Senato, infatti, aveva bocciato un emendamento leghista che allungava da due a 18 mesi il tempo di detenzione nei centri di identificazione per immigrati. Certo, non poteva riproporlo paro paro (Napolitano non l'avrebbe permesso), ma da oggi un cittadino straniero potrà essere trattenuto per sei mesi.
Tutta contenta anche il ministro Carfagna, che nel dl vede dare immediata attuazione alle nuovissime norme contro lo stalking (le molestie e minacce insistenti e reiterate). Il ddl è stato approvato da una sola Camera, ciò che fa dire a Berlusconi «che i tempi con cui il Parlamento approva le norme sono sotto gli occhi di tutti». Da oggi, quindi, questo tipo di molestie sono punibili con pene da sei mesi a quattro anni di carcere.
Il decreto contiene anche altre norme annunciate: il divieto degli arresti domiciliari per chi è accusato di violenza sessuale; ergastolo per gli stupratori omicidi; il patrocinio gratuito a spese dello Stato per le vittime; divieto degli arresti domiciliari e quindi obbligatorietà della custodia cautelare in carcere per i delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile, turismo sessuale, violenza sessuale (esclusi i casi di minore gravità), atti sessuali con minorenne e violenza sessuale di gruppo; arresto obbligatorio in flagranza per i casi di stupro, con conseguente possibilità di procedere con rito direttissimo e celebrare il processo anche nell'arco di 48 ore; infine, niente benefici penitenziari (legge Gozzini). Ed ecco perché è soddisfatto anche il Guardasigilli Alfano. Così, spiega, «anticipiamo di circa 100 giorni gli effetti giuridici di norme già presenti o approvate in precedenza dal Parlamento».
Fuori da Palazzo Chigi la musica è diversa. Ci sono i penalisti, come detto, che sollevano dubbi di costituzionalità. C'è la Cgil che considera le ronde «un grimaldello attraverso cui può avviarsi un percorso di privatizzazione e di messa in discussione del ruolo dello Stato, e quindi delle Forze dell'Ordine, in materia di sicurezza pubblica». Ci sono i magistrati che bocciano i provvedimenti dettati dall'emergenza («Per realizzare la certezza della pena occorre garantire il funzionamento del processo. E questo è possibile non limitando gli strumenti di indagine e sopperendo alle gravi situazioni di deficit negli organici»).
E poi c'è l'altra metà del parlamento (e della politica). Il Pd parla di «provvedimenti contraddittori». «Sanno gli italiani - si domanda retoricamente la capogruppo Pd al Senato, Anna Finocchiaro - che le Forze di Polizia, prima delle misure annunciate oggi, si sono viste tagliare le risorse, mezzi e uomini, per contrastare la criminalità e tutelare la sicurezza dei cittadini?». Concetti simili esprime Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera, secondo il quale «quello delle ronde è un falso problema. Il governo non dice che, se solo non avesse tolto in finanziaria la possibilità alle forze dell'ordine di fare straordinari, adesso avremmo sulle strade circa 10mila poliziotti in più».
Non usa mezzi termini, infine, Paolo Ferrero: le ronde sono una misura «propagandistica», perché «in uno Stato che ha oltre mezzo milione di addetti alla sicurezza si tratta di far funzionare e dotare queste forze di mezzi adeguati».


Liberazione 21/02/2009

Vecchi miti patriarcali per nuovi fascismi

 

Beatrice Busi


«Le donne divengono uno strumento per lanciare messaggi alla società italiana». Una frase degna di una femminista radicale, quella pronunciata dal sindaco di Roma, durante la conferenza stampa del Consiglio dei Ministri che si è tenuta ieri mattina per presentare il cosiddetto decreto anti-stupri. Peccato che Alemanno l'abbia usata per riferirsi ad alcune frasi della confessione di Alexandru Isztoika Loyos, uno degli accusati dello stupro di San Valentino al parco della Caffarella di Roma, riportate dai media nei giorni scorsi. Eppure questa stessa frase, paradossalmente, riassume in modo molto preciso proprio il senso profondo del pacchetto sicurezza, approvato a colpi di decreto legge, nel perfetto stile neonapoleonico di questo governo. Un curioso cortocircuito della comunicazione, uno scivolamento argomentativo, che svela molto di più, rispetto a quello che passa "in chiaro". Che c'è un continuum preoccupante tra la cultura dello stupro e quella promossa non solo da questo governo, ma anche da quello precedente, con il Veltroni sindaco in prima linea che, allo stesso modo, aveva usato il caso di Giovanna Reggiani per giustificare i provvedimenti razzisti di centrosinistra. La violenza contro le donne è un argomento strumentale, un mezzuccio, un pretesto, per lanciare messaggi alla società, per scambiarsi lezioni di virilità nell'era della sua crisi più profonda.

«Guarda come deve fare un uomo con una donna», avrebbe detto il giovane stupratore al ragazzino impotente costretto ad assistere alle violenze, quasi che fosse una lezione di mascolinità, da uomo a uomo. Tranquilli, a proteggere le "nostre donne", ovviamente, dall'immigrazione - come esplicitano i neofascisti di Casa Pound sui muri delle città, ormai ogni giorno - ora ci pensano le ronde.
Branchi di ex carabinieri, poliziotti, militari, parà e bravi cittadini di varia provenienza e natura, moderni cavalieri pronti a salvare le vergini in pericolo. Perché gli stupri commessi da "questi qui", sono diversi da quelli commessi dai "nostri ragazzi". Lo ha detto, candidamente, una signora molto perbene, intervistata da Repubblica Tv mentre manifestava, mercoledì sera, per le vie del quartiere Appio Latino di Roma, insieme al comitato "Donne per la sicurezza" e a Teodoro "er Pecora" Buontempo. «Basta con le cazzate femministe - ha aggiunto -, i loro sono stupri etnici, lo fanno per farci sentire in ostaggio». La femminista nera bell hooks si interrogava sulla capziosità di queste distinzioni già in "Riflessioni su sesso e razza", un saggio della fine degli anni Ottanta contenuto in Elogio del margine, a proposito del razzismo della società americana. «E perché mai il sessismo dei maschi di colore viene evocato come se si trattasse di un disordine sociale di marca speciale, più pericoloso, più abominevole e minaccioso del sessismo che pervade la cultura nel suo insieme, o del sessismo che informa il dominio sessuale dei bianchi sulle donne?». Perché gli stupratori stranieri, come quelli di San Valentino possono essere disumanizzati - sono belve -, mentre gli stupratori italiani, come quello di Capodanno, vengono spesso rappresentati come "bravi ragazzi" che hanno commesso un tragico errore? «La ragazza era bella, aveva la gonna, amoreggiava con il suo fidanzato, l'abbiamo violentata per sfregio», ha detto lo stupratore della Caffarella.
Argomentazioni che suscitano inquietudine e sacandalo nell'opinione pubblica, ma che erano la regola nei nostri tribunali fino all'altro ieri, e che continuano ad essere agitate ancora oggi dagli avvocati della difesa, dai media, dalle famiglie, per "attenuare" le responsabilità degli stupratori italiani, brava gente. La fantasia del protettore e della donna in pericolo, l'investitura cavalleresca data alle ronde dal decreto legge appena varato in pompa magna, non serviranno di certo a combattere la cultura maschile della violenza e dello stupro. Perché la rituale drammatizzazione di una maschilità sopraffatrice, la cieca messa in atto del mito della virilità attraverso lo stupro, è solo l'altra faccia della medaglia, quella brutale, del paternalismo autoritario dei governi che usano le donne per lanciare messaggi mistificatori alla società, alimentandone le paure più becere e legittimando l'uso indiscriminato della violenza contro la violenza.
Governi, di destra o di centrosinistra che siano, che continuano a negare che la violenza contro le donne è una questione intimamente legata alla costruzione sociale della mascolinità, che viene esercitata soprattutto nella rassicurante trappola delle pareti domestiche, dove è troppo facile che gli stessi cavalieri pronti a bastonare un migrante per strada, si sentano in diritto di alzare le mani sulle "proprie" compagne, mogli, fidanzate, figlie. Troppo spesso fino ad ammazzarle, per punirle, se peccano di troppa libertà e autonomia. Perché il monopolio del controllo sul corpo delle donne dev'essere loro e soltanto loro. Loro e della patria nazione.


Liberazione 21/02/2009

 

La memoria abbandonata
L'anniversario della strage nazista delle Fosse Ardeatine è stato segnato quest'anno da un doppio, concentrico pessimo uso della memoria: la falsificazione antipartigiana da una parte, l'esorcismo conciliatorio dall'altra. La falsificazione è l'indecente campagna scatenata dal giornale dei vescovi e ripresa dall'immarcescibile Tg2, sulla presunta responsabilità dei partigiani, rei di non essersi consegnati ai nazisti per evitare la rappresaglia. Le basi di questa campagna sono quanto di più inconsistente: per l'ennesima volta, è saltato fuori qualcuno che dice o scrive di avere visto il mitico manifesto in cui si invitavano i partigiani a «presentarsi»...
Alessandro Portelli :: il manifesto 26/3/2009  continua...

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